di MATTEO PASQUINELLI
Introduzione a: Gli algoritmi del capitale (Verona, Ombrecorte, 2014). In uscita questa settimana. → download PDF
La limousine aveva il pavimento in marmo di Carrara, estratto dalle cave in cui Michelangelo, mezzo millennio prima, aveva sfiorato con la punta del dito la bianca pietra stellata. Guardò Chin, abbandonato sul sedile, perso in divagazioni.
— “Quanti anni hai?”
— “Ventidue. Cosa? Ventidue…”
— “Metti in bocca una gomma e prova a non masticarla. Per uno della tua età, con le tue doti, c’è una sola cosa al mondo degna di interesse professionale e intellettuale. Che cos’è, Michael? L’interazione tra tecnologia e capitale, la loro inseparabilità”.
(Don Delillo, Cosmopolis)
La limousine di un miliardario non ancora trentenne procede lentamente per le strade di New York, tagliando l’orizzonte verticale delle torri del capitale finanziario. Più che la pornografia folkloristica di The Wolf of Wall Street di Martin Scorsese, è stato Cosmopolis di Don DeLillo, scritto negli stessi anni del movimento di Seattle e prima del tragico attacco alle Twin Towers, ad averci accompagnato nelle pieghe sofisticate della crisi attuale, nella virtualizzazione della finanza e delle relazioni sociali.1 I finestrini insonorizzati della limousine inquadrano, come schermi digitali, i marciapiedi di Manhattan, mentre all’interno altri monitor rimandano silenziosamente agli algoritmi delle fluttuazioni di borsa. In questo racconto ambientato nell’anno 2000 si anticipa già il connubio tra speculatori finanziari e giovani hacker maestri nel software di analisi dei mercati, in particolare quella manipolazione e astrazione del tempo collettivo in prodotti finanziari che tutti abbiamo imparato a conoscere come futures e “derivati”. L’atmosfera è sospesa e i dialoghi metafisici, ma la limousine si muove goffa nel traffico e goffamente incontra la storia nei corpi di una protesta anti-capitalista proprio negli stessi luoghi in cui esploderà, dieci anni più tardi, il movimento Occupy Wall Street. Ma questa odissea orizzontale e lineare sembra appunto solo estremizzare la vertigine dei grattacieli soprastanti, l’abisso rovesciato della proiezione numerica del capitale, l’astrazione di torri bancarie che appaiono architetture svuotate e proiettate fuori da questo mondo e da questo tempo, dove il futuro rincorre se stesso. Non è solo dal tettuccio di una limousine che questo si intravede.
Diversamente dai personaggi di Cosmopolis, la tesi variamente sostenuta dagli autori del presente libro è che capitalismo e sviluppo tecnologico possano essere radicalmente separati e ridisegnati in senso rivoluzionario, che le lotte politiche taglino di traverso la composizione tecnica, che l’astrazione più estrema dell’intelligenza sia un’arma propria della moltitudine e che il futuro debba essere riconquistato come terreno di una visione politica contro il moralismo dell’austerity. Coincidenza vuole che questa raccolta esca a cinquant’anni dalla prima traduzione italiana, nel quarto numero dei “Quaderni Rossi”, nel 1964, del cosiddetto “Frammento sulle macchine” di Marx.2 Un quarto di secolo fa, Paolo Virno diceva che il capitolo sulle macchine dei Grundrisse, in cui Marx profetizzava la crisi dell’accumulazione di valore a causa dell’egemonia del general intellect, si citava negli anni Sessanta per attaccare la supposta neutralità della scienza nella produzione industriale, negli anni Settanta come critica del socialismo di stato e dell’ideologia del lavoro e finalmente tra gli anni Ottanta e Novanta veniva acquisito come vera e propria incarnazione della tendenza del postfordismo e della società della conoscenza (senza alcuna eruzione conflittuale, veniva fatto notare).3 Tuttavia il fine di questo volume non è quello di compiere (narcisisticamente) un bilancio della questione techné all’interno dell’operaismo italiano: al contrario, si tratta di riprendere le provocazioni del presente, soprattutto quelle che ci raggiungono da latitudini intellettuali inaspettate e che prendono di mira i baluardi teorici più rassicuranti.
