Laurent Baronian e Carlo Vercellone
L’ambizione di quest’articolo è quella di gettare le basi per una concezione della moneta del comune a partire da un’interrogazione omessa dalla teoria economica dei beni comuni. Quali sono, dunque, le condizioni capaci di attenuare il vincolo monetario al rapporto salariale e di favorire così lo sviluppo di forme di produzione alternative ai principi d’organizzazione sia del pubblico che del privato? Questa domanda richiede d’introdurre nella teoria del Comune il ruolo strutturante della moneta nei rapporti capitale-lavoro.
L’esame del rapporto tra moneta e comune necessita, di conseguenza, di partire da una critica della teoria dei beni comuni dalla quale la moneta, come il lavoro, sono curiosamente assenti. La ragione di quest’assenza si trova nel fatto che questa concezione naturalista dei beni comuni accetta implicitamente uno dei postulati fondatori della teoria economica standard, ovvero la neutralità della moneta, concepita come un semplice strumento tecnico che facilita gli scambi, e non come la cristallizzazione di un rapporto sociale di potere. Su questa base, si tratterà di caratterizzare un approccio dinamico del comune al singolare nel quale la questione della moneta e delle mutazioni della divisione del lavoro occupa un posto centrale. Questo approccio fondato sulla triade lavoro-moneta-plusvalore servirà allora egualmente da filo conduttore per rianimare la controversia che aveva opposto Marx ai proudhoniani, precursori di un approccio della moneta come comune.
Infine, fonderemo il nostro ragionamento sulle teorie marxiane del circuito per mostrare che il carattere specificamente monetario del rapporto capitale-lavoro costituisce l’unico punto di partenza adeguato per una riflessione sulla moneta del comune. Questa riflessione farà emergere perché la nozione di reddito sociale garantito corrisponde ad un’istituzione del comune volta a rendere la creazione monetaria endogena non solo al capitale ma anche alla riproduzione autonoma della forza lavoro.
1. Lavoro e moneta : per una critica della teoria economica dei beni comuni
Il capitalismo si presenta come un’economia monetaria di produzione e di sfruttamento del lavoro. Pertanto, le forme di regolazione della moneta costruite attorno al funzionamento del denaro in quanto capitale costituiscono i pilastri istituzionali dell’accumulazione e della riproduzione della scissione costitutiva della società capitalista: il rapporto capitale-lavoro.
Quindi, se non si vuole pensare il comune come una semplice enclave, ma come il fondamento di una formazione sociale alternativa al capitale, porre la questione dello statuto e del modo di regolazione della moneta diventa inevitabile. La sua importanza risulta dal doppio carattere della moneta: allo stesso tempo ricchezza astratta, oggetto di appropriazione privata e forma di socializzazione dell’attività produttiva degli individui. Sotto vari aspetti, la moneta rientra nel campo di ciò che potremmo qualificare come il Comune dei Comuni. Sono infatti le forme di governance intessute attorno alla moneta (modalità di creazione e di accesso, fondamenti del suo valore, ecc.) che condizionano in modo determinante il tipo di legame sociale, così come i meccanismi che reggono l’allocazione delle risorse, permettendo di rispondere alle domande fondamentali dell’economia politica, ovvero: chi decide che cosa bisogna produrre? In che modo? Per quali finalità sociali?
Su queste basi, il nostro approccio del comune al singolare si differenzia dunque profondamente da quello della teoria economica dei beni comuni, nel senso in cui, in quest’ultima, il comune non può essere pensato che nei termini di un’alternativa locale e marginale rispetto alle logiche dominanti dello Stato e del mercato, del pubblico e del privato.
La concezione dei beni comuni di Hess e Ostrom (Ostrom, 1990, Hess e Ostrom, 2007) rimane infatti per vari aspetti nel solco di due approcci maggiori della teoria economica standard. Da una parte, in continuità con la teoria samuelsoniana dei beni collettivi e dei fallimenti del mercato, tale concezione resta centrata sui criteri di rivalità e di escludibilità, per caratterizzare la natura dei diversi beni (Laval, 2011). La novità consiste nell’introdurre, in aggiunta ai beni pubblici (non rivali e non escludibili) e ai beni privati puri, una nuova categoria che associa rivalità e non escludibilità, come, ad esempio, i comuni fondiari. D’altra parte, nel prolungamento della teoria dei diritti di proprietà efficaci di North, questa concezione si propone di mostrare che per questi tipi di beni possono esistere forme di governance e di proprietà distinte dal pubblico e dal privato. Nonostante questo sforzo innovatore, la teoria economica dei beni comuni non si emancipa veramente da una visione secondo cui esisterebbe una sorta di demarcazione spontanea, in funzione della natura dei beni, tra le rispettive sfere del pubblico, del privato e del comune. Anche quando si afferma, con Ostrom ad esempio, che il comune è socialmente istituito da regole e forme di governance ben precise, si considera sempre che soltanto una categoria ristretta di beni (fondiari e informazionali[1]) ha veramente vocazione, date le sue qualità intrinseche, ad accedere a questo modo di governance.
La riflessione sulla natura di questi beni e risorse cancella anche, in modo significativo, ogni analisi reale sul lavoro che ne assicura la produzione o la riproduzione.
Infatti, non solo nessun bene è destinato, per le sue qualità intrinseche, a diventare oggetto di un modo di gestione in particolare, ma le teorie dei beni collettivi e comuni trascurano totalmente le forme di produzione che stanno all’origine di questi beni. Soprattutto, esse non rimettono mai in questione l’egemonia del modo di produzione “privato”, considerando di fatto il pubblico come un rimedio ai fallimenti del mercato ed il comune come un’eccezione. In questo senso, la teoria dei beni comuni si situa al confine tra pubblico e privato e non propone un paradigma alternativo ai fondamenti neoclassici della rappresentazione dell’economia.
