di ROBERTO CICCARELLI.
Michael Hardt il suo libro sul filosofo francese Gilles Deleuze ha un sottotitolo curioso: un apprendistato in filosofia. Cosa significa?
Ero interessato ai primi libri di Deleuze, per questo potrei dire che è stato un periodo di apprendistato. Ma per apprendistato volevo indicare il modo in cui affronta gli altri filosofi. In effetti Deleuze legge i filosofi in una maniera peculiare e selettiva. Raramente li critica, piuttosto seleziona le affermazioni e ciò che trova più utile. Non critica, ad esempio, il cristianesimo di Bergson, o le teorie misogine e anti-democratiche di Nietzsche, ma le mette semplicemente da parte e si concentra su quello che vuole. In Bergson, ad esempio, trova un’ontologia della molteplicità; in Nietzsche evidenzia la logica attiva contro quella reattiva. E in Spinoza, la pratica della gioia.
Si potrebbe dire che questo rende Deleuze un cattivo filosofo o uno storico della filosofia inaffidabile perché non fornisce un bilancio pieno ed equilibrato. Io invece lo considero come un processo di apprendistato. Come un artigiano in formazione, Deleuze lavora nell’officina di questi filosofi diversi, ma non è un loro schiavo. Non cerca di riprodurre il lavoro del maestro, ma semplicemente impara quello che vuole e va oltre. Alla fine degli anni Sessanta, l’apprendistato di Deleuze era completo e lui era capace di iniziare a scrivere diversamente, a cominciare da libri come Logica del Senso e Differenza e Ripetizione.
Parlando di apprendistato intendevo anche riflettere sulla mia posizione. Leggere Deleuze, lavorare sui suoi testi, per me era un modo per entrare nella filosofia, una specie di allenamento. Era questo che speravo fosse il libro: uno strumento per usare il modo di fare filosofia di Deleuze.
Oggi Deleuze è uno dei filosofi più letti al mondo. Cosa pensa del suo successo nel campo dell’arte, delle accademie, o della critica estetica o architettura?
Deleuze sarà certamente ricordato come uno dei più grandi pensatori del XX secolo. Era un filosofo molto tradizionale nel senso che ha dedicato molta attenzione al canone della filosofia europea. Potrebbe sembrare paradossale il fatto che la sua opera abbia avuto una simile influenza fuori dall’università, ad esempio, tra gli artisti e gli architetti. Trovo molto interessante che per molti anni i due volumi di Deleuze sul cinema abbiano avuto poca influenza nel campo accademico dei film studies – gli studiosi non sapevano cosa farsen. I film-makers li hanno invece adottati insieme ai loro concetti. Nonostante la cornice filosofica tradizionale del suo pensiero, l’opera di Deleuze ha un nucleo pratico e i suoi concetti parlano ai bisogni e alla logica di coloro che operano. Questo carattere pratico – questa costante relazione con il fare – spiega anche perchè ho trovato la sua opera utile per la politica, anche quando Deleuze non si è occupato direttamente di questioni politiche.
Lei ritiene Deleuze un comunista. Mi sembra invece più articolato il giudizio sul suo rapporto con il marxismo. Perché?
Si, considero Deleuze un comunista anche se, a differenza della quasi maggioranza degli altri riconosciuti filosofi francesi della sua generazione, non è mai stato un membro del partito comunista. (Pcf). Questo potrebbe essere un buon punto di inizio per affrontare la sua curiosa relazione con il marxismo. Certamente Deleuze era disgustato dal materialismo dialettico sovietico (Diamat), ma si è confrontato a fondo con Marx, soprattutto grazie alle sue collaborazioni con Felix Guattari. Deleuze disse nella sua ultima intervista che stava lavorando a un libro su Marx, ma sfortunamente nessun materiale gli è sopravvissuto. Deleuze potrebbe anche avere avuto un problema con il marxismo, almeno con il marxismo dominante in Francia a quel tempo, ma certo non aveva problemi con Marx.
Questo è strettamente collegato alla sua allergia per la dialettica, che ho cercato di evidenziare nella prefazione al libro. Non direi che si opponeva a tutti i suoi usi, dall’antica Grecia in poi molti pensieri differenti hanno infatti usato questo termine. Deleuze si opponeva specificatamente alla dialettica hegeliana in cui le differenze sono spinte fino al punto della contraddizione e poi sussunte all’unità. Potremmo anche leggere Hegel per dimostrare che il suo uso della dialettica è diverso rispetto a questa versione diffusa. Ma ciò che è importante per Deleuze è riconoscere la differenza e la molteplicità. Lui riteneva che la dialettica danneggiasse questo aspetto.
