Pubblichiamo qui la traduzione in italiano della terza parte del testo “Masterclass della fine del mondo”. L’originale in portoghese è consultabile su neblina.xzy. La prima parte è disponibile qui, la seconda qui e la terza qui.
Lotta di classe informe
Nei primi giorni di marzo 2019, i passeggeri hanno trovato le biglietterie chiuse in diverse stazioni della metropolitana di San Paolo. Non era di per sé una sorpresa, visto che i mal di testa con il sistema di ricarica dei biglietti elettronici fanno parte della routine di chi si muove sui mezzi pubblici. Ma quello che in apparenza sembrava più un problema tecnico, era invece un movimento invisibile di bigliettai che lavoravano in imprese in subappalto contro le trattenute illegali sui loro salari, oltre ad altri espedienti illeciti frequentemente utilizzati dall’impresa fornitrice del servizio per ridurre le sue spese del personale.[1] “Sfruttando il confine ambiguo tra la precarietà del sistema già solitamente disfunzionale, la perdita di tempo (…) e lo ‘stop parziale’ di fatto”, i bigliettai in outsourcing hanno condotto uno sciopero intermittente in cui le interruzioni e il ritorno al lavoro si sono succeduti “in varie biglietterie, secondo le opportunità, la forza del momento”, e senza alcun apparente coordinamento.[2] A un tornello di distanza, il conflitto passava quasi inosservato agli occhi della maggior parte dei dipendenti fissi della metropolitana, noti per la loro intensa attività sindacale. Oltre a mostrare l’abisso aperto dall’esternalizzazione all’interno di uno stesso spazio di lavoro, la difficoltà di riconoscere quello sciopero, completamente al di fuori del rito ufficiale – senza un inizio o una fine delimitati, senza un annuncio chiaro, senza assemblee o negoziati formali – è un segno della perdita di forma del conflitto sociale nel mondo del lavoro informe.[3]
Come la mobilitazione clandestina nelle biglietterie, gli innumerevoli blocchi dei riders esplodono ed evaporano senza contorni precisi, negli spazi d’ombra rivolti al lavoro diffuso che muove la logistica urbana: banchine dei centri commerciali, entrate d’accesso per le consegne, centri di distribuzione, dark kitchen e dark store[4], oltre agli ambienti virtuali. Se tra i subappaltatori della metropolitana l’insubordinazione oscillava da una stazione all’altra a seconda delle lacune e della pressione del momento, tra i rider è frequente che il conflitto salti di negozio in negozio, da un quartiere all’altro, o da una città all’altra in modo discontinuo e imprevedibile: quando i primi scioperanti raggiungono il limite delle loro forze e risorse, un nuovo gruppo annuncia uno sciopero in un altro posto, contagiati da video e racconti che si diffondono in tempo reale.
Quando l’alto turnover di manodopera è la regola, anche le lotte diventano altamente rotative: all’interno della stessa città non è comune che i rider che sono “in prima linea” in una protesta abbiano partecipato a movimenti precedenti. E se ciò rende difficile un processo serio di cooptazione della leadership, la dinamica centrifuga delle lotte sfida anche qualsiasi sforzo di organizzazione del movimento. Gruppi WhatsApp nascono e vengono abbandonati ad ogni mobilitazione, i lavoratori si riuniscono e si disperdono con la stessa volatilità con cui si interrompe una conversazione sul marciapiede quando arriva un nuovo ordine: come le molecole di gas che si condensano al momento della tempesta, è solo al momento dello scontro che questo proletariato nella nube prende corpo.
“Una ‘base’ che esiste solo in un processo di conflitto”, che si “dissolve non appena l’azione declina”, “non è disponibile per essere gestita”.[5] Gli stessi leader che emergono pubblicamente, lungi dal dirigere un contingente coeso di rider, si affidano, nel migliore dei casi, a una rete diffusa di seguaci, anche loro nel cloud. Per gli youtuber e gli influencer legati al movimento, più “imprenditori politici” che veri e propri leader[6], l’impegno nella causa si confonde spesso con una carriera personale. Vincere la lotta non è dissociato dal vincere con la lotta, che può significare qualsiasi cosa, dalla monetizzazione dei video alla collaborazione in azioni di marketing, fino ad essere invitati a diventare proprietari o gestori di un operatore logistico. L’ambiguità, che descrive una zona di indistinzione tra l’azione politica e il lavoro, è già in qualche misura contenuta nel vocabolario corrente dei rider: essere un “guerriero” o “andare alla lotta” sono espressioni che possono riferirsi sia al conflitto contro la piattaforma sia alla guerra a bassa intensità vissuta nella corsa quotidiana su due ruote.[7] La profusione di candidature di lavoratori di piattaforma alle elezioni comunali del 2020[8], per lo più a rappresentanza di partiti “fisiologici” [così vengono chiamati in Brasile la maggior parte dei partiti, definiti anche come centrão, che non hanno una posizione ideologica precisa ma che tendono a sostenere il governo di turno, NdT] e di destra, rappresenta molto più un percorso di ascensione individuale che la tattica deliberata di un movimento articolato del settore, che non esiste.
