di ALESSANDRO PEREGALLI.

 

 

L´orrore e l’indignazione per l’attacco agli studenti della scuola normale di Ayotzinapa hanno creato un ampio consenso intorno ad un movimento popolare che ha raggiunto dimensioni importanti.

La risposta del governo al movimento segnala una progressiva diversificazione delle strategie repressive: il modello dell’attacco frontale, che ha caratterizzato i fatti di Ayotzinapa, è stato affiancato da una forma di repressione che colpisce in modo periferico, lontano dagli sguardi indiscreti della stampa e dell’opinione pubblica internazionale.

A ormai più di due mesi dai tragici fatti di Iguala, possiamo oggi tracciare una ricostruzione di queste strategie, una ricostruzione che lascia aperti più interrogativi di quanti non ne risolva. Ne risulta un quadro del paese molto preoccupante, per il livello di pervasività di una politica della paura che ormai si è fatta sistema, ma dentro al quale troviamo anche una forte risposta del movimento popolare e dell’opinione pubblica, su base nazionale e internazionale, che lascia spiragli di speranza, se si pensa alle poche, ma importanti, buone notizie degli ultimi giorni.

Una tragedia nazionale

Tutto è cominciato nella città di Iguala, nel Guerrero, il 26 settembre, quando tre pullman di studenti normalisti, impegnati in una raccolta fondi per partecipare alla grande manifestazione del 2 ottobre di Città del Messico in ricordo della strage di Tlatelolco, è stato duramente attaccato da un gruppo di poliziotti municipali che hanno sparato in maniera discriminata. Il saldo immediato dell’azione è stato di sei morti: tre studenti, l’autista di uno dei pullman, una persona che viaggiava a bordo di un taxi, e un giovane calciatore che si trovava su un altro pullman. Mentre decine di studenti sono riusciti a darsi alla fuga, di 43 di loro si sono completamente perse le tracce. Le indagini compiute dalla polizia federale hanno portato a pochissimi arresti, tutti di funzionari statali di basso livello e di alcuni narcotrafficanti di secondo piano del cartello locale dei Guerreros Unidos, tre dei quali hanno poi confessato che gli studenti desaparecidos sarebbero stati ammazzati e bruciati in fosse comuni. Queste testimonianze, poi assunte come ufficiali da parte dello stato nel tentativo di “chiudere” il caso, sono state rifiutate dalle famiglie degli studenti. In effetti, troppe sono le lacune della ricostruzione ufficiale, dalle testimonianze dei sopravvissuti al responso dei periti forensi argentini, che hanno trovato prove contrastanti; dalla volontà da parte dello stato di coprire personaggi politici di alto livello al fatto stesso che alcune dichiarazioni di narcotrafficanti erano state in passato smentite dalle indagini.

In Messico, la tragedia di Iguala non è un fatto isolato. Ad oggi le cifre ufficiali parlano di 140.000 morti vittime della cosiddetta guerra al narcotraffico iniziata con il governo di Felipe Calderon a partire dal 2007, e di 27.000 desaparecidos nello stesso periodo, molti dei quali attivisti politici o migranti centroamericani. Si è trattato, però, del caso che è riuscito più a “bucare” lo schermo mediatico, facendone nascere un movimento di massa di dimensioni vastissime. Con l’aumento della pressione sociale, il governo federale ha cercato di scaricare la responsabilità politica dell’accaduto sul sindaco di Iguala José Luis Abarca e su sua moglie, molto vicina ai narcos locali. Entrambi sono oggi agli arresti, mentre il governatore del Guerrero Angel Aguirre è stato costretto alle dimissioni. In entrambi i casi si tratta di politici che appartengono alla corrente di destra del Partito della Rivoluzione Democratica, di tradizione di centro-sinistra. La protesta popolare, tuttavia, ha rifiutato la strategia governativa di considerare la tragedia di settembre alla stregua di un semplice fatto locale, ed è stata in grado di portare la lotta a livello nazionale, indicando senza ambiguità nel sistema politico tutto, a partire dai vertici di quello che è a tutti gli effetti un narco-stato, la responsabilità politica e morale dell’accaduto. “E’ stato lo Stato” si è affermato infatti come l’enunciato politico principale di questi due mesi di mobilitazioni.

