di SANDRO MEZZADRA*
1. La pubblicazione dei corsi tenuti da Michel Foucault al Collège de France tra il 1970 e il 1984 ha ormai sedimentato un secondo corpus di opere del filosofo francese, accanto a quelle da lui pubblicate. E non si può che rimanere affascinati, anche semplicemente scorrendo i volumi, dall’inquietudine e dal rigore con cui egli apriva continuamente nuovi cantieri di ricerca, da quello sul neoliberalismo (a cui è dedicato il corso del 1979) a quelli greci e tardo-antichi degli ultimi anni. Temi e concetti associati al lavoro di Foucault, ad esempio quelli di “governamentalità” e “biopolitica”, trovano nei corsi della seconda metà degli anni Settanta sviluppi di straordinaria e talvolta imprevista ricchezza. E d’altro canto, ascoltando “la parola pubblicamente proferita da Foucault” (a cui i curatori si attengono con scrupoloso rigore), ne abbiamo imparato a conoscere lo stile di insegnante, l’eleganza ma anche la capacità di affascinare e coinvolgere chi lo ascoltava.
Si capisce dunque come l’uscita di un nuovo corso, mentre l’edizione si avvia alla conclusione, costituisca sempre un evento. Quello da poco pubblicato in Francia si intitola La societé punitive (a cura di Bernard E. Harcourt, EHESS/Gallimard/Seuil, pp. 354, € 26), ed è stato tenuto nel primo trimestre del 1973. Si situa dunque in uno dei momenti di più intensa militanza politica di Foucault, in particolare sui temi della penalità e della prigione, a fianco delle lotte e dell’organizzazione autonoma dei detenuti. “Indignazione” e “collera”, come giustamente sottolinea Harcourt, danno il tono generale a questo corso, e lo rendono tra le altre cose un documento dell’appassionata ricerca di uno stile di lavoro intellettuale capace di situarsi del tutto all’interno della lotta politica. Sotto il profilo del metodo, poi, è un corso in qualche modo di transizione, caratterizzato dalla ricerca e dalla sperimentazione di un’articolazione tra “archeologia” e “genealogia”. Molti temi qui affrontati sono ripresi da Foucault in conferenze e testi dello stesso periodo (in particolare in La verità e le forme giuridiche, in La vita degli uomini infami e in Io, Pierre Rivière), nonché naturalmente nel grande libro dedicato nel 1975 alla nascita della prigione, Sorvegliare e punire, di cui il corso del 1973 costituisce una sorta di prova generale.
2. “Perché questa strana istituzione che è la prigione?” Questa domanda guida tanto Sorvegliare e punire quanto La societé punitive. È tuttavia significativo che nel corso del 1973 essa venga formulata in termini espliciti soltanto all’inizio dell’ultima lezione. Foucault, a quel punto, aveva già ampiamente mostrato come la detenzione e la reclusione si fossero installate al centro dei sistemi penali europei soltanto con le “grandi riforme avviate negli anni compresi tra il 1780 e il 1820”. La prigione era stata dunque “de-naturalizzata”, e poteva a buon diritto apparire come una “strana istituzione”: la sua emergenza storica era stata studiata nelle lezioni precedenti dall’interno di trasformazioni profonde della morale, delle tecniche di governo e di polizia e delle “tattiche penali”. Proprio l’attenzione rivolta alla sua emergenza storica in qualche modo “de-centra” la prigione rispetto all’analisi condotta in Sorvegliare e punire: Foucault, in altri termini, non guarda alla società a partire dalla prigione (come sembra avvenire in alcuni capitoli del libro del 1975), ma punta piuttosto a comprendere quest’ultima a partire dalle trasformazioni più generali che segnano l’avvento del capitalismo moderno. La stessa categoria di “potere disciplinare” (di “società a potere disciplinare”) appare nel corso del 1973 forse definita in modo meno preciso, ma più duttile e meno rigidamente ancorata alla produzione di una determinata figura di soggettività (l’individuo) e a una specifica forma di istituzione (sul celebre modello benthamiano del panopticon).