Oggi, le strutture organizzative resistono solo al di fuori del conflitto, nella misura in cui cominciano a funzionare come ingranaggi del lavoro stesso, come nel caso delle innumerevoli associazioni professionali, sindacati e cooperative che funzionano, per i rider, come canali di inserimento nel mercato del lavoro – così è anche per i grandi movimenti sociali di decenni fa, che ora sussistono come mediatori di accesso ai programmi governativi e al mercato. Basti ricordare l’ultimo successo del Movimento dei Senza Terra (Movimento dos Trabalhadores Rurais Sem Terra – MST) nel settore finanziario, una partnership con grandi gruppi imprenditoriali per raccogliere fondi per sette cooperative di agricoltori – alcune delle quali sono tra i maggiori produttori di cibo biologico del continente[9] – emettendo obbligazioni alla portata di “piccoli e medi investitori” su una piattaforma online.[10] Di fronte all’insufficienza e allo smantellamento delle politiche di promozione della cosiddetta “agricoltura familiare”, l’MST ha fatto ricorso direttamente al mercato, in un’operazione che ha raccolto oltre 17 milioni di reais [più di 3 milioni di euro, NdT] senza la mediazione di programmi governativi, in linea con il crescente apprezzamento (e quantificazione) dell’“impatto sociale” da parte degli investimenti in tutto il mondo.[11]
Per inciso, è da diverso di tempo che certi movimenti sociali sono migrati verso la nube. Durante tutti gli anni 2000, la sfida di gestire accampamenti con centinaia di famiglie nelle periferie, attraversate da dispute con poteri territoriali concorrenti e sempre con l’imminenza dello sgombero, hanno fatto sì che sempre più movimenti per la casa – in particolare il Movimento dei Senza Tetto (Movimento dos Trabalhadores Sem Teto – MTST) – cominciassero a riconoscere le occupazioni come un momento necessariamente provvisorio e ad adottare, come struttura permanente, un grande sistema di registro delle famiglie. Mentre altre organizzazioni costituivano una base facendo pagare l’affitto negli edifici occupati, l’MTST ha allargato le sue fila chiedendo impegno piuttosto che denaro: la partecipazione ad assemblee e manifestazioni fa guadagnare punti che determinano l’accesso alla “bolsa aluguel” (sussidio per l’affitto) negoziata con il governo, e lo score di ogni famiglia determina il ranking nella fila d’attesa per la casa promessa.[12] In breve, il “lavoro di base” ha lasciato il posto al lavoro della base. Con un nucleo tecnologico pionieristico, il movimento ha digitalizzato parte di questa logistica interna delle occupazioni e delle manifestazioni in un’App e, più recentemente, ha lanciato la campagna “Contratta chi lotta”, che si basa su un bot di WhatsApp capace di connettere i sem teto registrati ai clienti in cerca di una serie di servizi.[13]
Se “la frontiera tra le forme di associazione finalizzate alla lotta collettiva e quelle destinate a coinvolgere ulteriormente il lavoratore nello sfruttamento si è sfumato”,[14] non è un caso che i conflitti del nostro tempo avvengano al di fuori delle organizzazioni consolidate, o addirittura contro di esse, ma senza costruire alcuna struttura al loro posto. La più grande ondata di scioperi nella storia del paese, dal 2011 al 2018 – e non negli anni ‘80, come si potrebbe supporre – ha così poco a che fare con il ciclo di lotte che ha segnato la fine della dittatura che il confronto diventa quasi fuori luogo.[15] Riemergendo quarant’anni fa in nicchie fordiste relativamente stabili, il sindacalismo nutriva ancora un orizzonte di espansione delle conquiste, in cui si forgiavano nuove e importanti organizzazioni di massa, integrate nello sforzo generale di “costruire la democrazia” – mantra che, da allora in poi, si sarebbe dissipato “in un perpetuo presente di lavoro raddoppiato”.[16] Nell’ultimo decennio, gli scioperi hanno cominciato “a verificarsi, sempre di più, nel campo delle reazioni immediate e urgenti”[17]: per il pagamento dei salari in ritardo e il rispetto della legislazione, contro la chiusura di stabilimenti e i licenziamenti di massa, e altre rivendicazioni “difensive” di questo tipo. Portati avanti fuori dai sindacati e spesso ostili ai loro rappresentanti, tali movimenti hanno talvolta assunto tratti insurrezionali, come le ribellioni nei cantieri delle grandi opere del Programma di Accelerazione della Crescita (Programa de Aceleração do Crescimento – PAC)[18] o gli scioperi a gatto selvaggio degli autisti di autobus fuori dai garage alla vigilia della Coppa del Mondo[19].
