di FRANCESCO FERRI.

Taranto, Europa. Il Pala Ricciardi è un’anonima struttura situata nella periferia sud della cittadina Ionica. Una storia come tante in un quartiere periferico di una città del sud: una convenzione per l’utilizzo scaduta, alcuni problemi di agibilità, una lunga querelle tra l’amministrazione comunale e le società sportive che la utilizzavano. Una vicenda di abbandono e indifferenza dai profili così abituali da risultare banale, se non fosse che, da diverse settimane a questa parte, alla stessa struttura è stata attribuita una nuova – informale – destinazione d’uso.

Il Pala Ricciardi non è, come il nome lascia facilmente intendere, né un centro d’accoglienza, né una struttura alberghiera, e neanche un luogo attrezzato, nemmeno in senso lato, per ospitare donne e uomini: è, banalmente, un palazzetto dello sport. Nonostante ciò, nell’ultimo mese alcune migliaia di uomini e alcune centinaia di donne – e nelle fasi iniziali anche numerosi bambini – sbarcati dalle navi della Marina Militare nel porto di Taranto nell’ottica dell’operazione Mare Nostrum, sono transitati e/o sono stati ospitati in questo nonluogo, a volte finendo per viverci per lunghi ed estenuanti periodi, nell’attesa di altra destinazione – o della volontaria dispersione nel territorio.

Se nel porto di Taranto l’immaginario del confine militar-umanitario viene ancora messo in scena con una pur decadente teatralità, con la presenza congiunta di forze dell’ordine e personale medico sanitario, la logica che accompagna la collocazione successiva delle migranti e dei migranti è governata da una disarmante precarietà: un ammasso di materiassi adagiati gli uni accanto agli altri, con temperature spesso elevatissime e l’idea di privacy che ha la misura dei pochi centimetri che separano dall’ospite accanto,  un’incertezza diffusa anche solo nel ricevere risposte all’innocente domanda intorno al “dove siamo?”, che spesso si arena nell’assenza di interlocutori capaci di interloquire in inglese, francese o arabo.

Una buona cifra complessiva della precarietà del funzionamento di questa inadeguata struttura nel capoluogo Ionico (precarietà condivisa anche un’altra struttura predisposta – si pensi un po’ – in un ex mercato ortofrutticolo nel famigerato quartiere Tamburi) risiede nella circostanza per la quale uno degli strumenti più efficaci di coordinamento degli aiuti è rappresentato da un gruppo facebook chiamato, appunto, coordinamento aiuti Taranto nel quale anche in queste ore si leggono appelli dei volontari che invitano a donare, per esempio, latte, biscotti, prodotti per l’igiene personale. Una complessiva precarietà che, accanto alle elevate difficoltà nell’assistenza materiale, se si indagalo le fisiologiche esigenze in tema, per esempio, di bisogni culturali, relazionali, sociali e religiosi, nonostante il generoso impegno di volontari e attivisti diventa oltremodo disarmante.

Tecniche di governo. In un contesto di questo tipo, la locuzione normalmente utilizzata per descrivere una struttura adibita ad ospitare situazioni emergenziali – centro d’accoglienza – perde di qualsiasi senso,  nell’assenza complessiva di forme di coordinamento  efficaci – e di assunzione di responsabilità politiche – e di un contesto così complicato anche dal punto di vista della materialità dell’aiuto – in gran parte legato all’apporto volontariato di singoli e associazioni.

È proprio qui – intorno al ruolo allo stesso tempo informale e decisivo giocato dagli ampi settori di volontariato coinvolti, che si fanno carico di oneri complessi ed importanti – occorre urgentemente e collettivamente riflettere. Nell’introdurre il tema c’è da registrare come le cittadine e i cittadini di Taranto si siano mostrati, nel complesso, partecipi e solidali, e che senza il generoso e spontaneo aiuto dei tanti volontari intervenuti in queste settimane, la cifra complessiva della precarietà sarebbe stata decisamente più elevata.

Allo stesso tempo, la presenza numerosa e cospicua dei volontari, in particolar modo quando essa si qualifica come politicamente neutra e compatibile con le attuali dinamiche di gestione dei processi migratori, ha involontariamente favorito un processo di complessiva deresponsabilizzazione degli enti pubblici – nell’ormai consolidata tecnica dell’evocazione continua delle altrui responsabilità (che sono, a seconda del caso, dell’Unione Europea, del Governo, degli Enti Locali, degli enti non statali coinvolti, e così via) per provare a sottrarsi dalle proprie, spesso ponendo proprio l’enfasi nella presenza dei volontari come garanzia di efficienza nell’accoglienza.

A Taranto, inoltre, la natura ibrida e ambivalente dei confini europei, e il consolidato meccanismo di inclusione differenziale sembra andare in scena per inattività: la sacralità del confine, ancora parzialmente riprodotta durante gli sbarchi nel porto, si dissolve totalmente nel percorso in bus fino alle strutture adibite ad ospitare i migranti e le migranti per periodi più o meno lunghi.

Non sono prodotte efficaci forme di confinamento e di contenimento, ma allo stesso tempo – ennesima conferma di come gli aspetti militari e umanitari, nelle tecniche di governo del fenomeno, siano inscindibilmente legati – non vengono messe in scena forme adeguate di accoglienza e orientamento, in riferimento per esempio allo status giuridici e ai diritti acquisti, o da acquisire. Inattività che produce due inscindibili conseguenze: l’immediato tentativo di transito, collettivo o individuale, di un imponente numero di donne e uomini verso paesi del nord Europa – sempre nell’ottica della consolidata e informale possibilità di disobbedire agli obblighi del regolamento Dublino – che va di pari passo con l’elevatissima vulnerabilità e ricattabilità alla quale sono esposti tutte e tutti coloro che non hanno un progetto di migrazione definito e vanno potenzialmente incontro, disperdendosi anonimamente nel territorio, ad ogni forma di sfruttamento possibile.

migranti_a_taranto1Welcome. In un contesto di questo tipo – caratterizzato da una tecnica di governo per passività complessiva da parte dei soggetti che abitualmente amministrazione le migrazioni – è necessario anche interrogarsi intorno a quali forme di attivismo mettere in campo, allo stesso tempo dentro la contingenza ma contro il meccanismo che la governa. È la pratica politica proposta dalla #CampagnaWelcomeTaranto, rete informale di attiviste e attivisti che si stanno inserendo, in maniera ampia e partecipata, nel dibattito pubblico sulla tematica, ponendo fondamentali interrogativi intorno agli standard di accoglienza attuati, denunciando l’assenza di informazioni certe in tema di respingimenti e rimpatri in mare, e pretendendo chiarezza in merito alle progettualità complessive che vedono Taranto come possibile hub stabile di transito e smistamento.

È necessario, senza dubbio, produrre poderosi, collettivi e indistinti Welcome, ma è altresì fondamentale fare in modo che il grido d’accoglienza sia, allo stesso tempo, qualificato e partecipato: un’attività progressiva di allargamento degli sguardi, cogliendo le trasformazioni in corso nelle tecniche di gestione dei confini, producendo una mobilitazione che possa radicalmente ampliare la qualità dei diritti e della vita, per un’autodeterminazione libera e consapevole, che possa anche scegliere di avvalersi di un’accoglienza finalmente degna per tutt* coloro che sono costretti a fuggire o che scelgono, per le più eterogenee motivazioni, di migrare.

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