Parafrasando Virno, si potrebbe dire che nel XXI secolo il capitolo sulle macchine dei Grundrisse debba essere riletto e confrontato con un ulteriore stadio di sviluppo: ovvero con il livello di astrazione della cosmopolis finanziaria, logistica, securitaria e digitale.4 Le stesse tesi del capitalismo cognitivo e del lavoro immateriale devono oggi essere nuovamente sondate per comprendere l’accelerazione globale dell’intelligenza macchinica che gestisce tanto le reti della finanza quanto quelle della logistica, i social media quanto i confini dei flussi migratori, gli apparati di polizia e di intelligence quanto i calcolatori che misurano il cambiamento climatico. In una battuta, si potrebbe dire che non è sufficiente affermare che il capitalismo di oggi è un capitalismo cognitivo, ovvero che valorizza e organizza la conoscenza e le informazioni prodotte dal lavoro di una moltitudine globale ovunque assoggettata ad almeno una catena di montaggio numerica e a un dispositivo digitale (tutti hanno almeno un telefono cellulare). Il capitalismo ha sviluppato forme di intelligenza autonoma e di scala superiore. Si deve dire: il capitale stesso “pensa”.
Un po’ come quando la prospettiva moderna di Leon Battista Alberti nacque portando a Firenze le tecniche di proiezione ottica e astrazione geometrica dei matematici di Baghdad,5 raddrizzando molti quadri sghembi, aggiungendo una dimensione di profondità all’estetica e aprendo dunque una visione nuova delle spazio collettivo e politico, così sarebbe oggi salutare importare una visione aliena nella filosofia politica (e in particolare nella cosiddetta Italian Theory), per potere vedere i network globali e l’orizzonte tecnologico globale con la profondità e la proiezione di un nuovo paradigma, che faccia emergere e dischiuda uno spazio collettivo e politico più complesso. Si dà oggi un salto di qualità, un passaggio di paradigma, una breccia epistemica che dovrebbe essere riconosciuta da qualunque forma di pensiero. Urge un Machiavelli del nomos tecnologico globale.6 Il trontiano punto di vista “di parte” ha bisogno di un nuovo paio di occhiali per osservare la nuova profondità del “tutto” macchinico. Si prenda- no quattro esempi macroscopici e quattro aree di tensione politica con le quali tutti si devono confrontare, ovvero: il monopolio dell’economia digitale da parte di Google, Facebook e altri social media; le gigantesche reti della distribuzione e della logistica, come Amazon o Walmart; il recente datagate, ovvero lo scandalo che ha coinvolto le agenzie di intelligence americane intorno all’intercettazione e analisi dei metadati delle comunicazioni globali; i sensori, i calcolatori e i modelli attraverso i quali il cosiddetto cambiamento climatico della terra si dice venga registrato, calcolato e previsto. Ognuna di queste infrastrutture tecnologiche sta ridisegnano i confini del nomos politico degli stati tradizionali semplicemente aprendo nuovi spazi ed estendendosi in nuove dimensioni.
Non essendo questa la sede per addentrarci in tutti e quattro i livelli, basti qui tracciare un parallelo tra la questione del cambiamento climatico e gli apparati, le reti e la scala delle tecnologie messe in opera nel piano di sorveglianza PRISM della National Security Agency americana. Quello che è importante sottolineare è la scala di questa ultima operazione: immensi data center, paragonabili a quelli di Google e Facebook, sono stati costruiti dalla NSA al fine di intercettare, archiviare e analizzare il traffico internet e le comunicazioni individuali di mezzo mondo. Ma quel che è più importante è la scala epistemologica, la qualità della informazione e della conoscenza che in questo modo si estrae, analizza e produce. Un ex direttore della CIA lo ha riassunto in modo cinico ma efficace: “Uccidiamo persone sulla base dei metadati”.7 L’intercettazione di contenuti e il pedinamento individuale risultano molto meno interessanti ed efficaci della capacità di visione collettiva estratta nei metadati, ovvero nei dati che descrivono la dimensione collettiva (e quindi politica) di altri dati. Dal punto di vista di una epistemologia della scienza, non è arbitrario stabilire un parallelo tra i protocolli usati per l’intercettazione e la “previsione” dei crimini e del terrorismo con quelli usati per la misurazione e la “previsione” delle anomalie del riscaldamento globale. Scettici o meno riguardo al cambiamento climatico, la sua percezione collettiva e quindi politica (perché quella individuale e soggettiva non è un dato scientifico), dipende da una infrastruttura globale di sensori e calcolatori che è al di fuori dalle portata e del controllo di qualunque individuo, comunità o movimento. Solo superpotenze hanno la possibilità di accedere e controllare una tale mole di dati. “Una macchina immensa” – la definisce Paul Edwards nel libro A Vast Machine a proposito delle tecnologie che servono appunto per registrare il cambiamento climatico.8 Data questa nuova conformazione del comando imperiale, come si ridefinisce il conflitto? Dove si danno e come si chiamano le lotte?