“Il massacro come forma di governo”

Più di altri episodi degli anni recenti, che sono rimasti vittime della censura mediatica, la tragedia di Iguala ha assunto una dimensione inedita probabilmente proprio a causa del suo carattere direttamente repressivo. Le dinamiche dell’accaduto e la peculiarità delle vittime, giovani studenti contadini e in molti casi indigeni frequentanti una scuola nota per la sua forte tradizione di lotta politica e sociale, hanno fatto risaltare in modo particolare il livello di complicità esistente tra lo stato e la criminalità organizzata.

A tal riguardo, ci vengono in aiuto le analisi dell’intellettuale uruguaiano Raul Zibechi, grande esperto di questioni messicane. In due brillanti articoli apparsi sul quotidiano la Jornada, Zibechi descrive con chiarezza il ruolo strategico del narcotraffico all’interno del capitalismo messicano, affermando che “il traffico di droga forma parte dell’accumulazione per spossessamento, tanto nella sua forma come nel suo contenuto. Funziona come impresa capitalistica, come ‘un’attività economica razionale’”. D’altro canto, la stessa pratica del massacro e della desaparicion è parte di una genealogia che distingue la storia americana coloniale da quella europea: “qui i mezzi per mantenere la disciplina non sono stati ne’ il panoptikon ne’ il satanic mill, ‘la fabbrica del diavolo’ della rivoluzione industriale e dello sfruttamento capitalista. Qui la violenza è stata, ed è, la norma, il modo per eliminare coloro che si ribellano (…). È il modo per dire a quelli in basso che non devono muoversi dal posto che è stato loro assegnato. Qui abbiamo avuto, e abbiamo, schiavitù; niente che assomigli al ‘libero lavoratore’ che ha contribuito allo sviluppo del capitalismo europeo nel rubare le terre ai contadini.”

Si tratta di una vera e propria forma di governo, che agisce all’interno di una sempre rinnovata strategia della paura che in Messico, solo per citare i decenni recenti, ha avuto come palcoscenico la strage di studenti in piazza Tlatelolco del 1968, quella dell’halconazo del 1971, il massacro di Aguas Blancas del 1995, quello ai danni della comunità chiapaneca de Las Abejas del 1997, per non parlare dei 72 migranti uccisi nel Tamaulipas nell’agosto 2010 e di innumerevoli altri episodi meno conosciuti.

Gli ultimi due mesi: provocazioni, desapariciones e gestione della piazza

Dai fatti di Iguala al 20 novembre, quarta giornata di azione globale per Ayotzinapa, le forze dell’ordine hanno mantenuto, a Città del Messico, un basso profilo. Mentre in stati in cui il clima sociale è straordinariamente teso, come Chiapas, Michoacan e soprattutto Guerrero, episodi di scontri di piazza, incendi, occupazioni di aeroporti, e reazione violenta della polizia sono all’ordine del giorno, nella capitale, vero cuore mediatico della protesta, è stato invece concesso ai cortei di arrivare nella Piazza della Costituzione – lo Zocalo, di fatto blindato a partire dai duri scontri del primo dicembre 2012, giorno di insediamento del governo di Enrique Peña Nieto – e non c’è stata presenza di cordoni di polizia a margine delle manifestazioni né si sono registrati seri episodi di scontro. Contemporaneamente, si è però assistito ad un aumento degli infiltrati della polizia nei cortei, a una sospetta cooperazione diretta con agenti di polizia statunitense e a una serie di provocazioni orientate alla legittimazione dell’intervento.

L’azione di contrasto al grande movimento popolare e studentesco sorto intorno al motto di “vivi se li sono portati via, vivi li rivogliamo”, si è data perlopiù lontano dalla piazza e per mezzo di pratiche estranee al protocollo legale o che violano apertamente i diritti umani.