Nel quadro della teoria dei beni collettivi, di cui la teoria dei beni comuni si rivendica come uno dei prolungamenti (Hess e Ostrom, 2007), la moneta conserva le funzioni neutre alle quali la teoria neoclassica la condanna. Il fatto è che qui la moneta non è mai colta come espressione di un rapporto sociale di produzione nel quale le attività del lavoro accedono alla loro esistenza sociale solo per mezzo dello scambio delle merci. Essa è concepita unicamente come strumento di scambio, tutt’al più come mezzo per saldare un debito (cartalismo).
Insomma, la questione della moneta e quella dello statuto della forza lavoro, in quanto merci fittizie, non sono mai affrontate. E quando in alcuni lavori, che s’ispirano parzialmente al contributo teorico di Ostrom e di Hess, viene introdotta la moneta, ciò avviene tutt’al più nei termini di una moneta complementare o alternativa a livello di una località, di una comunità, di una rete o di una categoria di beni specifici[2]. Non si propone mai alcuna riflessione sulla relazione tra la moneta e la natura dei rapporti sociali di produzione da cui dipende, tuttavia, a livello macroeconomico e sociale, la gerarchia e l’articolazione delle sfere del privato, del pubblico e del comune. Lo stesso avviene riguardo alle mutazioni del lavoro legate alla crescita della sua dimensione cognitiva e relazionale, malgrado il ruolo crescente di tali mutazioni nella produzione del comune, attraverso i beni informazionali e le produzioni dell’uomo attraverso l’uomo (Hardt e Negri, 2010).
Dobbiamo pensare il comune al singolare[3] come una costruzione sociale e una forma d’organizzazione della produzione in grado di divenire dominante. Non si deve partire dal contenuto dei beni prodotti, ma dalle forme del lavoro produttore di questi beni. Sono infatti i modi di cooperazione del lavoro collettivo che producono il comune che si tratta di liberare dalla morsa della formula generale del capitale : D e D’ non possono più formare il punto di partenza ed il punto d’arrivo della produzione del Comune. Non esiste infatti alcun bene che, in virtù di caratteristiche naturali proprie legate al suo valore d’uso, non sia destinato ipso facto, nel senso della teoria economica convenzionale, ad una soltanto delle sfere dell’economia (il pubblico, il privato o ancora, il comune) e ad una forma corrispondente di cooperazione e di appropriazione del prodotto del lavoro.
Il comune può concernere ogni tipo di bene[4], anche se ciò non significa affatto che si debbano trascurare i problemi particolari di regolazione che si dànno nella gestione di un dato bene. Tuttavia, è l’approccio stesso della teoria dei beni comuni, il quale procede dalla natura intrinseca dei beni al loro modo di gestione (pubblico, privato o comune), che deve essere invertito. Si tratta di partire dalle mutazioni del lavoro, per pervenire alle caratteristiche dei prodotti, sapendo che il loro valore d’uso ed i bisogni che debbono soddisfare non hanno niente di naturale, ma sono il risultato storico dei rapporti sociali che si intrecciano attorno alle forme d’organizzazione della produzione e del consumo. In breve, è il modo di cooperazione sociale del lavoro, la sua capacità di organizzarsi in modo alternativo rispetto alle logiche del capitale e dello Stato, che determina in ultima istanza la propensione di una serie di beni o di risorse ad essere gestita secondo i principi del comune.
Ora, come vedremo, questa capacità d’autorganizzazione del lavoro che è il presupposto del comune dipende da due fattori strettamente legati e sistematicamente evacuati dalle teorie dei beni comuni:
a) dai meccanismi di regolazione della moneta e di accesso ad un reddito in grado di rafforzare oppure di attenuare il vincolo monetario al rapporto salariale, condizionando la possibilità di sviluppare forme di cooperazione produttiva alternative al lavoro salariato.
b) dalla natura dei rapporti antagonisti di sapere e di potere che strutturano, in un dato momento, il livello di sviluppo della divisione del lavoro e le modalità della sussunzione del lavoro al capitale (formale, reale, general intellect).
2. Marx critico di Proudhon: prima polemica sulla moneta del comune
Alcuni di questi elementi metodologici che consistono nell’articolare la moneta con la divisione del lavoro si trovavano già nelle critiche che Karl Marx rivolgeva alla proposta di Proudhon di creare una moneta di credito gratuita formulata in ore di lavoro. La riforma di Proudhon aveva l’ambizione d’indebolire i rapporti di produzione dominanti, aumentando il finanziamento della produzione mercantile artigianale. L’emissione di moneta-lavoro da parte di una Banca popolare volgeva infatti nella direzione di attribuire immediatamente al lavoro del produttore individuale la sua qualità di lavoro sociale. Il fatto è che Proudhon ed i suoi discepoli deploravano il privilegio che i metalli preziosi possedevano nella circolazione delle merci. Erano convinti che i tassi d’interesse elevati, in particolare in periodo di crisi, non fossero dovuti che ad una specie di monopolio dei detentori di denaro metallico sui mezzi di pagamento della società. Permettendo al produttore di scambiare direttamente il prodotto del suo lavoro contro il suo equivalente monetario espresso in ore di lavoro, si sarebbero abolite le pretese dei detentori di moneta, fino a che il tasso d’interesse non fosse crollato fino allo zero. Non si trattava dunque solamente di realizzare l’eutanasia del rentier, come per Keynes, ma di permettere al produttore di riscuotere l’integralità del prodotto del suo lavoro sotto forma di buoni di scambio. Così, lavoro e moneta del Comune sarebbero stati una cosa sola, poiché tutti i prodotti del lavoro privato avrebbero fatto vece di moneta.