Foucault comincia del resto il corso con una serrata critica della categoria di “esclusione”, che a suo avviso non consente di “analizzare le lotte, i rapporti, le operazioni specifiche del potere”. In questione non è qui soltanto il riferimento alla natura “produttiva” (e non solamente repressiva) del potere e al nesso strettissimo tra potere e sapere: La societé punitive studia questo nesso sul terreno della penalità e lo contrappone, in termini teorici, allo “schema dell’ideologia”, secondo cui “il potere non può produrre nell’ordine della conoscenza che degli effetti appunto ideologici”, di copertura e di falsa coscienza. Sono temi noti ai lettori di Foucault, così come – soprattutto negli scritti di questi anni – è ricorrente l’enfasi posta sulla natura relazionale del potere, sul suo costitutivo nesso con le resistenze e con le lotte. È tuttavia proprio a quest’ultimo riguardo che il corso del 1973 presenta elementi di indubbia originalità, a partire dalla scelta della “guerra civile” come schema teorico fondamentale per la comprensione critica del potere (la politica, afferma Foucault, “è la prosecuzione della guerra civile”). Tanto lo sviluppo dei sistemi morali, la cui ricostruzione prende avvio dallo studio della dissidenza religiosa in Inghilterra tra Sei e Settecento, quanto le trasformazioni dei regimi di governo e di controllo vengono analizzati sullo sfondo di una fitta trama di “illegalismi popolari”, che condizionano in profondità l’evoluzione dei regimi giuridici e delle tecniche punitive.
In un libro importante, dedicato alla storia delle impiccagioni comminate ed eseguite a Londra nel XVIII secolo (The London Hanged, Penguin, 1991), lo storico inglese Peter Linebaugh aveva criticato Sorvegliare e punire per la sua tendenza ad accreditare l’impressione di una sorta di “onnipotenza” delle classi dominanti, e a offrire un’immagine troppo lineare del “grande internamento” da cui nasce la prigione. Comunque stiano le cose a proposito del libro del 1975, La societé punitive propone una prospettiva molto diversa su quel medesimo processo storico. Entro un fitto dialogo con gli studi sul “farsi” della classe operaia inglese di E.P. Thompson, Foucault studia qui l’emergenza della prigione dall’interno dei processi di proletarizzazione collegati allo sviluppo del modo di produzione capitalistico. E mette in evidenza il carattere violentemente antagonistico di questi processi, in particolare sulla base di una politicizzazione delle pratiche di mobilità che anticipa gli sviluppi della ricerca degli ultimi anni (si pensi ad esempio al libro di Yann Moulier Boutang, Dalla schiavitù al lavoro salariato, Manifestolibri, 2002).
Ricostruendo le metamorfosi della figura del criminale come “nemico sociale”, Foucault si sofferma infatti in modo particolare sulla rottura determinata dall’emergere, con i fisiocratici, di un’analisi della delinquenza improntata all’economia politica, al primato della produzione. Qui il vagabondaggio si afferma come “matrice generale del crimine”, e “il vagabondo è fondamentalmente colui che rifiuta il lavoro”. Una serie di “illegalismi di dissipazione” si incaricherà di moltiplicare gli echi di questo rifiuto ben dentro il XIX secolo, prendendo “forme più o meno collettive e organizzate, fino a quella dello sciopero”. Altri illegalismi, che Foucault definisce “di depredazione”, penetreranno contemporaneamente nel cuore degli apparati produttivi, assumendo un significato nuovo: Patrick Colquouhn, il fondatore alla fine del Settecento della polizia del Tamigi a Londra, non si stancava di ripetere che gli operai portuali non possedevano nulla ma si trovavano quotidianamente a contatto con merci e mezzi di produzione di incalcolabile valore.