Nonostante la sua portata senza precedenti, la valanga di scioperi degli anni 2010 non ha lasciato spazio a nessun “accumulo di forze” – né qui né in Cina. Contrariamente a quanto si potrebbe immaginare, la situazione era infatti simile anche nel cuore industriale del pianeta, che ha vissuto un’ondata di moti operai nello stesso periodo. Senza canali ufficiali di rappresentanza, gli scioperi sparsi e violenti che si sono moltiplicati nelle fabbriche cinesi “non sono riusciti a costruire un’organizzazione duratura o ad articolare richieste politiche”.[20] Condividendo certi aspetti con il riot, lo sciopero appariva come un momento per “strappare tutto il possibile” in cambio dell’insopportabile vita quotidiana nei distretti industriali: “per recuperare salari non pagati, bonus vacanze e benefici, o semplicemente per vendicarsi dei dirigenti che commettevano molestie sessuali, dei capi che pagavano i sicari per picchiare i lavoratori in lotta, ecc.”[21] Altre volte, i lavoratori si limitavano a farla finita con il lavoro e abbandonare i propri alloggi; “prendevano solo i soldi e se ne andavano”, per usare la tipica espressione dei lavoratori migranti cinesi che è recentemente diventata virale insieme ai video che criticano la vita in fabbrica.[22]
Senza il vecchio “orizzonte di ‘conquiste’ da accumulare, in una prospettiva più ampia di integrazione progressiva”, ciò che resta alle lotte del nostro tempo è rifluire o esplodere rapidamente, “assumendo senza alcuna mediazione forme insurrezionali (senza prima e dopo)”[23]. Così, le proteste contro un aumento dei biglietti dei trasporti diventano, in pochi giorni, terremoti nelle strade del Brasile o del Cile; la violenza della polizia incendia le città in Grecia, negli Stati Uniti o in Nigeria; un aumento del prezzo della benzina paralizza l’Ecuador, la Francia, l’Iran o il Kazakistan. Anche se le richieste iniziali forniscono contorni minimi a queste rivolte, la loro esplosione tende a estrapolarle e a diluirle in una rivolta generalizzata contro l’ordine costituito – che finisce per tradursi in molti casi, in maniera imprecisa, in una rivolta “contro il governo”.[24]
Tanto intensi quanto discontinui, senza mai assumere forme stabili, i conflitti che proliferano da un capo all’altro del globo possono essere descritti come “non-movimenti sociali”.[25] Portata nei dibattiti di certi ambienti militanti, l’espressione torna utile in un contesto di “lotta di classe senza organizzazione di classe”,[26] sempre più atomizzata, la cui propagazione passa più attraverso azioni che si replicano in maniera dispersa che attraverso strutture centralizzate. I non-movimenti si espandono attraverso gesti che possono essere “copiati e imitati, accumulando istanze di ripetizione”[27] e ramificandosi come i meme su Internet – solo che nelle strade, in una dinamica che alimenta le reti. È il caso del Breque dos Apps, che non era né un’organizzazione né una campagna pianificata, ma un gesto replicabile diffuso attraverso video che seguivano lo stesso copione. E anche degli scioperi nel settore del telemarketing subito dopo l’arrivo del nuovo coronavirus da queste parti; dei blocchi di decine di rotonde da parte di pedoni vestiti con gilet gialli in Francia; dei salti dei tornelli studenteschi e della “primera línea” nelle proteste cilene… Attraverso la moltiplicazione di queste manifestazioni decentralizzate, i conflitti acquistano scala senza acquisire una forma stabile (quando la forma è fissa, il meme perde forza e corre il rischio di diventare un marchio, un’immagine vuota di contenuto, un’estetizzazione della rivolta).[28]
Sotto la pressione di disordini diffusi e senza interlocutori con cui negoziare, i governi e le imprese di tutto il mondo sono sfidati a “rispondere unilateralmente e razionalmente a un’insurrezione ‘irrazionale’”[29]. La formalizzazione dei non-movimenti – cioè la loro traduzione in una grammatica leggibile dalle istituzioni – appare qui come una precondizione per la loro neutralizzazione e incorporazione. Tuttavia, anche quando le rivolte sono vittoriose nelle loro rivendicazioni immediate, il ritorno alla normalità porta di solito la sensazione che nulla sia migliorato, o addirittura che la situazione sia peggiorata. L’incapacità dello Stato di assorbire completamente l’energia della contestazione lascia un’insoddisfazione latente, che può rovesciarsi nell’inverso dell’impulso originale – non è stata questa, dopo tutto, la continuità tra la rivolta del giugno 2013 e l’insorgenza bolsonarista?[30] Dall’elezione di politici che assumono apertamente la violenza sociale alla degradazione in vere e proprie guerre civili, i non-movimenti finiscono spesso per accelerare la tendenza distruttiva della crisi stessa.[31] Mobilitazioni intense ed estenuanti che, tuttavia, non portano da nessuna parte: anche i conflitti del nostro tempo sono forse presi nel ciclo infernale del nèijuǎn?
Sui muri carbonizzati delle stazioni della metropolitana di una Hong Kong in rivolta, frasi come “preferirei diventare cenere che polvere” o “se bruciamo noi, voi bruciate con noi” condensavano un’immagine precisa non solo della strada senza uscita affrontata dai rivoltosi di quella città, ma del clima soffocante che grava sulle rivolte del nostro tempo.[32] Se ha poco senso parlare di accumulo di forze, “la rabbia certamente si accumula”[33] ed è sempre a un passo dal degenerare in violenza tra gli stessi oppressi. Senza cambiamenti significativi nelle condizioni di lavoro, non è raro sentire rider che difendono i blocchi come un modo per almeno vendicarsi delle piattaforme[34] – ma l’odio collettivo può rapidamente rivolgersi anche contro un autista in un litigio nel traffico o un ladro di moto colto in flagrante e sul punto di essere linciato. Con gli stessi contorni vendicativi e suicidi delle esplosioni individuali di disperazione, gli scontri spesso si riducono a un’escalation di violenza insensata.[35] E qualcuno deve rimanere per pulire – come accadde la mattina dopo la più grande manifestazione della storia del Cile, quando degli immigrati venezuelani si organizzarono per pulire volontariamente le strade del centro di Santiago; o a Quito, in quello stesso ottobre 2019, dove la pulizia delle barricate fu lasciata a un’iniziativa collettiva organizzata dal Coordinamento Nazionale Indigeno dell’Ecuador (Coordinadora Nacional Indígena del Ecuador – CONAIE) dopo l’accordo che mise fine alla rivolta. Viste da questa prospettiva, rivolte e ribellioni delle più svariate dimensioni diventano un altro fatto di routine della nostra catastrofica vita quotidiana.
