Di BENEDETTO VECCHI
C’è una internet immaginaria, dove la libera competizione è il sale della terra, mentre la condivisione di sapere e le relazioni paritarie ne scandiscono l’operato e la vita ordinaria. Un mondo sognato e agognato al quale si sovrappone la «Internet reale», scandita da monopoli, concentrazione del sapere, potere e ricchezza, in cui l’apparente gratuità di software e servizi è l’inganno sociale usato per coprire gli alti prezzi che, in qualche misura, sono scaricati sugli utenti. È attorno a questa polarità che agisce senza contraddizione – anzi un aspetto rafforza l’altro, perché l’Internet immaginaria più che sconfessare legittima continuamente, dal punto di vista culturale e ideologico, quella reale -, che prende le mosse La trappola di Internet (Einaudi, pp. 304, euro 22, traduzione di Daniele A. Gewurz).
Libro importante dello studioso statunitense Matthew Hindman sulla strutturale tendenza della Rete nel favorire la costituzione di monopoli globali a causa delle «economie di scala» indispensabile alla crescita delle imprese digitali. Dunque ingenti investimenti in infrastrutture tecnologiche, nel software, nella ricerca e sviluppo, tutti elementi propedeutici alla conquista dell’attenzione degli utenti. Già, perché l’attenzione è una risorsa scarsa, limitata nel tempo e nello spazio e in economia la scarsità è il limite da superare se si vogliono fare buoni profitti. Se l’attenzione individuale e collettiva è l’oggetto del contendere, le economie di scale per conquistarla possono dunque crescere a dismisura, favorendo così la concentrazione monopolista del potere.
Matthew Hindman si è già fatto conoscere per un altro saggio – The Myth of Digital Democracy, Princeton University Press – , in cui il docente alla George Washington University School of Media and Public Affairs, prende di mira un altro totem della netculture: la Rete avrebbe determinato una progressiva e radicale democratizzazione nella produzione e circolazione dell’informazione. Hindman tuttavia sostiene che il world wide web determini, all’opposto, una riduzione della qualità informativa, una concentrazione monopolistica nella sua produzione e una riduzione della «biodiversità», determinando la concentrazione dell’«audience» in pochi e sempre eguali siti internet, mettendo all’angolo i piccoli siti informativi e, elemento nel quale si sofferma a lungo anche in questo saggio, determinando l’irrilevanza dell’informazione locale.
Hindman arriva così a esporre la necessità di politiche radicali antitrust per bloccare il potere globale di imprese come Facebook, Amazon, Google, ritenendo tale potere un limite e un pericolo per la democrazia e per lo sviluppo stesso del capitalismo. Una posizione, la sua, che ha forte eco nelle proposte (ad esempio della senatrice democratica Elizabeth Warren) che si sono fatte strada nel Congresso Usa dopo lo scandalo di Cambridge Analityca e le diverse audizioni che hanno visto denunciare e constatare la sistematica violazione della privacy da parte dei giganti del web come Facebook, nonché l’uso della Rete nella manipolazione dell’opinione pubblica al fine di condizionare elezioni politiche, presidenziali, referendum politici.
Competizione, critica al potere burocratico e soffocante delle grandi organizzazioni e imprese, relegate al ruolo di perfide rappresentanti del sistema. Solo alcuni degli elementi di una retorica che domina la net economy e lo sviluppo sociale e politico basato sulla Rete. Nel suo libro, tuttavia, la realtà appare molto differente, se non all’opposto di quanto postulano i retori di questa internet che lei qualifica come immaginaria. Qual è allora la realtà che coperta e occultata da questa retorica?
È difficile pensare a un’altra era della realtà economica, sociale e politica dove la disconnessione, la distanza tra la retorica e realtà sia così grande ed evidente come in questo caso. Una delle ragioni, forse la più immediata e semplice da evidenziare, è diciamo ironica: il mito di una Internet come regno della competizione più scaltra e spregiudicata persiste perché è interesse delle grandi imprese, dei monopoli che presiedono l’attività economica dentro la Rete che questo mondo sia rappresentato, seppure non sia così, come un mondo competitivo. Dobbiamo però andare oltre il mito. Con il mio libro provo a suggerire una chiave di lettura di Internet differente, rispetto a quella veicolata dalla retorica dominante.
A differenza della competizione sostengo che c’è stato un fenomeno evidente di concentrazione del potere nelle mani di poche imprese, che hanno favorito processi che qualifico di stickness, di appiccicosità. Le imprese hanno sviluppo procedure, software, modalità di relazione tra utente e piattaforme digitali affinché il singolo rimanga appiccicato ai prodotti e ai servizi offerti. Questo al fine di favorire il business della pubblicità, in alcuni casi, oppure a mantenere alti i livelli di traffico su un sito internet al fine di favorire il pagamento del collegamento alla Rete. In ogni caso, la posta in gioco è la conquista dell’attenzione del singolo e la sua «fidelizzazione».