In realtà, la riforma immaginata da Proudhon poggiava su di un modo di produzione mercantile semplice, allorquando il progresso della divisione del lavoro e l’estensione del modo capitalistico di produzione tendevano a marginalizzarla (Dardot e Laval, 2012). Così, l’introduzione del credito gratuito avanzato in moneta-lavoro non avrebbe potuto concernere che una piccola frazione di popolazione attiva, che si sarebbe riprodotta ai margini dell’egemonia crescente della produzione capitalistica. La riforma lasciava completamente intatto il fondamento del potere monetario del capitale sul lavoro, ovvero la logica sistemica attraverso la quale il lavoro è obbligato a «mettere in vendita, come merce, la sua stessa forza-lavoro, che esiste soltanto nella sua corporeità vivente» (Marx, 1994, vol. I, p. 201). In questo quadro, il progetto mutualista del credito gratuito avrebbe piuttosto rischiato di spianare la strada ad operazioni di recupero e di divisione politica, come quella preconizzata da Napoleone III al momento dell’instaurazione delle casse di risparmio popolare (Lucarelli, 2013).
Per di più, secondo Marx, nella misura in cui l’emissione di una moneta-lavoro tornava a conferire a tutte le merci qualità di moneta, essa negava ben più del potere finanziario che risultava dal monopolio dei metalli preziosi e da quello del capitale sul lavoro dell’operaio: negava l’essenza stessa della moneta. Perché che cos’è la moneta, se non il rappresentante oggettivo del valore e quindi del tempo di lavoro sociale coagulato nella merce? Se gli individui scambiano i prodotti del loro lavoro contro moneta, ciò avviene proprio perché essi non producono immediatamente del lavoro sociale. Perciò, nelle condizioni della produzione mercantile, la qualità del lavoro sociale s’incarna necessariamente in una forma oggettiva di lavoro, merce o moneta.
Ora, non soltanto una moneta misurata in ore di lavoro sopprime la differenza – immanente all’economia di mercato – tra prezzo e valore, e dunque suppone un equilibrio tra offerta e domanda, tra produzione e consumo. Non soltanto, diversamente dalla moneta classica, essa ignora lo sviluppo della produttività del lavoro che farebbe sì che si apprezzasse costantemente il suo potere d’acquisto e che continuamente si appesantirebbero gli oneri finanziari dei debitori. Essa nega, più fondamentalmente, il carattere particolare dell’organizzazione del lavoro sociale nella produzione mercantile, nella quale il lavoro non si scambia mai direttamente con il lavoro, ma dove le attività produttive si combinano tra di esse indirettamente attraverso lo scambio dei prodotti del lavoro come merci, e accedono così all’esistenza del lavoro sociale (Marx, 1980). É in questo senso che Marx qualificava come utopica una riforma che tentasse d’abolire i caratteri fondamentali della produzione mercantile, mentre conservava la forma di scambio corrispondente a questo modo di produzione. Questa riforma consisteva infatti nell’evitare gli inconvenienti di un modo di produzione basato sullo scambio monetario, semplicemente modificando lo strumento di scambio e l’unità di misura delle merci. A questo punto, la riforma avrebbe toccato solo una frazione poco considerevole della produzione sociale e ne avrebbero beneficiato solo un piccolo numero di produttori indipendenti; inoltre la Banca si sarebbe interposta nei loro mutui scambi comprando e vendendo i loro prodotti contro moneta-lavoro. Oppure la riforma avrebbe riguardato la totalità degli scambi sociali, nel qual caso essa avrebbe necessitato di una trasformazione subitanea dei rapporti di produzione esistenti. «Se ogni trasformazione in tal senso della circolazione stessa presupponesse a sua volta trasformazioni delle altre condizioni di produzione e rivolgimenti sociali, crollerebbe naturalmente a priori questa dottrina, le cui artificiose proposte in materia di circolazione mirano da un lato ad evitare il carattere violento delle trasformazioni, dall’altro a fare di queste trasformazioni stesse non un presupposto, ma viceversa un risultato graduale della trasformazione della circolazione» (K. Marx, 1968, vol. I, p. 52). In realtà, una riforma monetaria di questo tipo farebbe della banca il compratore ed il venditore universali delle merci prodotte. Attraverso la sua politica d’emissione, sarebbe la banca, infatti, che deciderebbe a quali prodotti del lavoro attribuire la qualità di lavoro sociale, funzione che equivarrebbe a controllare la produzione stessa che sta all’origine di tali beni. Essa sarebbe così, come un gosplan, «il governo dispotico della produzione e l’amministratrice della distribuzione» (K. Marx, 1968, vol. I, p. 95).
Per tornare alla moneta del Comune, essa si distinguerebbe dai buoni di lavoro dei proudhoniani, circolando all’interno non di una comunità di produttori indipendenti, ma di una comunità di produttori che lavorano per cooperazione. In queste condizioni la sua emissione non potrebbe sconvolgere tanto i rapporti di produzione attuali, quanto velocizzare le mutazioni che intervengono nel quadro stesso di questi rapporti di produzione. In più, in quanto politica, cioè a dire in quanto azione cosciente e deliberata, l’emissione di una moneta del Comune significherebbe che la società tende a non sottomettersi più alla produzione sociale come fatalità estranea e indipendente dagli individui (fatalità che si manifesta con forza in particolare nelle crisi), ma al contrario tende a subordinare la produzione agli «individui e da essi controllata come loro patrimonio comune» (K. Marx, 1968, vol. I, p. 100). Tuttavia questo rovesciamento dei rapporti sconvolgerebbe la natura stessa delle istituzioni bancarie della società. In queste condizioni, infatti, la moneta del Comune non sarebbe più che una unità di conto emessa da un «ministero del bilancio della società lavoratrice collettiva» (K. Marx, 1968, vol. I, p. 95) e perderebbe la sua qualità monetaria di rappresentante universale del valore delle merci. In queste condizioni, l’auspicio di Proudhon sarebbe esaudito poiché il lavoro stesso diverrebbe moneta universale, ma a condizione che sia «fin dal principio non lavoro particolare, ma un lavoro generale», cioè a dire, che fosse posto «come un elemento della produzione generale» (K. Marx, 1968, vol. I, p. 116).