È interessante notare che il termine “non-movimenti” sia apparso per la prima volta nella letteratura sociologica per descrivere il “costante stato di insicurezza e mobilitazione” degli strati urbani subalterni “la cui sussistenza e riproduzione socioculturale dipendono spesso dall’uso illegale degli spazi pubblici della strada” in una “lunga guerra di logoramento” con le autorità nelle metropoli del Medio Oriente contemporaneo.[36] Non lontano dal viavai di truffatori o rider per le strade brasiliane, sempre pronti a eludere un posto di blocco della polizia, a non pagare il biglietto o ad attraversare il semaforo rosso per sopravvivere: “sforzi dispersi”, individuali, quotidiani e continui, che possono comportare “azioni collettive quando i guadagni sono minacciati”[37]. Con una sola scintilla, questa disperata routine di lavoro, che si muove in ogni momento tra resistenza e sforzo, può spezzarsi in un’esplosione disperata – vale la pena ricordare che fu l’auto-immolazione di un venditore ambulante a cui era stato appena confiscato il carrello della frutta a scatenare le proteste del 2011 in Tunisia.
Nella viração delle strade, tra “lavori di merda” e “lavoretti” temporanei – lì dove non c’è nulla di promettente in vista se non andarsene – l’insubordinazione scoppia con la stessa urgenza, la stessa immediatezza della produzione just-in-time. I conflitti esplodono come un gesto disperato, un grido di “vaffanculo” in cui si mescolano “sofferenza, frustrazione e rivolta”[38], spesso sotto forma di un atto di vendetta individuale – o al massimo collettiva. Come la recente ondata di diserzioni dal lavoro negli Stati Uniti[39] e in altre parti del mondo, la fuga dai call center nei primi giorni della pandemia in Brasile è stata un segno di rifiuto di una routine che, per far fronte al crollo della “normalità”, diventa ancora più infernale. Ad ogni nuova emergenza – sanitaria, ambientale, economica, sociale – la vite dell’intensificazione del lavoro gira, e tutti sono pienamente mobilitati in uno sforzo senza fine in cui non si formano che “esperienze negative”.[40] Se i “non-movimenti” portano una buona notizia, però, è proprio questa: essi “indicano che il proletariato non ha più nessun compito romantico”[41], senza nulla da sperare e nulla da perdere.
[1] Dois funcionários do Metrô, “Metrô SP: Terceirizados da bilheteria denunciam descontos abusivos”, Passa Palavra, 3 mar. 2019.
[2] “Bilheteiros do Metrô param os atendimentos contra descontos abusivos do salário”, Passa Palavra, 7 mar. 2019. Da notare che, all’inizio della mobilitazione, un gruppo di bigliettai si era appellato al sindacato che li rappresenta legalmente davanti all’azienda e ha ricevuto la risposta che “lo sciopero è vantaggioso solo per i dipendenti pubblici”, perché per i lavoratori esternalizzati lo sciopero “non è legalmente accettato, mentre lo è la paralizzazione”.
[3] Due anni e una pandemia dopo, in una strategia accelerata dalla perdita di entrate durante il periodo di isolamento sociale, il governo di San Paolo avrebbe annunciato l’estinzione del contratto con i fornitori di servizi e la chiusura di tutte le biglietterie della metropolitana, trasferendo il lavoro dei dipendenti agli utenti attraverso un’App e macchine self-service. (Fernando Nakagawa, “Metrô de SP triplica prejuízo em 2020 e quer fechar bilheterias para economizar”, CNN, 1 abr. 2021).
[4] L’espansione del servizio di consegne via piattaforma sta producendo, in tutto il mondo, la proliferazione di cucine e negozi “fantasma” – strutture senza servizio diretto ai clienti, che a volte riuniscono diversi stabilimenti virtuali, riducendo i costi con personale, mobili, stock e affitto. (Nabil Bonduki, “Dark kitchens, que vieram para ficar, são boas para as cidades?”, Folha de S. Paulo, 16 fev. 2022). Nuovo fronte per gli investimenti immobiliari, diventano anche punti di incontro per i rider, dove spesso scoppiano conflitti (vedi, per esempio, Treta no Trampo, “A greve na loja da Vila Madalena entra no 2º dia”, Twitter, 6 nov. 2021).
[5] Francesc e El Quico, “Notas em defesa da centralidade do conflito”, Passa Palavra, 2 mar. 2021.
[6] L’espressione è usata da Rodrigo Nunes per far luce sulla dimensione finanziaria della militanza di Bolsonaro – un vero e proprio “fenomeno imprenditoriale” che può aiutare a capire una dinamica presente in altre mobilitazioni. “Sia creando movimenti capaci di raccogliere fondi di destinazione nebulosa, sia conquistando (o riconquistando) spazi nei media tradizionali, sia monetizzando attraverso canali YouTube e profili Instagram, essi hanno costituito un circuito in cui l’accumulazione di capitale politico si convertiva facilmente in accumulazione di capitale economico, e viceversa. Questa convertibilità è, inoltre, contemporaneamente, sia il mezzo con cui si costruisce la traiettoria dell’imprenditore politico sia un fine in sé. Consolidandosi come influencer, l’individuo si propone come candidato a una carica pubblica, tanto per elezione come per nomina; la carica pubblica, a sua volta, porta notorietà e un pubblico fedele, retro-alimentando la performance sui social network. Anche quando non porta alla carriera politica, questo tipo di imprenditoria comporta sempre vantaggi pecuniari, sia diretti (inviti a conferenze, contratti pubblicitari ed editoriali, vendita di prodotti come magliette e adesivi, fondi pubblici) che indiretti (condono di debiti fiscali, prestiti, accesso alle autorità)”. (Rodrigo Nunes, “Pequenos fascismos, grandes negócios”, Piauí, out. 2021).