3. Politicizzazione della mobilità e carattere antagonistico dei processi di proletarizzazione sono dunque due degli elementi fondamentali di La societé punitive. E più in generale, dice Foucault: “è sempre il corpo dell’operaio, nel suo rapporto con la ricchezza, con il profitto, con la legge, a costituire il grande gioco attorno al quale si organizza il sistema penale”. È un problema presente anche in Sorvegliare e punire, ma qui sembra assumere un rilievo maggiore, anche in termini teorici. E conduce Foucault a instaurare un confronto con Marx tra i più intensi dell’intero suo percorso di ricerca, ben al di là delle menzioni dirette dell’autore del Capitale. La formula con cui nell’ultima lezione è riassunta la sequenza studiata nel corso (“una serie che caratterizza la società moderna”) è molto chiara a questo proposito: “costituzione della forza lavoro – apparati di sequestro – funzione permanente di normalizzazione”. È proprio il problema della produzione di forza lavoro, della “fabbricazione” e del disciplinamento dei soggetti che si tratta di costringere a lavorare in posizione subordinata all’interno della manifattura e dell’industria nascente, a costituire il centro di gravitazione del discorso di Foucault.
Il corpo operaio è bersaglio eminente del potere disciplinare proprio perché la “forza lavoro” in esso custodita deve essere trasformata in “forza produttiva” (è un tema attorno a cui ha scritto di recente pagine importanti Pierre Macherey, Il soggetto produttivo. Da Foucault a Marx, ombre corte, 2013). Gli elementi di coazione extra-economica che Marx aveva analizzato a proposito della “cosiddetta accumulazione originaria” sono per Foucault costitutivi del modo di produzione capitalistico, proprio nella misura in cui la “trasformazione” appena evocata è un processo antagonistico, che investe corpi e menti potenzialmente sempre insubordinati e ribelli. Di qui l’esigenza, per assicurare la tenuta dello stesso mercato del lavoro, di una serie di “raddoppiamenti” della coazione costitutiva del capitalismo, tra i quali figura in primo luogo la prigione (la cui forma replica, attraverso un’“estrazione reale del tempo a partire dalla vita degli uomini”, la forma salario). Ma lo stesso discorso sui sistemi morali, che Foucault qui comincia a svolgere utilizzando la categoria di “condotta”, punta a far emergere altri “raddoppiamenti” della coazione costitutiva del concetto stesso di forza lavoro: quasi in un controcanto con l’analisi di Max Weber, lo sviluppo delle dottrine morali viene qui studiato dal punto di vista dei soggetti dominati e sfruttati, a cui si tratta di “inculcare” l’abitudine e la norma “innaturale” del lavoro salariato.
Produzione di soggettività, produzione della forza lavoro, sua trasformazione in forza produttiva: attorno a questi problemi La societé punitive studia certo la nascita della prigione, ma mette anche alla prova una più generale prospettiva di analisi del potere. Lo svolgimento di un problema marxiano conduce Foucault lontano dal marxismo del suo tempo (e molti sono qui i riferimenti polemici in particolare a Louis Althusser): lungi dall’essere “subordinato” al modo di produzione capitalistico, in particolare, il potere ne è un elemento costitutivo e funziona “al cuore” di esso. Quel che ne risulta è una politicizzazione dell’analisi critica del capitalismo, che Foucault veniva elaborando in un dialogo costante con i movimenti dei primi anni Settanta, che puntavano a suo giudizio – ben oltre la pratica di una sterile “trasgressione” – a “disfare” quel legame tra “morale, produzione capitalistica e apparati di Stato” la cui tessitura è ricostruita nel corso del 1973. Non v’è possibilità di invenzione di nuove “condotte”, sembra dire Foucault con questo riferimento ai movimenti al cui interno si svolgeva la sua militanza, senza un confronto diretto con quel legame, senza spezzarlo.
* da “il manifesto” di martedì 8 febbraio 2014