di CECCO BELLOSI.
Pubblichiamo la prefazione di Cecco Bellosi al libro di Maurizio Rotaris “Passeggiata nel delirio“, Milieu edizioni, 2015
Passeggiata nel delirio è un delirio vero, quindi autentico, denso di verità. I passaggi esistenziali di Maurizio sembrano salti da un ponte nella notte, senza neanche la corda d’acciaio di recupero dei bungee jumpings: invece sono passaggi, dolorosi, densi e vissuti, di iniziazione dall’adolescenza a una maturità fortunatamente mai trovata.
E non per la sindrome di Peter Pan.
Le sequenze da bambino mistico a giovane drogato; da giovane drogato a giovane militante della lotta armata: trovo fuorviante la parola terrorista; da ancora giovane prigioniero a operatore sociale di strada e fondatore di una band a intensa gradazione di musica, parole e alcool, la Bar Boon Band, sono state di una ovvietà disarmante.
Questa è la freschezza di contenuti e di piglio narrativo del libro.
Da suggerire a chi vuole provare a immaginare che cosa è il rapporto di un drogato goloso con le sostanze stupefacenti, che cosa è stato il carcere speciale in Italia negli anni Settanta-Ottanta del secolo scorso e quali drammi sono stati consumati dentro quelle mura, che cosa è un operatore sociale che lavora sulla strada, al di fuori delle gabbie imposte dalle istituzioni.
La prima parte descrive con efficacia immediata il rapporto intaccabile e intoccabile tra un tossicomane e la droga, quando si amano. Alla continua ricerca dell’amata, che di volta in volta è l’amfetamina, la morfina, l’eroina, Maurizio si perde tra l’umidità ammuffita di un barcone in inesorabile disfacimento ad Amsterdam, le cantine piene di spade e buchi di Milano, la convivenza masochista con le prepotenze bastarde dei fascisti sanbabilini a San Vittore: altro che romanzo criminale. Fino ad arrivare al manicomio di Mombello di Limbiate. Rinchiuso e legato da uno psichiatra molto più fuori di lui, devastato dal senso di onnipotenza del guaritore a ogni costo. Gli scrive un Maurizio da manuale dell’antipsichiatria: «Voglio farla sentire colpevole perché lo è, colpevole di ignoranza, incapace di umanizzare un rapporto al di là del confine tra paziente e dottore, assoggettato e detentore del potere. Ho dentro di me tre o quattro tipi di angoscia diversa, quella che mi grava più sull’anima è quella di essere suo prigioniero. Non posso aspettare oltre il suo giudizio, che è quello di un poliziotto delle menti altrui».
Come molti operatori sociali, afflitti dalla sindrome del salvatore.
Il rapporto di un tossicomane con la sua amata è scalfibile solo quando entra in crisi, corroso da una coazione a ripetere sempre più logora e stanca. Come, in genere, le storie d’amore. Allora il tossicomane cerca aiuto, per scontare spesso un effetto paradossale. Quando è attivo e non gliene importa nulla di smettere, tutti si propongono di dargli una mano; quando entra in crisi ed è lui a chiedere aiuto, viene rinviato come una pallina da flipper da un servizio all’altro, fino a essere spinto a riprendere a farsi.
In questa prima parte del libro, Maurizio attraversa la deriva di un pezzo dell’Italia underground dei primi anni Settanta, quando Amsterdam era diventata la capitale europea dapprima della spinta anfetaminica, poi dei buoni e cattivi viaggi, infine della signora Eroina. Un movimento invisibile, cresciuto culturalmente lontano e fisicamente vicino alle pulsioni della militanza politica a forte identità che, nel momento della sconfitta, si è riversata in parte nel torrente impetuoso della lotta armata, in parte nel ritorno a casa: ed è stata una morte anche peggiore, in parte nel ritiro nel grembo disperato e consolatorio dell’eroina.
Nel percorso dalla droga alla militanza politica, Maurizio è stato un indiano contrario. Come spesso nella sua vita: molti, in quel periodo, si spostavano dalla militanza politica all’eroina, lui nella direzione opposta.