In breve, la critica marxiana al progetto proudhoniano, come lo dimostrerà anche il suo atteggiamento nei confronti della Comune di Parigi, non tiene ad un’opposizione statalista e centralizzatrice verso le forme mutualiste d’organizzazione, ma al pericolo che avrebbe costituito il loro incastro subalterno nelle logiche dominanti del capitale e dello Stato. La questione cruciale per Marx stava nella maniera in cui, a differenza di un modo di produzione mercantile semplice in cui la moneta è un puro mezzo di scambio, il capitalismo costringe il lavoro nelle istituzioni di un’economia monetaria di produzione.
La logica del funzionamento del capitalismo è, infatti, molto diversa da quella incarnata dalla formula merce-denaro-merce (M-D-M) alla quale implicitamente rinvia il progetto di Proudhon. Certo, il circuito M-D-M continua a giocare un ruolo cruciale nella riproduzione allargata delle condizioni economiche e sociali dell’accumulazione del capitale. Il suo ruolo però non ha più nulla a che vedere con la figura del produttore indipendente, ma riguarda essenzialmente il circuito della riproduzione della forza lavoro, dove per M-D-M’ bisogna intendere la sequenza forza lavoro-salario-beni di consumo. In questo quadro, la riproduzione della forza lavoro è subordinata, tanto nella sua forma economica quanto nella sua esistenza concreta, alla formula generale del capitale (D-M-D’).
Di questa controversia tra Marx e Proudhon possiamo trarre ancora oggi un insegnamento importante. Solo partendo dall’asimmetria monetaria che costituisce il rapporto salariale, asimmetria dove la legge del valore non è altro che una variabile dipendente della legge del plusvalore, sarà allora possibile concepire l’idea di una moneta del comune: una moneta che non riposa sull’utopia dell’uguaglianza dei lavori privati, ma sulla messa in causa del vincolo monetario che a livello sociale definisce, nel senso di Marx, la sussunzione formale della forza lavoro al capitale e la norma del rapporto salariale.
3. Dalla teoria del circuito alla problematica del comune
Il contributo della teoria del circuito permette di rinviare il rapporto capitale-lavoro all’asimmetria che oppone due classi sociali nelle condizioni del loro accesso alla moneta[5].
Da una parte, la classe dei capitalisti che, grazie alla proprietà dei mezzi di produzione e al controllo dei meccanismi della creazione monetaria, può accedere alla moneta indipendentemente dal suo lavoro e determinare il volume così come l’orientamento della produzione. Nel senso di Kaldor e Kalecki, questa classe guadagna ciò che spende e può controllare, di conseguenza, collettivamente, i meccanismi del suo indebitamento. Dall’altra parte, per accedere alla moneta e dunque ad un reddito, la classe dei salariati è costretta a vendere la sua forza-lavoro e a trovare un lavoro salariato presso la classe dei capitalisti. Essa dunque non spende che ciò che guadagna, e questo rapporto al reddito determina i limiti del suo accesso al credito e al consumo. Questo rapporto spiega anche il raddoppiarsi del potere del capitale sul lavoro che risulta dall’indebitamento salariale, anche nel caso di un’attenuazione speculativa delle condizioni d’accesso al credito di tipo subprime.
Notiamo che, da questo punto di vista, il principale “salto mortale” della merce è quello che deve operare la forza lavoro. Essendo costretta nel circuito del doppio mulinello la sequenza M-D (vendita della forza lavoroàsalario) da cui dipende l’accesso alla moneta della forza lavoro è, in prima istanza, una variabile che dipende dalle aspettative dei capitalisti riguardo al volume della produzione, e dunque dall’occupazione, ritenuti redditizi.
Ne risulta, da questo rapporto specifico all’economia monetaria di produzione, che la funzione di riserva di valore domina le condizioni della circolazione monetaria. Questa permette l’instaurazione della logica del plusvalore, in cui «la circolazione del denaro considerata come capitale è fine a se stessa» (K. Marx, 1994, Vol. I, 1994, p. 185). Come espresso chiaramente dalla formula generale del capitale di Marx (D-M-D’), la valorizzazione del capitale è un processo che non conosce limiti, nella misura in cui il suo obiettivo non è il valore d’uso, ma l’accumulazione della ricchezza astratta rappresentata dal denaro. La merce e la produzione non sono, per il capitale, che dei semplici mezzi per raggiungere questo scopo, vale a dire l’accumulazione della moneta per se stessa, al fine d’aumentare senza sosta il potere di comando che la moneta gli conferisce sulla società e sul lavoro permettendogli, appunto, di appropriarsi in modo diretto o indiretto del plusvalore.
Va da sé che la riproduzione allargata del capitale deve fronteggiare un insieme di vincoli mercantili che pesano sullo sviluppo della produzione sociale. A dire il vero, il capitalismo ha sempre cercato, per mezzo del suo sistema di moneta e di credito, di oltrepassare i limiti che la legge del valore impone alla produzione del plusvalore. Già la lettera di cambio, autorizzando il trasferimento della merce nelle mani del compratore prima del suo regolamento effettivo in denaro, fu la molla principale di tutte le grandi crisi che hanno scosso l’industria inglese durante la prima parte del XIX° secolo. Ma è soprattutto dalla fine del sistema del tallone oro, che l’emissione monetaria non è più condizionata dall’ammontare delle riserve metalliche disponibili nelle casseforti delle Banche centrali e sembra dipendere interamente dalla domanda di credito del capitale. Ora, la creazione monetaria sotto forma di depositi a disposizione dei capitalisti consiste di fatto a prevalidare (de Brunhoff, 1979) una produzione futura, ma a condizione della chiusura del circuito monetario, il quale suppone esso stesso che il plusvalore prodotto sia veramente stato realizzato. Senza dubbio, la moneta è stata creata ex nihilo come equivalente di merci virtuali, ma essa non prova la sua esistenza d’equivalente generale, se non per mezzo della vendita effettiva delle merci prodotte. Si tratta certamente di una moneta endogena, ma nella misura in cui la sua creazione dipende dalla realizzazione del plusvalore, la moneta bancaria è endogena al capitale. Attraverso il monopolio della creazione monetaria, il capitale, come formulato da Robinson e Eatwell, «diventa padrone di risorse grazie alle quali i capitalisti diventano i padroni del lavoro» (Robinson e Eatwell, 1976, p. 21).