[7] Non è raro che, durante un picchetto in un centro commerciale, qualcuno si presenti con delle casse portatili che suonano Racionais MC’s, SNJ, 509-E, DMN, e altri gruppi rap nazionali, che sono emersi negli anni ‘90 cantando sulla guerra civile non dichiarata in corso nelle periferie brasiliane. Nel corso del decennio successivo, la contraddizione sociale espressa nei testi avrebbe acquisito contorni sempre più ambigui, tra resistenza e adesione alla concorrenza generalizzata. Nei versi che enunciano che “oggi è la realtà in cui si può agire” e che “il futuro sarà la conseguenza del presente” (Racionais MC’s), o che “se si lotta si conquista” (SNJ), la convocazione può rappresentare la chiamata ad una lotta in cui la conquista è possibile solo attraverso l’azione collettiva nel presente – il conflitto sociale. Ma può anche essere l’espressione di una condizione oggettiva che si impone a tutti coloro per i quali la vita quotidiana è un susseguirsi di battaglie per la sopravvivenza, come il “disoccupati, con i figli che hanno fame e una famiglia numerosa” (SNJ). È necessario “non misurare gli sforzi” (SNJ) o, come spiegano i testi composti dagli stessi rider, essere “ninja” e “rischiare la vita” sia nella sopravvivenza della vita quotidiana che per rompere il sistema – “ogni giorno in questa lotta” ambivalente. (Racionais MCs, “A Vida é Desafio” em Nada como um dia após o outro dia, 2002; SNJ, “Se tu lutas tu conquistas” em Se tu lutas tu conquistas, 2001; Sang, “Diz pro iFood”, Rzl Prod., 2020 e Família019 CPS, “22 de junho de 2020”).
[8] Leandro Machado, “Eleições municipais 2020: os entregadores e motoristas do Uber que viraram candidatos”, Folha de S. Paulo, 13 nov. 2021.
[9] Per una riflessione critica sulla traiettoria dell’MST, si veda “MST S.A.”, Passa Palavra, 8 abr. 2013 e Ana Elisa Cruz Corrêa, Crise da modernização e gestão da barbárie: a trajetória do MST e os limites da questão agrária, tese de doutorado, UFRJ, 2018.
[10] Paula Salati, “MST inicia captação de R$ 17,5 milhões no mercado financeiro para produção da agricultura familiar”, G1, 27 jul. 2021 e Maura Silva e Luciana Console, “Fundo de investimento permite financiar cooperativas de pequenos agricultores”, MST, 22 mai. 2020.
[11] “Nonostante le difficoltà dovute alla mancanza di aiuti [nella pandemia], di politiche di sviluppo e di accesso al credito, i contadini continuano a promuovere soluzioni”, afferma un piccolo resoconto dell’operazione finanziaria pubblicato sul sito del MST. Per le migliaia di interessati che non sono riusciti ad acquisire le loro quote, il movimento promette di ripetere la dose presto (Lays Furtado, “Finapop consolida horizontes de investimentos para a agricultura familiar camponesa”, 28 out. 2021). Sulla gestione finanziarizzata del conflitto sociale che sta emergendo da questa e altre iniziative, strutturate per catturare “i flussi di reddito generati dalle azioni sociali”, si veda Isadora Guerreiro, “Impacto Social, Apps e financeirização das lutas”, Passa Palavra, ago. 2021 e “O futuro dos trabalhadores é a rua?”, Passa Palavra, 14 fev. 2022.
[12] “Il sistema di punteggio è stato ideato dai movimenti popolari urbani dell’area democratico-popolare, e serve come fila d’attesa non solo per l’accesso ai processi di costruzione, ma per qualsiasi altra relazione della famiglia con l’organizzazione”. Da strumento di controllo interno, nota Isadora Guerreiro, l’MTST farebbe di questo registro anche uno strumento di negoziazione con il potere pubblico. A metà del decennio scorso, un collettivo metteva già in guardia sull’uso del controllo delle presenze in “assemblee, riunioni politiche o atti pubblici considerati importanti dalla direzione”, e persino in azioni di “campagne elettorali”, per determinare chi aveva accesso alle “promesse del movimento: case, borse di studio all’università, corsi di formazione, suddivisioni abitazionali”. Questo quando il registro non era “anche un mezzo di controllo e monitoraggio per (…) la responsabilità del movimento nei confronti dello Stato, a causa degli accordi e dei relativi partenariati stabiliti con esso”. (Isadora Guerreiro, Habitação a contrapelo: as estratégias de produção do urbano dos movimentos populares durante o Estado Democrático Popular, tese de doutorado, FAU-USP, 2018 e Passa Palavra, “Entre o fogo e a panela: movimentos sociais e burocratização”, Passa Palavra, 22 ago. 2010).
[13] “Núcleo de tecnologia – Setor de formação política – MTST”.
[14] Francesc e El Quico, “Notas em defesa da centralidade do conflito”, cit.
[15] A comparação da série histórica de greves encontra-se em DIEESE, “Balanço das greves de 2018”, Estudos e Pesquisas, n. 89, abr. 2019.
[16] Um grupo de militantes, “‘Olha como a coisa virou’”, cit.
[17] Secondo il “Bilancio degli scioperi del 2017” di DIEESE, “(…) l’enfasi difensiva dell’agenda degli scioperi continua, ma osserviamo alcune rotture, alcune discontinuità. Possiamo dire, brevemente, che l’aspetto civilizzante degli scioperi difensivi si relativizza. Cioè, senza smettere di occuparsi di quei diritti storicamente disattesi, gli scioperi avvengono ora, sempre di più, nel campo delle reazioni immediate, urgenti: contro i licenziamenti e contro il ritardo nel pagamento dei salari. (DIEESE, Estudos e Pesquisas, n. 87, set. 2018).