Dove sono le forme di resistenza lungo questo nuovo asse maestro del comando? Ovunque. Non possiamo dire che le lotte contro le condizioni di lavoro della logistica asiatica siano più importanti di quelle degli studenti americani, che le lotte contro la gentrificazione a Berlino siano più importanti di quelle dei migranti in Campania, che quelle contro la corruzione e i nuovi oligopoli della rendita vengano prima di quelle contro l’austerity e contro il debito. Già nel Capitale (riprendendo le note dei Grundrisse), Marx scriveva a proposito di un “asse maestro” della produzione industriale che, separando e continuamente intrecciando potenza intellettuale e potenza manuale, oggi vediamo esteso organicamente a tutta la produzione globale:
È nella grande industria organizzatasi sul fondamento delle macchine che si verifica la separazione delle facoltà intellettuali [Potenzen] dal processo di produzione dal lavoro manuale, e la trasformazione di queste facoltà in dominio [Mächte] del capitale sul lavoro. L’abilità specifica del singolo operatore-macchina [Maschinen-arbeiter] s’annulla come accessorio assolutamente trascurabile di fronte alla scienza, alle gigantesche forze naturali e al lavoro sociale di massa, che sono incorporati nel sistema delle macchine e formano insieme ad esso il potere del master.9
È possibile visualizzare quindi anche un asse comune delle lotte globali? La comprensione di questo automaton tecnologico planetario, che ruota come fosse il vero e proprio asse gravitazionale delle terra, non viene né prima né dopo l’organizzazione politica. Né è parte consustanziale. Contro gli algoritmi del capitale vanno inventate nuove macchine del comune, macchine che intervengano su questo asse maestro della produzione mondiale per organizzare nuove e visionarie forme della politica, e immaginare persino avventure spaziali che, come ben suggerito dall’Afrofuturismo ripreso dagli stessi accelerazionisti, siano capaci di contrastare e sfidare la forza di gravità del capitalismo terrestre.
Questo volume si apre, non a caso, con la traduzione in italiano del Manifesto per una politica accelerazionista di Alex Williams e Nick Srnicek, probabilmente il caso editoriale del 2013 per quanto riguarda il pensiero politico radicale. Tradotto in diverse lingue, questo manifesto emerge dallo specifico ambiente intellettuale che si è ritrovato intorno alla rivista inglese “Collapse”, a volte genericamente individuato nell’etichetta filosofica di Realismo Speculativo e in autori come Reza Negarestani e Ray Brassier. Il dibattito è ancora più ampio e tutt’ora in corso. Impossibile tradurre e sistematizzare la mole di reazioni che il Manifesto accelerazionista ha catalizzato nel mondo anglofono, senza escludere alcuni facili e superficiali recuperi accademici (soprattutto in Germania) per i quali bisognerà aspettare qualche anno di decantazione. Le sette tesi su marxismo e accelerazionismo preparate in vista del simposio organizzato a Berlino nel dicembre 2013 e qui riportate non sono che un tentativo di costruire ponti concettuali tra arcipelaghi di pensiero distanti. Pur registrando questa differenza di latitudini politiche, Antonio Negri fa notare come il Manifesto raggiunga conclusioni simili a quelle dell’operaismo sul concetto di tendenza nel capitalismo cognitivo e macchinico. Negri risponde al Manifesto con una critica che ne riconosce il coraggio intellettuale, ma ne riporta il programma al problema dell’organizzazione del politico, che nessuna tecnologia di pianificazione potrà mai semplificare, e alle forze sociali che si ritrovano dietro qualsiasi “algoritmo” del comando. Da parte sua, Franco “Bifo” Berardi critica in particolare la definizione stessa di accelerazionismo, poiché non è accelerando le potenzialità contenute nella forma capitalistica che si rende il capitalismo instabile. Anzi, il capitale si fonderebbe su questa continua invenzione e produzione di catastrofi (come ben spiegato da Naomi Klein nel suo libro sulla “economia dei disastri”).10 Una menzione particolare va riservata a Nick Dyer-Witheford, già autore nel 1999, in tempi davvero non sospetti, di Cyber-Marx, di sicuro il primo studio sistematico della cibernetica e delle macchine informatiche dal punto di vista della tradizione autonomista.11 In questo occasione, invece, Dyer-Witheford rilegge la saga del romanzo Red Plenty, ambientata in un mondo tecnologico e politico speculare a quello della New York di DeLillo, ovvero negli anni della cibernetica sovietica.12 Riprendendo il dibattito sul “calcolo economico socialista”, Dyer-Witheford illustra l’economia delle merci come un problema di computazione che la cibernetica fortemente centralizzata dei sovietici non riuscì a risolvere. In sintonia con lo spirito del Manifesto accelerazionista, Dyer-Witheford quindi ricorda altri tentativi di cibernetica rivoluzionaria, quali il progetto Cybersyn sviluppato per il governo di Salvador Allende nei primi anni settanta in Cile.