Nella seconda parte del libro, quella relativa alla lotta armata e al carcere, la descrizione più intrigante è quella delle prigioni di massima sicurezza. Pochi ne hanno parlato, per raccontare con pudore delle violenze, delle angherie, dei massacri dello stato democratico sui detenuti. Nel 1981, a Pianosa, per un mese di fila le guardie sono entrate nelle celle con manici di piccone, nerbi di bue, fruste da cavallo a rompere braccia, gambe, costole e reni dei prigionieri. Quasi nessuno ha scritto invece della sindrome da sconfitta. Dopo il periodo della purezza a diciotto carati, entravano nelle sezioni di massima sicurezza anche i pentiti a metà, i pentiti di essersi pentiti, e persino i falsi pentiti, costruiti dalle malelingue. I pentiti a denominazione di origine controllata non vi misero mai piede. Scattò comunque la caccia all’infame, che ebbe come vittime sacrificali soprattutto quei compagni che avevano parlato sotto tortura. Alcuni magistrati li mandavano negli speciali perché pensavano che, terrorizzati, avrebbero vuotato il sacco, fino ad allora ritenuto semivuoto. Invece andarono incontro al cappio severo della giustizia proletaria, torturati dallo stato e uccisi dai compagni. Alcuni di noi si sono assunti il pesante macigno dei giustizieri, ma tutti noi lo eravamo. Maurizio narra questa storia in forma di sogno, quindi anche con ironia e disincanto.
Ma non era un sogno.
E queste storie dovrebbero imporci una riflessione collettiva.
Poi Maurizio è uscito dal mondo delle carceri speciali attraverso una presa di posizione condivisa da tutti, o quasi, i dirigenti e i militanti di Prima Linea. Una comunità combattente, non un partito. Le Brigate Rosse non hanno mai fatto una scelta condivisa rispetto alla sconfitta. Forse proprio perché erano un partito, e i partiti in dissoluzione generano solo diaspore, a volte incattivite.
Non sono mai stato d’accordo con la dissociazione e mi sono sempre battuto per l’amnistia, anche quando eravamo in tre a sostenerla, due dentro e uno fuori. A Parigi. Ma ho sempre riconosciuto al movimento della dissociazione di avere aperto la strada alle misure alternative al carcere. In cui ci siamo infilati quasi tutti, salvo i pochi irriducibili che sono in carcere ancora oggi nella loro immobile e innocua coerenza. Chapeu a loro.
Anche di questi percorsi dovremmo discutere.
Maurizio poi, uscito di galera, ha iniziato a fare l’operatore sociale. E qui inizia la terza parte del libro. Un operatore sui generis, che dava da bere agli assetati invece di costringerli all’astinenza. La sua carriera di operatore di comunità è finita lì, quando è entrato nel cortile a tutta velocità dopo essersi scolato una bottiglia di Jack Daniel’s.
Bourbon di buon gusto.
Invece di cacciarlo, don Mazzi lo ha mandato a fare la cosa giusta, aprendo il pronto intervento di SOS alla Stazione Centrale di Milano. Dove passavano tutti i disperati della strada, dei ponti e delle panchine. Centinaia di persone che chiedevano un aiuto immediato, dal panino da mangiare, alla doccia per lavarsi, alle piaghe da curare, a un posto dove dormire.
A volte, erano messi così male da chiedere persino di entrare in comunità.
Un servizio essenziale, quello di SOS nella metropoli, sostitutivo di tanti altri servizi che non sono mai in grado di dare risposte, ingessati nel: “Ne parliamo domani”. “Ma io ho bisogno adesso”. “Sì, ma ne parliamo domani, in orari d’ufficio, sabato e domenica esclusi”.
Un domani che non arriva mai per tempo.
Una sera di gennaio, otto gradi sotto zero nelle notti di Milano, Maurizio mi ha chiamato per dirmi che mi doveva mandare un ragazzo e una ragazza, lei incinta, che vivevano in una macchina. Avevo avuto la stravagante idea di aprire un rifugio per disperati a Tirano, più che profondo nord.
“Questi muoiono, li devi prendere subito”. “Mandameli domani”. “No, adesso”. “Ma è sera tardi, non ci sono più treni”. “Vengono su in macchina”.
Che non era loro. Mica potevano morire.
Questi sono i servizi essenziali, che non a caso vengono quotidianamente uccisi dalle istituzioni.
Servizi attenti alla vita delle persone, non al loro controllo. Gli operatori sociali, invece, si agitano ormai in un sistema incrostato e corroso dai vetri opachi dei palazzi del potere, obbligati da una selva di regolamenti carcerari a trasformarsi in sbirri delle menti altrui. Come lo psichiatra del manicomio di Mombello di Limbiate. Che almeno lo faceva perché bastardo di suo.
Maurizio ha deciso di sottrarsi agli incontri sconclusionati con istituzioni autistiche e di continuare a fare l’operatore di strada. Trovando la via di uscita nell’arte e nella musica della Bar Boon Band. Lo invidio, costretto ancora a muovermi ogni giorno tra una disperata rassegnazione e la rabbia impotente della seconda volta, tra le paludi di un lavoro sociale che è sempre più sbarre fitte e invisibili. Quindi ancora più dolorose. Vorrei trovare anch’io una via di uscita. Al più presto.
Sulla Bar Boon Band è stato girato il film Ancora Vivi di Massimo Fanelli: qui sotto il promo del film, qui il video del back stage