[18] Tra il 2009 e il 2014, scioperi esplosivi si sarebbero verificati nei lavori delle centrali idroelettriche di Jirau, Santo Antônio e Belo Monte, del Complesso Portuale di Suape, della Raffineria Abreu e Lima e del Complesso Petrolchimico di Rio de Janeiro – “niente sciopero, terrorismo”, ha spiegato un lavoratore di Jirau filmando con il cellulare l’incendio negli alloggi del cantiere. Si vedano, oltre al documentario Jaci: sete pecados de uma obra amazônica (Caio Cavechini, 2015) le ricerche di Cauê Vieira Campos (Conflitos trabalhistas nas obras do PAC: o caso das Usinas Hidrelétricas de Jirau, Santo Antônio e Belo Monte, dissertação de mestrado, UNICAMP, 2016) e Rodrigo Campos Vieira Lima (Desenvolvimento e Contradições Sociais no Brasil contemporâneo. Um estudo do Complexo Petroquímico do Rio de Janeiro – Comperj, dissertação de mestrado, UNESP, 2015).
[19] Per l’allora sindaco Fernando Haddad, la paralizzazione degli autisti di autobus e degli esattori di bus a San Paolo al di fuori del sindacato non era esattamente uno sciopero, ma “una guerriglia inammissibile. Come si fa a salire su un autobus e dire al passeggero di scendere? Si sale sull’autobus e si butta via la chiave?” (“Greve de ônibus trava SP, e Haddad fala em ‘guerrilha’”, ANTP, 21 mai. 2014). Nel contesto dei conflitti sui trasporti che hanno scosso il paese, quell’ondata di scioperi a gatto selvaggio, tra maggio e giugno 2014 si sono aggiunte le proteste e i salti dei tornelli dei passeggeri nelle stazioni degli autobus e della metropolitana. Per le testimonianze di queste lotte in diverse città, vedi “Sem choro nem vela: paralisações no transporte em Goiânia”, Passa Palavra, 18 mai. 2014; “De baixo para cima: a greve dos rodoviários em Salvador”, Passa Palavra, 27 mai. 2014 e “São Paulo: greve dos metroviários e catracaço dos usuários”, Passa Palavra, 5 jun. 2014.
[20] Eli Friedman, Insurgency Trap: Labor Politics in Postsocialist China, London, ILR Press, 2014, p. 13. Nei primi anni 2010, militanti e intellettuali che seguivano gli scioperi in Cina ancora “si aspettavano un diffuso passaggio da azioni ‘difensive’ ad azioni ‘offensive’, in cui i lavoratori avrebbero cercato aumenti salariali oltre le leggi e le norme esistenti, piuttosto che ‘reagire’ quando i datori di lavoro li spingevano troppo oltre e non rispettavano le norme legali. Negli anni successivi, tuttavia, queste richieste ‘reattive’ (per i salari non pagati, assicurazioni sociali, ecc.) rimasero dominanti nelle lotte operaie”. (Chuang, “Picking Quarrels”, Chuang 2: Frontiers, 2019).
[21] L’ondata di scioperi negli anni 2010 non era indicativa “dell’emergere di un ‘movimento operaio’ tradizionale o qualcosa di simile”. Non c’è un movimento simile in Cina, e non è semplicemente a causa della repressione, perché non c’è nemmeno un movimento simile in Europa, negli Stati Uniti o altrove senza l’oppressione ‘dura’ caratteristica della politica statale cinese”. (Lorenzo Fe, “Overcoming mythologies: An interview on the Chuang project”, Chuang, 15 feb. 2016).
[22] G., “Scaling the Firewall, 1: #LiftTheBucket”, Chuang, 24 set. 2020.
[23] Francesc e El Quico, “Notas em defesa da centralidade do conflito”, cit.
[24] La diffusione dell’agenda è un altro sintomo della perdita di forma delle lotte. Nel giugno 2013, l’esistenza di un interlocutore organizzato, il Movimento Passe Livre (MPL), dava ancora qualche contorno ai disordini di strada, soprattutto a San Paolo. “L’esplosione della rivolta è (…) anche l’esplosione del senso e, nella misura in cui questa esplosione deve essere contenuta, il mantenimento dell’agenda (in cui il MPL è impegnato) svolgerà un ruolo limitante fondamentale.” (Caio Martins e Leonardo Cordeiro, “Revolta popular: o limite da tática”, Passa Palavra, 27 mai. 2014). Anni dopo, in Francia, l’insurrezione dei gilet gialli sembrò radicalizzarsi man mano che l’agenda iniziale della tassa sulla benzina perdeva importanza; inoltre, tra i manifestanti, c’era persino chi sosteneva apertamente di non rivendicare nulla, per non dare allo Stato la chiave della smobilitazione (vedi “On se bat pour tout le monde”, Jaune – Le journal pour gagner, 6 gennaio 2019).
[25] “Onward Barbarians”, Endnotes, dec. 2020.
[26] L’espressione, usata da Chris King-Chi Chan per descrivere i conflitti di fabbrica in Cina, coincide curiosamente con la sintesi del marxista brasiliano Luiz Carlos Scapi sulle proteste del giugno 2013: “movimento di massa senza organizzazione di massa” (vedi C. K. Chan, The challenge of labour in China: strikes and the changing labour regime in global factories, PhD thesis, University of Warwick, 2008).
[27] Adrian Wohlleben, “Memes Without End”, Ill Will, 16 mai. 2021. Si veda anche Paul Torino e Adrian Wohlleben, “Memes With Force – Lessons from the Yellow Vests”, Mute, 26 fev. 2019.