La seconda parte del volume si concentra sullo statuto politico ed economico dell’algoritmo, ovvero di quelle macchine astratte che all’apice della piramide della produzione gestiscono oggi ogni componente della divisione del lavoro, della comunicazione e della logistica delle merci. Il saggio “Capitalismo macchinico e plus-valore di rete” riprende alcune fulminanti intuizioni di Romano Alquati (già profeticamente pubblicate in un numero dei “Quaderni Rossi” del vicino 1963!) sull’informazione valorizzante e sulla trasformazione della conoscenza operaia nella burocrazia cibernetica della fabbrica (o trasformazione della conoscenza in intelligenza macchinica, diremmo oggi). Si descrive quindi l’ascesa di una società dei metadati che a va sostituire l’immagine obsoleta di una società della rete. Mercedes Bunz spiega, con un linguaggio meno teorico e con esempi concreti, l’automazione del lavoro e la trasformazione della conoscenza tradizionale (compresa scuola e università) sotto l’impatto degli algoritmi che gestiscono, ad esempio, i siti web di medicina e salute o le app che aiutano chirurgi, dottori e infermieri nella loro professione quotidiana. Bunz non è pessimista riguardo al futuro e nota come l’automazione della conoscenza e del lavoro, anche dei cosiddetti “esperti”, apra in realtà all’esplorazione di nuovi campi del sapere per tutta la società. In modo più distopico, Stefano Harney introduce la nuova gestione “algoritmica” delle catene di montaggio e della logistica globale, in particolare il caso delle tecniche di management giapponese note come kaizen, e come questa astrazione della gestione corra perfettamente parallela e in molti casi preceda l’astrazione della finanza che ha rimodellato le imprese negli ultimi decenni. Harney disegna una catena di montaggio che esce dalla fabbrica e diventa una vera e propria linea astratta che attraversa tutta la società e si alimenta di quello che egli chiama lavoro sinaptico, non semplicemente lavoro cognitivo ma la trasformazione della nostra attività quotidiana in una continua catena di montaggio materiale e immateriale. A un livello superiore, questo trasforma le imprese private e le stesse organizzazioni pubbliche in vere e proprie istituzioni algoritmiche che nel loro funzionamento non sentono il bisogno di quel concetto di “produzione di soggettività” con il quale si è tentato di spiegare negli ultimi anni il regime della cosiddetto “capitalismo biopolitico”. Tiziana Terranova, infine, tenta di sintetizzare il lavoro di ricerca su algoritmi e capitale compiuto e sedimentatosi negli ultimi anni tra diverse istituzioni accademiche e gruppi di autoformazione e conricerca. Sulla traccia dell’idea di Black Stack di Benjamin Bratton, ovvero la formazione di un nuovo nomos della terra dove poteri tradizionali come gli stati nazione si intrecciano con le corporation globali della rete, Terranova propone il concetto di Red Stack, ovvero l’emergere di un nomos del comune post-capitalista. In questo progetto la sperimentazione di monete virtuali o cryptocurrency come Bitcoin si allea con una nuova autonoma organizzazione dei social network.