Il 15 Novembre Jaqueline Selene Santana Lopez, studentessa di Economia, e Bryan Reyes Rodriguez, musicista, sono stati prelevati da 14 agenti in borghese della Centrale dei servizi segreti della polizia federale. L’operazione è stata interrotta da un agente di polizia di Città del Messico, che è intervenuto denunciando un caso di tentato sequestro. Di fronte all’intervento delle forze dell’ordine i sequestratori hanno accusato i due giovani del furto di 500 pesos (circa 30 euro) ai danni di uno di loro e li hanno trasferiti nei penitenziari locali. Ad oggi Jaqueline e Bryan sono ancora in stato di arresto.

Lo stesso giorno elementi della Procura Generale della Repubblica (PGR) si sono introdotti nell’Università Nazionale Autonoma del Messico (UNAM), dirigendosi verso l’auditorio occupato “Che Guevara” dove hanno iniziato a scattare delle foto. Di fronte alla richiesta di spiegazioni degli studenti presenti è nata una colluttazione durante la quale uno degli agenti ha aperto il fuoco ferendo due ragazzi e ammazzando un cane. Non sono stati presi provvedimenti legali nei confronti dell’agente e il rettore dell’UNAM ha ammesso di avere lui stesso autorizzato l’intervento della polizia a causa di un furto di un cellulare, permettendo di fatto che venisse violata l’autonomia dell’Università.

Nel frattempo, sempre più numerosi sono i casi di studenti, attivisti e avvocati del movimento, spesso nemmeno figure di primo piano, che sono stati pedinati e sorvegliati, anche davanti alle proprie abitazioni, da gruppi di agenti in borghese.

L’escalation della tensione è continuata con le dichiarazioni di Peña Nieto, che ha tenuto a ricordare che lo Stato detiene il monopolio della forza di fronte a quella che si presenta come “l’intenzione di destabilizzare il paese e attentare contro il progetto di nazione”. Dichiarazioni che si sono materializzate al termine dell’enorme manifestazione del 20 novembre, con il violento sgombero della Piazza della Costituzione ancora colma di cittadini.

Undici persone sono state tratte agli arresti, e accusate di tentato omicidio, sommossa e associazione a delinquere. L’utilizzo del capo d’accusa di “associazione a delinquere” e’ stato determinante in quanto, in virtu’ di una recente riforma del sistema penale, consente di applicare il carcere preventivo a discrezione del giudice e diminuisce i diritti e le garanzie degli imputati. Le accuse sono state sostenute su basi alquanto discutibili: le prove riportate dagli agenti sull’associazione a delinquere si baserebbero sul fatto che i detenuti si chiamassero tra loro “compas” (compagni) mentre il reato di tentato omicidio sarebbe sostenuto dal fatto che cantassero cori come “Morte a Peña” e “Morte alle istituzioni”.

La quarta giornata di azione globale per Ayotzinapa ha definito il punto di svolta della strategia repressiva dello stato messicano. L’intento del governo di disarticolare il movimento è passato da un piano di mera strategia della paura al più ampio tentativo di separare la legittima indignazione morale riguardo ai fatti di Iguala da una mobilitazione più politica, fondata sul rifiuto di quel sistema economico, sociale e di potere cui il dramma dei desaparecidos è inscindibilmente legato. Non siamo solo di fronte alla consueta separazione dei manifestanti tra buoni e cattivi, ma anche al tentativo di slegare la protesta per la liberazione degli arrestati – rappresentati ora come “delinquenti” e “terroristi” – da quella per la “restituzione con vita” degli studenti scomparsi, con l’intento di depoliticizzare quest’ultima, come se quanto successo nel Guerrero potesse essere considerato una sorta di cataclisma naturale. Indicativi, al riguardo, sono i recenti interventi del presidente Peña Nieto, che è arrivato addirittura a condividere il principale hashtag del movimento (#Todos SomosAyotzinapa”) e ad affermare: “mi aggiungo al clamore cittadino che esige giustizia”. Viene da chiedersi, a fronte dei manganelli, dei lacrimogeni e degli arresti arbitrari del 20 di novembre, che cosa possa voler dire, a questo punto, la parola “giustizia”.