Ogni atto finalizzato a questo obiettivo può sembrare piccola cosa se messo in rapporto alla quantità di denaro e di conoscenza che girano attorno al funzionamento di un software, ma se si moltiplicano per decine di migliaia, milioni, talvolta miliardi di contatti, gli effetti a livello macroscopico fanno lievitare i profitti attraverso quelle che chiamo le economia di scala, fattore che accompagna i processi di concentrazione monopolistica.
L’appiccicosità, la stickness, può essere considerata un effetto indesiderato, fastidioso per gli utenti, ma è evidente che per lo sviluppo delle applicazioni software che la garantiscono, così come per i costi della fibra necessaria affinché i siti siano veloci da raggiungere e consultare e per i necessari test e gestione dell’insieme dell’infrastruttura tecnologica, le imprese investono centinaia di milioni di dollari. Ne esce fuori una realtà che, al di là della retorica attorno alla gratuità di molti sevizi on line, segnata da massicci gli investimenti e che questi costi non siano niente affatto gratuiti per gli utenti. Li pagano in forme di cessione dei propri dati personali, di attenzione dedicata a un sito, oppure attraverso le strategie pubblicitarie. Li pagano cioè in molti modi e di gratuito c’è ben poco. Questi fattori associati alle necessarie economie di scala portano a una concentrazione del potere nelle mani di poche imprese.
L’intelligenza artificiale è la nuova frontiera della net economy. Machine learning, predittività sono le parole chiave dell’attuale «internet trap». Cosa pensa dell’uso dell’intelligenza artificiale nell’organizzare ciò che lei qualifica come «behavioral targeting», che ha come effetto anche la manipolazione dell’opinione pubblica?
Mentre scrivevo il libro ho dovuto cambiare prospettiva perché ho appreso che l’uso di sofisticati algoritmi e di machine learning era diventato sempre più rilevante. Occorrerà del tempo per comprendere i cambiamenti che l’Intelligenza artificiale provocherà. Al momento, nelle attuali operazioni di targeting le machine learning non sono così rilevanti. Gli algoritmi attualmente in uso sono infatti già efficienti e funzionali rispetto gli obiettivi che si propongono di gestire: analizzare, elaborare milioni e milioni di osservazioni, dati.
La rete è spesso descritta come il regno delle fake news. Mark Zuckerberg ha affermato che Facebook non può certo fare nulla per impedire la loro circolazione, sostenendo che sarà il pubblico a decidere la veridicità o meno delle informazioni veicolate. Cosa ne pensa?
Le fake news sono il problema più urgente e spinoso di una politica antitrust. Spesso si crede che le fake news si moltiplichino perché si moltiplicano i siti che diffondono informazioni. Non è così. Le fake news hanno centri di produzione e distribuzione noti; spesso coincidono, nella loro distribuzione, con i monopoli e i siti più grandi della Rete, tra i quali ci sono Facebook, Twitter. Questo non significa che sono loro che promuovono le fake news, ma le distribuiscono, contribuendo così alla disinformazione. Possiamo dire che non è certo interesse di imprese come Facebook intervenire perché questo potrebbe portare a una caduta della stickness, alla appiccicosità del sito, riducendo il numero di utenti.
Internet è rappresentata anche come la realtà che sta uccidendo la democrazia. È una posizione, questa, che ha visto aumentare i consensi dopo l’affaire Cambridge Analytica. Qual è la sua opinione?
Ci sono differenti modi per imbrigliare e limitare la democrazia che le imprese potrebbero seguire. Potrebbero, ad esempio, veicolare contenuti ingannevoli destinati a specifici target della loro audience. Accade, ma quei contenuti incontrano interesse e attenzione di un pubblico che è già convinto dei contenuti che veicolano, anche se sono ingannevoli. Nel linguaggio tecnico questo è chiamato l’esistenza di «bolle filtrate».
Possiamo dire che ci sono gruppi di simili che si riconoscono e che credono nelle stesse cose, senza verificarle, compreso l’adesione a contenuti ingannevoli. La disinformazione digitale è dunque una costante della discussione pubblica ed è all’opera ben prima che si sviluppasse la Rete. Allo stato attuale, è macroscopico che la Rete può facilitare la manipolazione di referendum e elezioni politiche, ma in forme diverse accadeva prima del web. Possiamo inoltre constatare che spesso i centri della manipolazione spesso sono al di fuori dei confini nazionali. In Russia, Cina ci sono gruppi specializzati nella manipolazione delle informazioni. La democrazia non è cioè al riparo da questi problemi.
Questo articolo è stato pubbicato su il manifesto il 30 novembre 2019.