Così, il potere di controllo sulla creazione monetaria è, in ultima istanza, il fattore chiave che conferisce il potere sul lavoro e struttura i rapporti sociali, e questo non solo perché esso conduce alla proprietà dei mezzi di produzione, cioè a questo «dominium sulle cose [che] è anche un imperium sugli esseri umani» (Cohen 1927, p. 12. Citato da Gagnon 2011, p. 205). Si tratta anche e soprattutto del fatto che il dominium sulla moneta condensa e sintetizza questo potere (imperium) senza dover neppure passare attraverso la mediazione formale della proprietà delle cose. E questa essenza del potere della moneta trova il suo sviluppo concreto più ricco, diventa verità pratica, come direbbe Marx, nella congiuntura storica attuale, dove il potere della finanza va di pari passo con una smaterializzazione crescente dei mezzi di produzione sempre più incarnati nel corpo vivo della forza lavoro, cosa che – attraverso un autentico ossimoro – viene chiamato il capitale immateriale o intellettuale.
Benché le teorie del circuito mettano in evidenza l’asimmetria monetaria che struttura la riproduzione del capitalismo, esse tendono a privilegiare una visione statica e oggettivista dei vincoli monetari e mercantiliche condizionano la chiusura del circuito. Da una parte, i vincoli che pesano sulla realizzazione del plusvalore per ciò che concerne l’accumulazione del capitale; dall’altra, i vincoli che pesano sulla trasformazione della forza lavoro in salario, trasformazione la cui realizzazione è una variabile dipendente delle aspettative dei capitalisti riguardo al volume dell’occupazione redditizio. Rari sono tuttavia i contributi che hanno posto l’attenzione sulla maniera in cui l’immissione monetaria che dà impulso al circuito sia, in realtà, la prevalidazione di una serie di merci che deve ancora essere prodotta e, pertanto, di un plusvalore che non è ancora stato estratto.
Ora, solo l’introduzione di questo aspetto ci può condurre ad una visione dinamica, in grado di cogliere allo stesso tempo le mutazioni storiche della divisione del lavoro e delle forme del vincolo al rapporto salariale, da cui dipende la possibilità del comune. Infatti, l’acquisto e la vendita della forza lavoro si fonda sulla messa a disposizione di una quantità di tempo in cui il lavoratore si mette formalmente a disposizione del capitalista, e non sul lavoro effettivo dei salariati. Ne deriva per il capitale un’incertezza strutturale che non riguarda solamente le condizioni dell’esecuzione del contratto di lavoro, ma fondamentalmente mette in evidenza terreno conflittuale dove le dimensioni economica e socio-politica dell’antagonismo capitale-lavoro sono indissociabili. In primo luogo, perché coloro che controllano e dettano i modi operatori possono anche determinare l’intensità e la qualità del lavoro. In secondo luogo, perché coloro che detengono i saperi produttivi possono aspirare a gestire la produzione, vale a dire ad autodeterminare l’organizzazione così come le finalità sociali del lavoro, ricostituendo la possibilità del comune come modo di produzione. Intendiamo, con ciò, un modo di cooperazione che reintroduce la democrazia in seno alla produzione, in opposizione con il principio gerarchico che caratterizza tanto l’azienda capitalista, quanto la logica burocratica del pubblico. Più precisamente, estendendo all’insieme dei beni la bella definizione che Benkler utilizza per i beni comuni informazionali, «la produzione si basa su dei beni comuni quando nessuno esercita dei diritti esclusivi per organizzare il lavoro e appropriarsi del valore creato, e quando la cooperazione si realizza attraverso dei meccanismi sociali altri rispetto ai prezzi e alle direttive del management» (Benkler, 2004, p. 1110).
L’importanza di questa dinamica conflittuale relativa al controllo delle potenze intellettuali della produzione spiega perché lo sviluppo della divisione capitalista del lavoro, in seguito alla prima rivoluzione industriale, abbia consistito nel tentativo di svuotare, il più possibile, il lavoro dalla sua dimensione cognitiva, per trasformarlo nel suo contrario: un’attività meccanica, ripetitiva, impersonale e totalmente asservita alla scienza incorporata nel capitale fisso. É così che nello sviluppo del capitalismo industriale, la sussunzione formale si combina con la la logica della sussunzione reale del lavoro al capitale: essa punta non solo a ridurre l’incertezza sull’esecuzione del contratto di lavoro, ma soprattutto a rendere inconcepibile per la forza lavoro l’idea stessa del comune nella produzione (come prodotto della cooperazione volontaria della forza lavoro), in ragione, in particolare, del carattere ormai inappropriabile, come l’aveva un tempo pensato Gorz, « della massa dei saperi, necessariamente specializzata, che combina la produzione sociale » (Gorz, 1988).
Tuttavia, questa tendenza, che ha trovato per vari aspetti il suo completamento storico nel modello della grande impresa manageriale all’epoca dell’economia mista, rimarrà sempre imperfetta. Inoltre, un nuovo tipo di sapere tenderà in modo incessante a ricostituirsi al livello più elevato dello sviluppo della divisione tecnica e sociale del lavoro. Nella congiuntura storica che ha condotto alla crisi del fordismo, questa dinamica si è espressa attraverso i conflitti che hanno condotto alla formazione di un’intellettualità diffusa e allo sviluppo dei servizi collettivi del Welfare-State (sanità, educazione, ricerca) al di là delle compatibilità della regolazione fordista (Monnier e Vercellone, 2010). Le condizioni alla base dello sviluppo di un’economia fondata sul ruolo motore e la diffusione del sapere sono così state poste, secondo una dinamica che sembra realizzare numerose tendenze contenute nell’ipotesi marxiana del general intellect[6].