Sia nel caso della repressione periferica e personalizzata sia in quello della violenza di piazza siamo di fronte a tentativi di annichilimento psicologico, prima ancora che fisico, della protesta sociale, che non vanno letti come separati da episodi come quello del massacro e della sparizione di massa.

Di fronte a questa strategia del terrore, il movimento ha saputo tessere una contronarrazione efficace che si è espressa materialmente nel corso della manifestazione del 25 novembre, convocata dai famigliari degli arrestati per denunciare la criminalizzazione della protesta sociale e per chiedere la liberazione immediata dei prigionieri politici. A una strategia della paura che rischia di fare presa su importanti strati della popolazione, la componente studentesca, i parenti degli arrestati e in particolar modo i movimenti femministi (trattandosi anche della giornata mondiale contro la violenza sulle donne), hanno dato prova di saper intrecciare le lotte e di saper coltivare il filo conduttore che lega la liberazione dei prigionieri politici, la “apparizione con vita” dei normalisti, la denuncia della violenza di genere a una radicale rifondazione della struttura politica e socio-economica del paese.

Il caso di Sandino Bucio, la liberazione degli arrestati e le incognite dell’1 dicembre

Venerdi 28 novembre un altro caso di grave intimidazione si e’ verificato nella capitale. Intorno alle cinque del pomeriggio Sandino Bucio, studente di Filosofia e Lettere, é stato accerchiato all’esterno dell’UNAM da un gruppo di agenti in borghese e tratto a forza all’interno di un’automobile; e’ riapparso alcune ore dopo, con segni di lesioni, nella sede della Sottoprocura Specializzata in Ricerca sulla Criminalità Organizzata (SEIDO) con accuse di terrorismo per i fatti occorsi del 20 novembre all’aeroporto di Città del Messico, in un tentativo di blocco avvenuto poche ore prima della grande manifestazione. Fortunatamente lo studente è stato successivamente rilasciato senza accuse a proprio carico.

E’ di sabato invece la notizia della liberazione degli undici arrestati dello Zocalo il 20 novembre, ottenuto soprattutto grazie alla presenza fra essi di uno studente cileno, Laurence “Moro” Maxwell, molto noto e stimato in patria in virtù della sua militanza nel movimento studentesco contro Pinochet durante gli anni ’80. Il suo arresto aveva causato forti rimostranze anche nei piani alti del governo cileno e aveva indotto alla mobilitazione moltissimi intellettuali di punta a livello internazionale, circostanza che ha evidentemente preoccupato il governo messicano, da sempre più attento alla credibilità internazionale piuttosto che al benessere e all’opinione dei propri cittadini.

Mentre il movimento festeggia la liberazione degli attivisti come una vittoria, la sua componente studentesca e universitaria rafforza la propria organizzazione, facendo prove di dialogo con il Congresso Nazionale Indigeno (e, di conseguenza, con l’EZLN) e con le organizzazioni sindacali e dando vita al Coordinamento Nazionale Studentesco, il cui primo incontro si è svolto nell’ultimo fine settimana proprio nella scuola normale rurale Raul Isidrio Burgos di Ayotzinapa, nello stato di Guerrero. Nel frattempo, cresce la tensione per la grande manifestazione nazionale di oggi, primo dicembre, la quinta da due mesi a questa parte.

Ricorrono infatti due anni esatti dai già ricordati scontri del primo dicembre del 2012 quando, per protestare contro l’insediamento del governo illegittimo (perché eletto attraverso brogli e un uso monopolistico dei media) di Peña Nieto, la polizia aveva messo in atto una repressione violentissima, che aveva causato la morte di un manifestante (dopo diversi mesi di coma) colpito da un lacrimogeno alla testa e la perdita di un occhio di un altro attivista.

L’appuntamento è previsto alle 4 del pomeriggio allo Zocalo e l’obiettivo potrebbe essere direttamente il palazzo presidenziale de Los Pinos. Mentre la paura comincia a serpeggiare dentro al movimento, la parola d’ordine e’ la stessa di sempre: “Ayotzinapa vive, la lucha sigue!”.

 

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