Anche Foucault, un altro suo autore di riferimento, ha avuto un rapporto dialettico e problematico con Marx e il marxismo. Come mai, due degli autori radicali più letti al mondo, problematizzano il marxismo?
Anche per Foucault penso che la risposta stia nella sua relazione con le forze accademiche dominanti e gli intellettuali vicini al Pcf. A mio avviso Deleuze faceva molta più attenzione nel distinguere tra il marxismo dominante e l’opera di Marx. Tuttavia, io interpreto i pochi passaggi dispregiativi su Marx contenuti nell’opera di Foucault indirizzati principalmente contro gli ideologi marxisti contemporanei. Diversamente da Deleuze, Foucault non ha mai affrontato direttamente e profondamente Marx. Considero l’AntiEdipo e Mille Piani di Deleuze e Guattari come un coinvolgimento profondo e uno sviluppo ulteriore dell’opera di Marx, nella piena coscienza di tutte le nuove potenzialità e i nuovi problemi emersi con il movimento del 1968.
Per lei Deleuze è un filosofo politico, della creazione e della costituzione. Oggi avverte invece il rischio di una lettura apolitica e postmoderna?
Era una delle mie principali preoccupazioni quando scrivevo il libro. Da studente universitario negli Stati Uniti imparai che la nuova generazione di pensatori francesi – Deleuze, Foucault o Derrida – erano apolitici o forse liberali. Ma quando lessi i loro libri, trovai che era vero esattamente l’opposto. Mi sembrava infatti che le loro opere parlavano degli stessi temi che noi affrontavamo nei movimenti sociali in quel momento e lo facevano in una maniera più chiara e più creativa di qualsiasi cosa avessi letto prima di allora.
Come prima cosa bisogna distinguere questi autori, considerati “post-strutturalisti”, dai postmoderni che sono a tutti gli effetti apolitici e liberali. In secondo luogo bisogna articolare e dimostrare la specificità politica del post-strutturalismo. Questo era il mio interesse allora. È probabilmente vero che ancora oggi esistano molte letture apolitiche di Deleuze, e di Foucault. Ma questo non lo trovo un pericolo dato che esistono anche molte altre eccellenti interpretazioni che dimostrano l’utilità politica di questi lavori.
Quali sono i concetti principali della politica deleuziana e come li si può usare oggi?
In generale non trovo che i concetti di Deleuze possano essere applicabili direttamente alla politica, in particolare quelli dei primi libri. Anche sotto l’influenza di Guattari, nei loro libri a due, i concetti suggeriscono tuttavia l’esistenza di possibilità politiche, anche se non direttamente. Trovo invece che i loro concetti abbiano bisogno di essere sviluppati creativamente sul terreno della politica e della militanza.
Ad esempio: la molteplicità, un concetto che attraversa l’opera di Deleuze in varie forme. Questo è uno dei più ricchi in termini di possibilità politiche, anche se è necessario fare un altro passo in avanti per fare un discorso politico. Con Toni Negri ho sviluppato il concetto di moltitudine e la nozione deleuziana di molteplicità è stata uno dei punti di riferimento. Con “moltitudine” abbiamo cercato di ripensare il popolo, il partito e la classe che sono stati intesi prevalentemente nei termini dell’unità. Noi, invece, intendiamo questo concetto come il potere delle molteplicità politiche. Moltitudine dunque non è un concetto di Deleuze, ma è un esempio di come si può usare la sua nozione di molteplicità. E di certo questo non è l’unico uso possibile.
Oggi sono tornate di moda le politiche keynesiane e tardo-socialdemocratiche, centrate sul ritorno al salariato e ai suoi diritti. Dal punto di vista di una filosofia deleuziana della politica, è un’alternativa convincente?
Deleuze non era certo uno Stato-fobico, ma pensare che lo Stato possa risolvere i disastri sociali e politici del neoliberismo non coglie per nulla lo spirito del suo pensiero. Deleuze diede una risposta elegante nel video sull’abecedario quando Claire Parnet gli chiese di parlare della “sinistra”. Disse che non esiste un governo di sinistra, piuttosto che possono esistere governi che aprono, più o meno, spazi per la sinistra. Il luogo reale della creatività politica e del dinamismo, così interpreto questa frase, non è lo Stato ma i movimenti sociali. Un governo di sinistra può alimentare e favorire i movimenti, ma i movimenti dovranno essere i creatori di innovazioni politiche reali. Di conseguenza, direi che oggi per combattere i regimi dell’austerità e contro la precarietà dilagante del lavoro, quello di cui c’è bisogno è reinventare e rafforzare la militanza nei movimenti creativi.
Questo articolo è uscito su Il Manifesto il giorno 08.07.2017