[28] Basta ricordare come quella violenza popolare anonima e diffusa che sconvolse i media brasiliani durante i disordini del giugno 2013 – all’epoca chiamati semplicemente “vandalismo” o “sommossa” – fu gradualmente sostituita, già nella sbornia delle grandi manifestazioni, dalla cristallizzata figura mediatica del black bloc. Il riflusso dei conflitti diventa visibile quando ciò che prima si viralizzava e diventava un meme si riduce a un marchio statico o a una messa in scena simbolica della rivolta. C’è qualcosa di questo nell’insistenza a “non tornare alla normalità” dei manifestanti instancabili che hanno continuato a riunirsi regolarmente nell’inospitale rotonda centrale di Santiago mesi dopo il picco dell’estallido sociale cileno; così come nei gruppi francesi che, passato il picco della mobilitazione, hanno cercato di trasformare i “gilet gialli” in un’identità fissa.
[29] Eli Friedman, Insurgency Trap, cit., p. 19.
[30] Abbiamo discusso tale continuità in “Guarda um po’ come è andata a finire”, cit.
[31] In questo senso, Ana Elisa Corrêa e Rodrigo Lima osservano che “tali esplosioni finiscono per aggravare la frammentazione generalizzata e rendere la rivolta stessa ancora più astratta”, il che finisce per contribuire “ad amplificare il contesto di rischio che costituisce l’arsenale” dell’accumulazione del capitale ai nostri giorni (“Revolta popular e a crise sistêmica: a necessária crítica categorial da práxis”, Anais do XIV Encontro Nacional de Pós-Graduação e Pesquisa em Geografia, Editora Realize, 2021).
[32] Aguzzando lo sguardo tra i miraggi geopolitici che circondano le proteste di Hong Kong del 2019, un gruppo di attivisti si è imbattuto in un apparente paradosso: “Com’è possibile che il raggruppamento meno apertamente politico – quello che sembra non volere altro che vedere la città bruciare – sia in realtà l’unico ad avere un’intuizione precisa del reale terreno politico? Questo perché, per prima cosa, la sua stessa mancanza di coordinate politiche è un riflesso preciso dello stato della coscienza collettiva del movimento. Il suo atto letterale di fare a pezzi la città è anche un dispiegamento figurativo del fondamento politico e ideologico della città”. (Chuang, “The Divided God”, Chuang, Jan. 2020).
[33] “Siamo tornati al tempo dell’odio di classe… in assenza di classi nel senso storico e marxista del termine”, conclude l’analisi di un altro gruppo sulle proteste contro il green pass in Francia. Qui, la rabbia certamente si accumula, ma non ha il carattere dell’“esperienza proletaria” che ha oggettivato la lotta di classe e vi ha iscritto cicli di lotta e quindi continuità e discontinuità con periodi di maggiore e minore intensità che si sono succeduti nel tempo. (…) Qui, la sensazione che nulla sia realmente iniziato dà l’impressione che la temporalità stessa sia scomparsa”. (Temps Critiques, “Demonstrations Against the Health Pass… a Non-Movement?”, Ill Will, 5 out. 2021).
[34] Senza prospettive di conquiste, le richieste dei lavoratori cedono il passo alla vendetta. Nel luglio 2021, una scia di distruzione avrebbe attirato l’attenzione dei giornali di San Paolo: in diversi punti della città, decine di autobus sono stati abbordati da piccoli gruppi non identificati che hanno furato i pneumatici, tagliato le cinghie del motore, rotto i vetri o danneggiato le chiavi. La misteriosa ondata di sabotaggio è stata attribuita a “ex dipendenti licenziati dalle compagnie di autobus”. (Adamo Bazani, “Polícia faz diligências para identificar autores de vandalismo contra ônibus em São Paulo e classifica participantes como criminosos”, Diário do Transporte, 12 jul. 2021). Nel 2019, un collettivo di giovani licenziati da lavori precari in piccoli esercizi in Italia si è organizzato per perseguitare i loro ex “padroni di merda” andando a protestare davanti ai negozi con il volto coperto da maschere bianche – “fargliela pagare” potrebbe riferirsi sia alla liquidazione che alla vendetta (Francesco Bedani et al, “È l’ora della vendetta?”, Commonware, 12 set. 2019).
[35] L’occupazione di quel che rimaneva di un fast food di Atlanta, dato alle fiamme nel mezzo della rivolta del giugno 2020 negli Stati Uniti, dopo che un altro giovane nero vi era stato ucciso dalla polizia, e da dove gli adolescenti uscivano ogni notte “per bloccare le strade con lanciafiamme, pistole, spade e veicoli”, illustra bene questa dinamica. Il resoconto di un gruppo di attivisti “intossicati da una miscela di adrenalina da 17 giorni consecutivi di rivolte, una grande scorta di alcool rubato, MDMA” e altro ancora, racconta come le “arie distintamente ‘antipolitiche’” di quello spazio si siano rapidamente evolute in una miscela di “paranoia e fatalismo”: “sono pronto a morire per questa merda!” è stato quello che si sentiva dai “giovani neri armati fino ai denti” che facevano i turni per “difendere un parcheggio che conteneva poco più di un edificio distrutto” da un presunto attacco imminente dei suprematisti bianchi o della polizia. L’occupazione sarebbe risultata in qualche modo “privatizzata” da gruppi identitari armati, con un bilancio di sette sparatorie e la morte di un bambino di otto anni (Anônimos, “Wendy’s: luta armada no fim do mundo”, Passa Palavra, mai. 2021). Nel mezzo di lotte combattute in un contesto di profonda disintegrazione sociale, questi militanti hanno incontrato problemi che suonano familiari a chiunque cerchi di organizzarsi nelle periferie brasiliane. In un bilancio di più di un decennio di “tentativi di creare occupazioni urbane, insediamenti vicino alle città, gruppi di base in quartieri periferici”, un militante di Pernambuco ha riferito come “alcuni buoni frutti non sembravano compensare i fallimenti e le frustrazioni che venivano accumulandosi”. Le valutazioni erano ricorrenti: l’estrema povertà che ostacolava la disciplina, (…) la gioventù lontana dagli obiettivi politici, il rapido ricambio delle persone che faceva ricominciare la formazione sempre da zero. È un dialogo tra sordi, ha detto un leader. Non possiamo permettere che le nostre mobilitazioni si trasformino in cliniche di riabilitazione, ha detto un altro. La percezione generale è che abbiamo a che fare con un popolo degenerato – quasi incapace di organizzazione sociale. (…) Non abbiamo parole nel nostro vocabolario, né concetti nelle nostre teorie, né pagine nei nostri volantini, né spazio nelle nostre riunioni per assimilare la realtà lacerante della periferia. (Carolina Malê, “Critérios de periferia”, Passa Palavra, set. 2010).