Ora, l’instaurazione di un’economia fondata sulla conoscenza precede e si oppone, tanto da un punto di vista logico quanto storico, alla formazione del capitalismo cognitivo e finanziarizzato. Ques’ultimo è il risultato di un processo di ristrutturazione attraverso il quale il capitale tenta, in modo parassitario, di assorbire e di sottomettere alla sua logica le condizioni collettive della produzione dei saperi, soffocando il potenziale di emancipazione iscritto nella società del general intellect. In questo quadro, la posta in gioco centrale della valorizzazione del capitale e delle forme di proprietà si fonda sempre più sull’espropriazione (rentière) del comune e sulla trasformazione della conoscenza in una merce fittizia (Negri e Vercellone, 2008). É così che nel nuovo capitalismo la dimensione monetaria del rapporto di subordinazione del lavoro al capitale diviene tanto più vera e cruciale che la crescita in potenza della dimensione cognitiva del lavoro permette alla cooperazione produttiva di organizzarsi in modo autonomo rispetto alla direzione del capitalista. Certo, niente garantisce il passaggio dell’autonomia potenziale all’autonomia reale della forza lavoro. Tuttavia, sul piano del processo lavorativo sociale, la sussunzione del lavoro al capitale ridiventa principalmente formale. In modo significativo, essa va di pari passo con un formidabile rafforzamento del vincolo monetario al rapporto salariale, realizzato in particolare attraverso la destabilizzazione delle garanzie del Welfare ed attraverso una precarizzazione crescente delle condizioni di remunerazione e di impiego. Allo stesso tempo, tutto avviene come se al movimento di autonomizzazione della cooperazione del lavoro corrispondesse un movimento parallelo di autonomizzazione del capitale nella forma astratta, eminentemente flessibile e mobile del capitale-denaro. Il potere del capitale sulla società sembra riposare sempre più sul controllo dei meccanismi monetari e finanziari, e ciò spesso senza più esercitare alcuna funzione reale necessaria all’organizzazione del processo di produzione.
É a questo livello di sviluppo della divisione del lavoro, nel quale l’emergere di un’intelligenza collettiva va di pari passo con il rafforzamento del vincolo monetario al rapporto salariale, che si pongono oggi le condizioni per pensare il comune.
4. Il reddito sociale garantito come reddito primario e istituzione del comune
Dall’analisi delle asimmetrie che strutturano il capitalismo come economia monetaria della produzione, ci è possibile delineare la posta in gioco principale di ciò che dovrebbe essere una moneta del comune: una moneta endogena alla riproduzione della forza lavoro perché attenuerebbe il vincolo monetario al rapporto salariale, assicurando allo stesso tempo la validazione sociale delle ricchezze prodotte da forme di produzione e di soddisfacimento dei bisogni alternativi ai rapporti mercantili.
Notiamo che, prima della svolta monetarista e dell’instaurazione delle autonomie delle banche centrali, la regolazione amministrata keynesiana dell’offerta di moneta aveva permesso, sotto forma di un compromesso istituzionalizzato, lo sbocciare di alcune di queste dimensioni. In particolare, il legame tra Banca Centrale e Tesoro pubblico aveva autorizzato una monetizzazione dei conflitti sociali, favorito il finanziamento del salario socializzato e dei servizi collettivi del Welfare (Chesnais, 2011, p.31)[7].
Si tratta senza dubbio di una delle ragioni che spiega perché la resistenza allo smantellamento del pubblico sia tanto il terreno di nostalgie stataliste quanto uno dei terreni fondamentali di elaborazione della problematica del comune (Negri, 2012).
In questo quadro, la proposta di un reddito sociale garantito incondizionato ed indipendente dal lavoro salariato è quella che ci sembra maggiormente incarnare una nuova tappa di socializzazione dell’economia. Essa s’iscrive in un progetto di società e di demercantilizzazione dell’economia in cui il rafforzamento dei diritti collettivi legati al sistema di protezione sociale (pensioni, sanità, sussidio disoccupazione, ecc.) andrebbe di pari passo con il passaggio da un modello di Welfare-State ad un modello di commonfare. In effetti, analogamente alla tematica del comune, la riflessione attorno alla proposta di un reddito sociale garantito (RSG)[8] attraversa sempre più il dibattito sulle alternative alla crisi del capitalismo cognitivo e finanziarizzato. Tuttavia, la maggior parte delle formulazioni del RSG restano ancorate ad una concezione che ne fa un reddito secondario relativo alla redistribuzione ed alla gestione statuale classica dello Stato-provvidenza[9].
Nel nostro approccio, il RSG deve, al contrario, allo stesso tempo essere pensato come una istituzione del comune ed un reddito primario per gli individui, vale a dire un reddito che risulta direttamente dalla produzione e non dalla redistribuzione. Queste due dimensioni, reddito primario e istituzione del comune, sono peraltro strettamente intrecciate tanto sul piano dell’organizzazione della produzione, quanto su quello dello statuto della moneta e del modo di distribuzione. Un reddito primario dunque, perché la proposta del RSG riposa su di un riesame ed un’estensione del concetto di lavoro produttivo che si tratta di prendere in considerazione alla luce di due dimensioni[10].
