Di GURVAN KRISTANADJAJA
C’è un momento in cui i monopattini elettrici iniziano a suonare sui marciapiedi di Parigi. Una volta che la gomma delle ruote si è consumata tutto il giorno sull’asfalto e la batteria è scarica, verso le 22 di sera, le start-up che li gestiscono li “rilasciano”, come si dice poeticamente nel settore. Permettendo così a coloro che li ricaricano di imbarcarsi nella loro caccia e attivare, tramite l’applicazione, l’emissione di un rumore stridente che serve a localizzare meglio le due ruote. Una sorta di mappa digitale del tesoro. Solo che i partecipanti sono dei lavoratori precari.
Quando Lime e Bird, le due principali aziende di questa attività in piena espansione, sono arrivate a Parigi nell’estate del 2018, si sono trovate di fronte a un problema semplice: dato che i monopattini non si ricaricano grazie allo Spirito Santo, ci vuole qualcuno per far funzionare la macchina. Non dei dipendenti: questo mercato nascente ha ancora bisogno di flessibilità, sostengono le aziende. Auto-imprenditori, questo status francese già utilizzato da Uber, Deliveroo e altre piattaforme, facendo ricorso alle stesse espressioni. “Stabilite il vostro orario di lavoro, lavorate quanto volete“, si legge sul sito di Lime. Oggi, undici operatori di monopattini si spartiscono il mercato. Per permettere ai clienti di correre durante il giorno, il lavoro viene fatto di notte e chi lo fa ha un nome: sono dei “juicers“. L’etimologia viene da “give juice”, dare dell’energia in inglese.
Marc (1) è nuovo nel settore. Nel soggiorno del suo bilocale nel 20° arrondissement di Parigi, sei monopattini si caricano tra il divano e la TV. Considerando le dimensioni dell’abitazione, sembrano enormi. Al centro della cucina ce ne sono collegati altri tre. Durante il giorno, Marc lavora nella ristorazione in un hotel di lusso. Aveva già lo status di auto-imprenditore per fare degli extra. Tre settimane fa, dopo aver chiesto in giro, è giunto ad una semplice conclusione: ricaricare i monopattini è più redditizio degli straordinari nel suo campo. Circa 5 euro a dispositivo, cioè dai 15 ai 25 euro all’ora, rispetto ai 10 euro nella ristorazione.
Da allora, ogni sera dopo la sua giornata di lavoro, cammina per le strade del quartiere in cerca di monopattini da portare a casa. “Mi permette di pagare alcune spese, mettere da parte un po’ e di permettermi qualche lusso”, dice il 28enne. A volte guida qualche ora per Parigi la sua Clio per poter raccoglierne di più in una volta. Quando ne ha presi abbastanza, Marc sale i due piani che portano al suo appartamento, le braccia cariche di dispositivi che pesano circa quindici chili l’uno. “Bisogna sapere come adattarsi quando si ricaricano dei monopattini in casa“, scherza questo neo-“juicer”.
Un lavoro a tempo pieno o un modo per arrotondare
Nel sud di Parigi, Corentin (1), un altro ragazzo intraprendente di 23 anni, si è costruito un piccolo carrello attaccato alla sua bicicletta per raccogliere più monopattini contemporaneamente. Lo studente di marketing è diventato un “juicer” all’inizio dell’anno. Lo trova utile quando riesce a ricaricare una decina di macchine da mezzanotte alle 3 del mattino per cento euro a settimana. Per pagare per il suo quinto anno di studi non sapeva se lavorare con un tempo determinato o diventare un fattorino Deliveroo. Alla fine ha scelto i monopattini.
Per le start-up responsabili dei dispositivi, Marc e Corentin sono lavoratori modello, delle garanzie. Solo loro legittimano il principio secondo il quale le prime non fanno ricorso al lavoro salariato per questo nuovo lavoretto. Perché entrambi lodano la flessibilità che il lavoro offre e che completa un’altra attività. Ma in un paese dove la disoccupazione è dell’8,8% e la precarietà è in aumento, soprattutto nelle periferie, Marc e Corentin sono ben lontani dall’essere la norma: molti lavoratori precari attratti da un mercato in espansione sono arrivati in tempi record negli ultimi mesi. Per loro, essere “juicers” è un lavoro a tempo pieno, senza il quale si rivolgerebbero a Pôle Emploi.