[36] L’idea di “non-movimenti sociali” sembra essere stata coniata dal sociologo iraniano-americano Asef Bayat negli studi sulle trasformazioni delle città mediorientali, e impiegata più recentemente dall’autore per riflettere sull’origine delle “rivoluzioni senza rivoluzionari” che hanno travolto la regione all’inizio dello scorso decennio (vedi A. Bayat, Revolution without revolutionaries: making sense of Arab Spring, California, Stanford University Press, 2017, pp. 104-108, e N. Ghandour-Demiri e A. Bayat, “The urban subalterns and the non-movements of the Arab uprisings: an interview with Asef Bayat”, Jadaliyya, 26 mar. 2013). Secondo Bayat, “ci sono tensioni costanti tra le autorità e questi gruppi subalterni, la cui sussistenza e riproduzione socioculturale dipendono spesso dall’uso illegale di spazi pubblici esterni. La tensione è spesso mediata dalla corruzione, dalle multe, dallo scontro fisico, dalle punizioni e dal carcere, quando non rimane segnata dalla costante insicurezza, da tattiche di guerriglia come “operare e fuggire”. (…) Il legame tra i non-movimenti e l’episodio delle rivolte sta nel fatto che i ‘non-movimenti’ mantengono i loro attori in un costante stato di mobilitazione, anche se gli attori rimangono dispersi, o i loro legami con altri attori rimangono spesso (ma non sempre) passivi. Questo significa che quando sentono che c’è un’opportunità, tendono a formare proteste collettive coordinate, o a fondarsi in una mobilitazione politica e sociale più ampia” (The urban subalterns and the non-movements of the arab uprisings, cit.). È interessante notare che uno degli esempi citati dal sociologo sono le “migliaia di motociclisti che sopravvivono lavorando illegalmente nelle strade di Teheran, trasportando posta, denaro, documenti, merci e persone, in costante conflitto con la polizia” (A. Bayat, Revolution without revolutionaries, cit.).
[37] A. Bayat, Revolution without revolutionaries, cit., p. 106-108.
[38] Temps Critiques, “Sur la valeur-travail et le travail comme valeur”, Lundi Matin, 22 nov. 2021.
[39] Negli ultimi mesi del 2021, l’abbandono è diventato un meme anche negli Stati Uniti. In un selfie registrato su TikTok, una giovane dipendente del fast food salta dalla finestra del drive-thru mentre ride e annuncia il suo licenziamento al manager. Con l’hashtag #antiwork, il video in cui una lavoratrice usa gli altoparlanti di un supermercato per maledire i padroni e dichiarare la sua uscita circola accanto a foto di negozi senza inservienti, dove un cartello scritto a mano spiega che tutto il personale ha chiesto gli arretrati. I meme riportano un’ondata di dimissioni molto più grande (4 milioni al mese), descritta da un ex Segretario del Lavoro come uno “sciopero generale non ufficiale” – che rappresenta un’ulteriore segno della perdita di forma del lavoro. Tra storie, battute e denunce contro aziende e datori di lavoro, i post sui forum online come Antiwork: Unemployment for all, not just the rich! (https://reddit.com/r/antiwork) oscillano tra anarchismo e “auto-imprenditorialità” – con una certa frequenza, “essere il capo di se stessi” appare come un’alternativa ai lavori di merda (vedi Robert Reich, “Is America experiencing an unofficial general strike?”, The Guardian, 13 out. 2021 e Passa Palavra, “Greves e recusa ao trabalho nos EUA e no mundo: novo ciclo de lutas?”, Passa Palavra, out. 2010).
[40] “In queste recenti reazioni contro il lavoro, sentiamo grida di sofferenza, frustrazione e rivolta mescolate insieme in un’espressione che all’inizio non è collettiva, ma particolare, individuale e soggettiva. Vedere in quelle reazioni una coscienza collettiva sarebbe una finzione, perché oggi è la nozione e l’esperienza stesse di una coscienza collettiva che tende a cambiare, a dissolversi, a decomporsi, poiché, dal lavoro, si originano solo “esperienze negative” – e negative nel senso originario del termine, non nel senso hegeliano e marxista (…) – escono dal lavoro. Così come il proletariato non può più affermare un’identità operaia, non può più riferirsi a un’“esperienza proletaria”” – ed esiste politicamente solo, in questo senso, nelle “sue azioni immediate”: parentesi fragili e instabili che si chiudono appena il conflitto cessa. (Temps Critiques, “Sur la valeur-travail et le travail comme valeur”, cit.) Paulo Arantes aveva già individuato “questo decentramento negativo del lavoro all’origine dell’attuale esplosione di nuove sofferenze nelle imprese e nelle società” in un commento alle scoperte di Christophe Dejours (“Sale Boulot”, cit.).
[41] Endnotes, “Onward Barbarians”, cit