La prima concepisce il lavoro produttivo, secondo la tradizione dominante nell’economia politica, come il lavoro che produce del valore e del plusvalore. Si tratta qui della constatazione secondo cui assistiamo, oggi, ad un’estensione importante dei tempi di lavoro, al di fuori della giornata ufficiale di lavoro, che sono direttamente o indirettamente implicati nella formazione del valore captato dalle imprese. A questo proposito, il RSG corrisponderebbe, in parte, alla remunerazione sociale di questa dimensione sempre più collettiva di un’attività creatrice di valore, che si estende sull’insieme dei tempi sociali, dando luogo ad un’enorme massa di lavoro non riconosciuta e non retribuita. E’, peraltro, importante notare come questo aumento del lavoro non pagato si apparenti, in forme inedite, con un aumento del plusvalore assoluto che risulta dalla combinazione di due tendenze maggiori. Da una parte, proviene dalla maniera stessa in cui la pressione congiunta della precarietà e delle nuove forme di management della soggettività enfatizza, a vantaggio delle imprese, un tratto intrinseco del lavoro cognitivo: quello di essere un’attività di produzione, di riflessione e di scambio di saperi che si svolge tanto fuori quanto durante l’orario contrattuale di lavoro. D’altra parte, proviene anche dal ruolo crescente del lavoro del consumatore e specialmente dall’appropriazione privata del lavoro gratuito effettuato da una moltitudine d’individui sulle reti del Web. Il capitale, attraverso soprattutto un piccolo numero di grandi imprese americane, è in realtà arrivato a controllare una gran parte dell’infrastruttura materiale ed immateriale di internet (Baronian, 2011), espropriando questo spazio del comune e trasformando in merci le creazioni e le identità numeriche degli utilizzatori.
Contro la tradizione della teoria economica, per contro, la seconda dimensione rinvia al lavoro produttivo concepito come lavoro produttore di valori d’uso, fonte di una ricchezza che sfugge alla logica mercantile e a quella del lavoro salariato subordinato. In questa prospettiva, il RSG corrisponderebbe simultaneamente alla validazione sociale e ad un mezzo di finanziamento di questa rete densa di attività non mercantili che la società del General Intellect crea, al di là del salariato. Si tratta, insomma, di rompere con l’identificazione storica abusiva che il capitalismo ha stabilito tra lavoro e lavoro-salariato e, con essa, tra lavoro salariato e diritto al reddito. Detto altrimenti, si tratta di affermare che il lavoro può essere improduttivo di capitale, ma ciononostante produttivo di ricchezze non mercantili e perciò, trovare la sua contropartita in un reddito. Questo è peraltro il caso, da un punto di vista strettamente teorico, per le attività realizzate in seno ai servizi pubblici che producono ricchezza e non valore. Il carattere incondizionato del RSG si distingue, tuttavia, in modo radicale, dal salario versato agli impiegati di questi servizi, perché non si fonda né su di un lavoro dipendente, né tantomeno implica da parte dei beneficiari una qualunque dimostrazione di utilità sociale della loro attività. Anche in questo senso, il RSG non attiene alla sfera pubblica, quella della «burocrazia professionale» e del coordinamento amministrativo, ma al comune. Esso presuppone un’attività creatrice di ricchezze ed una cooperazione produttiva che si sviluppa a monte ed in modo autonomo rispetto alle logiche amministrative e del privato, anche quando le attraversa e contribuisce alla loro riproduzione.
Esiste, infatti, un rapporto complesso, fatto allo stesso di tempo di antagonismo e di complementarietà, tra queste due forme di lavoro produttivo. Nel capitalismo cognitivo, l’espansione del lavoro libero che produce il comune, va infatti spesso di pari passo con la sua subordinazione al lavoro sociale produttore di valore, in ragione stessa delle tendenze che spingono verso uno sfumarsi della separazione tra lavoro e non lavoro, sfera della produzione e sfera della riproduzione.
L’instaurazione di un RSG, non solo riconoscerebbe questa seconda dimensione del lavoro produttivo, ma soprattutto favorirebbe la sua emancipazione dalla sfera della produzione del valore e del plusvalore. In quest’ottica, l’attenuamento del vincolo al rapporto salariale consentito dal RSG, più ancora che una riduzione del tempo legale di lavoro, permetterebbe agli individui di ritrovare il controllo del loro tempo e la gestione delle attività che non hanno altra finalità che in se stesse. Costituirebbe così un vero investimento sociale e una liberazione di energie creative per assicurare, per esempio, la riproduzione dei comuni informazionali e della conoscenza, di cui lo sviluppo è stato sensibilmente ostacolato dalla mancanza di tempo di cui sono affetti i lavoratori cognitivi (Aigrain, 2008).
Il RSG si presenta così su più punti come un’istituzione del comune al servizio del comune. Prima di tutto, perché il RSG non attiene alla sfera pubblica ma corrisponde « in fin dei conti, alla messa in comune di una parte di ciò che è prodotto in comune, deliberatamente o no » (Gorz, 2003, p.101) e ciò, al di fuori di ogni logica contributiva che cercherebbe un rapporto di misura e proporzionalità tra sforzo individuale e diritto al reddito. In questa prospettiva, seguendo la tradizione mutualista all’origine del sistema di protezione sociale in Francia, le risorse raccolte per finanziare il RSG potrebbero essere messe in una cassa comune gestita direttamente dai lavoratori.
In secondo luogo, il RSG, in quanto reddito primario, presuppone e rilancia lo sviluppo del comune stesso. Lo rilancia nella misura in cui favorirebbe l’esodo dal lavoro salariato e lo sviluppo di forme di cooperazione fondate su regole di coordinazione distinte da quelle del pubblico e del mercato. Lo presuppone nella misura in cui la sua instaurazione implica dei meccanismi di risocializzazione della moneta e dei redditi che rendono la riproduzione della forza lavoro indipendente dalla circolazione del denaro in quanto capitale[11].
Conclusione
In quanto prodotto dello scambio delle merci, la moneta è l’espressione di un rapporto sociale tra produttori privati indipendenti, individui, comunità e imprese capitaliste. Qualsiasi sia dunque la forma e le condizioni di circolazione della moneta, la sua presenza significa che l’attività dei produttori acquisisce il suo carattere di lavoro sociale in modo indiretto, per mezzo dello scambio dei prodotti del lavoro come merci. É possibile che una forma monetaria attenui alcuni dei vincoli posti dalla produzione capitalista, ma le contraddizioni che la moneta del comune vuole superare sono destinate a rinascere in un modo o nell’altro, e ciò fintanto che le trasformazioni del modo di produzione attuale saranno limitate alla sfera della circolazione. Tali trasformazioni, tuttavia, potrebbero accelerare ed orientare le mutazioni in corso del lavoro sociale, favorendo l’attenuamento del vincolo al rapporto salariale ed un’articolazione altra tra comune, pubblico e privato. In questo senso, in due modi almeno, la proposta del RSG si smarca dall’ipotesi proudhoniana del credito gratuito.