La terza parte del volume si assume il compito più arduo, ovvero quello di una sintesi politica tra una potenziale accelerazione tecnologica e le questioni del reddito, del welfare, della moneta, della riappropriazione del capitale, e quindi dell’autonomia del comune. Carlo Vercellone riprende l’ipotesi del capitalismo cognitivo per dimostrare come il “reddito sociale garantito” sia a tutti gli effetti una “istituzione del comune” fondata sul primato del non mercantile e della cooperazione, fornendo un reddito primario agli individui e consolidando un permanente investimento della società nel sapere. In che modo si intrecciano astrazione tecnologica e astrazione monetaria? Christian Marazzi ne trova il nodo nella natura linguistica delle moneta. Non si tratta di una semplice omologia strutturale tra i due vettori, ma del fatto che oggi moneta e linguaggio si sovrappongono a tal punto che la “convenzione assoluta” delle moneta è ormai inscindibile dalla strategia linguistica-comunicativa, ad esempio, dei mercati borsistici. Marazzi è, ad ogni modo, critico dell’idea stessa di una “moneta del comune” e degli esperimenti alla Bitcoin, se questi non mettono in discussione la natura del lavoro e la ridistribuzione della ricchezza creata da quello stesso lavoro.
La sfida di questo libro è quella di immergersi in una storia in continua mutazione, in una storia della tecnologia e delle moltitudini che produce continuamente nuove idee che suonano sempre come lingue straniere, concetti astratti o addirittura messaggi extraterrestri quando le si incontra per la prima volta. Con J.G. Ballard dovremmo davvero ripetere che la terra è per noi l’unico e vero “pianeta alieno” da esplorare, come aliena deve essere sempre la nostra stessa intelligenza politica – intelligenza che viene a sfidare il capitale in quanto macchina di altissima astrazione e a rilanciare il comune come macchina di ben più potente astrazione.
Maggiori informazioni: www.matteopasquinelli.com/algorithms-of-capital
Don DeLillo, Cosmopolis, trad. it. di S. Pareschi, Einaudi, Torino 2006. ↩
Karl Marx, “Frammento sulle macchine”, trad. it. di R. Solmi, in “Quaderni rossi”, 4, 1964. Tratto da Grundrisse der Kritik der Politischen Ökonomie, Dietz Verlag, Berlin 1953, pp. 583-594. ↩
Paolo Virno, “Citazioni di fronte al pericolo”, in “Luogo comune”, 1, 1990. Ripubblicato in “DeriveApprodi”, 18, 1999. ↩
Per una mappa delle forme di soggettività nella crisi contemporanea si vedano le definizioni di (uomo) indebitato, mediatizzato, securizzato e rappresentato in Michael Hardt e Antonio Negri, Questo non è un manifesto, trad. it. di S. Valenti, Feltrinelli, Milano 2013. ↩
Hans Belting, Florenz und Bagdad: Eine westöstliche Geschichte des Blicks, Beck Verlag, München 2008. ↩
Come esempio ben concreto e materiale dell’antagonismo continuo tra lavoro vivo e astrazioni più o meno tecnologiche che disegnano il mondo, si prenda la relazione tra cartografia e confini politico-economici che decidono dei flussi migratori. A proposito si veda il concetto di fabrica mundi in Sandro Mezzadra e Brett Nielson, Confini e frontiere. La moltiplicazione del lavoro nel mondo globale, trad. it. di G. Roggero, il Mulino, Bologna 2014. ↩
David Cole, We Kill People Based on Metadata, in “The New York Reviews of Book”, maggio 2014. Web: www.nybooks.com/blogs/nyrblog/2014/may/10/we-kill-people- based-metadata ↩
Paul Edwards, A Vast Machine: Computer Models, Climate Data and the Politics of Global Warming, MIT Press, Cambridge (MA) 2010. ↩
Karl Marx, Capital, vol. 1., Otto Meisnner, Hamburg 1867. Traduzione inglese: Capital, vol. 1. Penguin, London 1964, p. 549. Traduzione mia. Nell’originale Marx usa l’espressione inglese master, che significa “capo” o “padrone”, ma anche “maestro”, che suggerisce il doppio significato di asse centrale della produzione e della conoscenza (si veda l’italiano “asse maestro”). ↩
Naomi Klein, Shock economy. L’ascesa del capitalismo dei disastri, Rizzoli, Milano 2007. ↩
Nick Dyer-Witheford, Cyber-Marx: Cycles and Circuits of Struggle in High-Technology Capitalism, University of Illinois Press, Urbana 1999. ↩
Francis Spufford, L’ultima fiaba russa, Bollati Boringhieri, Torino 2013. ↩