In primo luogo, il RSG va al di là della semplice prospettiva di una democratizzazione del credito, per pensare la moneta del comune come uno strumento che può attenuare, per l’insieme della forza lavoro, il vincolo al rapporto salariale. Esso non si attacca, infatti, al salto mortale della merce, ma a quello della forza lavoro, per rompere il circolo vizioso che fa della sua vendita la condizione di accesso al reddito. Certo, attenuando il vincolo al rapporto salariale, il RSG può anche giocare il ruolo di una sorta di forma di credito gratuito che permetterebbe di democratizzare l’economia di mercato, offrendo più autonomia alla produzione mercantile semplice rispetto al capitale. Ma è soltanto in un modo accessorio che la garanzia di un reddito sufficiente può ugualmente favorire l’accesso allo statuto di produttore privato indipendente. Il suo primo ruolo è quello di sostenere, non il produttore individuale e la sua merce, ma l’intellettualità diffusa nella sua attività collettiva di produzione non mercantile.
In secondo luogo, il credito, anche quando è attribuito gratuitamente, implica una doppia condizionalità, portatrice di un rapporto di dipendenza: quella legata all’esame stesso della viabilità mercantile del progetto produttivo che è l’oggetto di una domanda di credito, e quella legata all’estinzione successiva del debito prodotto dalla creazione iniziale di moneta. Il RSG rompe questa logica di dipendenza legata al credito e al debito, perché il suo carattere incondizionato è anche il mezzo per assicurare l’autonomia delle attività che partecipano alla costruzione sociale del comune.
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[1] Per una presentazione molto chiarificante dei lavori di Ostrom e di Hess sui comuni fondiari ed informazionali, cf. anche Coriat (2011).
[2] Su questa base, la moneta viene considerata come un bene rivale, ma non escludibile, al quale possono essere applicati gli otto principi di governance definiti da Ostrom per i comuni fondiari (Cornu, 2012)
[3] Con questa espressione facciamo riferimento in particolare alla problematica elaborata nel quadro del seminario « Du public au commun » http://dupublicaucommun.com/presentation-du-projet/.
[4] Il contrario è altrettanto vero, cioè che nessun valore d’uso sfugge in quanto tale alla sfera della produzione mercantile e del profitto, come mostrato dalla presa crescente che il capitale esercita su tutta una serie di beni pubblici, come per esempio la conoscenza. Su questo aspetto, cf. anche il contributo di Harribey (2011).
[5] La teoria del circuito è un prolungamento dell’approccio in termini di economia monetaria della produzione. La sua genesi risale a Karl Marx e fa della moneta il primum movens della produzione capitalista delle merci. Sviluppando questa concezione, lo stesso Keynes, nei suoi scritti preparatori alla Teoria Generale, farà esplicitamente riferimento alla distinzione marxiana tra la logica di un’economia mercantile semplice fondata sul circuito M-D-M e la logica di un’economia capitalista fondata, questa, sulla formula generale del capitale D-M-D’. Così, come ricordato da Devillers (1985), in uno dei rari passaggi dove cita Marx, Keynes afferma che in una « Economia Monetaria della produzione », il punto di vista delle imprese è espresso dal circuito D-M-D’ (denaro-merce-denaro). Il circuito si apre con un’immissione di moneta da parte delle imprese per distribuire i salari o comprare materie prime, allo scopo di realizzare un profitto monetario, grazie alla vendita delle merci. Esso si chiude quando la moneta fa ritorno alle imprese, sia attraverso l’impiego del reddito per l’acquisto di beni di consumo, sia in contropartita dell’investimento. Questa visione, che costituisce anche il fondamento del principio della domanda effettiva, sarà oggetto di un importante tentativo di sistematizzazione e di formalizzazione teorica a partire dagli anni Settanta, con la formazione della teoria del circuito, mettendo in particolare l’accento sul ruolo motore della moneta di credito. Si sviluppa grazie all’impulso di due correnti principali : la prima, d’ispirazione perlopiù keynesiana e post-keynesiana (Schmitt, Parguez, Poulon, Lavoie) ; la seconda, dal fermo riferimento marxista (Graziani, Messori, Bellofiore). Per una messa in prospettiva storica e teorica di quest’ultima corrente, cf. Graziani (1994) e Realfonso (2006).
[6] Per una caratterizzazione approfondita del senso di questa categoria nel pensiero di K.Marx, cf Negri (1996), Baronian (2011) Vercellone (2007).
[7] Su questo punto, cf. anche le analisi anticipatrici di una problematica della moneta del comune sviluppate all’inizio degli anni Settanta da Christian Marazzi e Lapo Berti, nella rivista operaista « Primo Maggio » (Lucarelli, 2013).
[8] Declinata con diverse espressioni: reddito di base, allocazione universale, reddito di esistenza, reddito di cittadinanza, dividendo universale, ecc.
[9] Per uno sguardo sulla letteratura a questo proposito, cf. Vanderborght e Van Parijs (2005), Monnier et Vercellone (2007), Vercellone (2003)
[10] Cf. su questo punto Monnier e Vercellone (2007).
[11] Per una rassegna del dibattito sulle riforme suscettibili di condurre ad una risocializzazione della moneta, cf. Chesnais (2011), Lordon (2009), Vercellone (2013).
Traduzione di Francesca Martinez Tagliavia. Si tratta di una versione leggermente modificata di un articolo che sarà pubblicato sulla rivista “Terrains/Théories” nell’autunno 2013.