Quando Karim (1), 21 anni, si interessa ai monopattini la scorsa estate, aveva già percorso Parigi come corriere Deliveroo, Uber Eats e Stuart. In quel periodo aveva sempre meno pasti da consegnare perché il settore era “sommerso“, spiega. Per poter vivere e pagare le sue spese, soprattutto abitative, si ripiega sui monopattini. In agosto, Bird e Lime offrono stipendi molto interessanti per reclutare i “juicers”: quasi 20 euro a dispositivo. In sei mesi, la tariffa si è ridotta a un quarto di quella iniziale e se Karim vuole guadagnarci da vivere ora deve raccoglierne più di cinquanta a notte. “Ce ne serve una quantità enorme, quindi un grosso camion, un posto per caricarli, a volte persone che lavorano in nero per aiutarci a trasportarli….” spiega Karim.
È come funziona la nuova economia: per soddisfare l’esigenza di flessibilità e produttività delle nuove imprese, i lavoratori sono costretti a improvvisare, a volte anche illegalmente. Con suo fratello, Karim ha riparato un furgone di sua proprietà ed entrambi affittano uno spazio nella vicina Val d’Oise per immagazzinare i dispositivi in carica. Ogni sera, i due auto-imprenditori lavorano sia per Lime che per Bird, a volte reclutando conoscenti quando la velocità è troppo difficile da sostenere. A questo ritmo, la giornata inizia alle 19:00 e termina la mattina seguente alle 8:00 quando hanno restituito l’ultimo monopattino alla strada. Nel frattempo, hanno dovuto aspettare che si caricassero, riposando tra mezzanotte e le 5 del mattino.
Problemi amministrativi e ritmi infernali
Per Quentin, 26 anni, che ha lasciato perdere i monopattini dopo sei mesi, questo ritmo quotidiano “ti fa diventare pazzo“. Come alcuni dei suoi amici, era disoccupato da qualche mese quando ha deciso di convertire l’attività di un SAS (ndt: Société par Actions Simplifiée) già esistente nel settore dei monopattini self-service. Con i suoi risparmi, compra due camion e ne noleggia altri due. “L’idea era che tutti noi potessimo lavorare”, spiega oggi. Dopo qualche settimana, la sua attività sta andando bene, il gruppo di amici ottiene anche una promozione da Bird: si occupano di recuperare i monopattini rotti o rubati durante il giorno oltre a ricaricarli di notte. Ma arrivato l’inverno, il giovane imprenditore si trova di fronte ad un problema che non si aspettava: “Il mio commercialista mi ha chiamato per dirmi che l’azienda [Bird, ndr] non aveva emesso alcuna fattura e che quindi non potevo dichiarare nulla. Se volevo continuare, mi ha consigliato di farlo senza dichiararlo. Era il colmo, volevo pagare le tasse in Francia, ma non potevo. impossibile anche recuperare il contratto che avevo firmato.” Dopo questa disavventura nella new economy, Quentin è tornato in disoccupazione.
Di notte, questi due mondi dei monopattini si incontrano: i “juicers” che lavorano per delle entrate extra come Marc e Corentin, e quelli che ne vivono a tempo pieno come Karim e Quentin. Discutono, si scambiano consigli validi e anche litigano. I fissi incolpano i meno regolari di rubare loro il pane quotidiano per degli extra. Gli irregolari rispondono che presto ci saranno solo delle briciole. Il lavoro dei “juicers” è davvero spietato: è per chi trova per primo il monopattino, non importa che si abbia dell’esperienza o meno. “Abbiamo già litigato diverse volte, perché alcuni di noi sono nervosi. Per loro, questi redditi permettono loro di mantenere una famiglia: uno monopattino per cinque o dieci euro non è poco”, spiega Quentin. I più produttivi hanno poi le loro aree preferite, che considerano più o meno riservate, e difficilmente tollerano che vi entrino altri. “Un posto che funziona bene è verso la Torre Eiffel e il Trocadero. Lì ne puoi prendere sei o sette in un colpo, si va più veloce”, dicono un padre e suo figlio che lavorano come “juicers” nel Beaubourg.
“Disastro ecologico”
In assenza di uno statuto e di un quadro legislativo che regoli l’attività, sui monopattini elettrici regna l’anarchia. Sui social network, alcune affittano dei box o delle stanze sul retro di negozi a Parigi per ricaricare illegalmente gli scooter, tra i 150 e i 300 euro al mese. Marc, il “juicer” che lavora quando vuole, sta pensando di affittare una stanza per smettere di occupare il suo salotto. “Alcuni hanno dei parcheggi coperti con una presa di corrente all’interno, lo affittano per 300 euro“, afferma. È però difficile calcolare la bolletta elettrica: Quentin prevede circa 300 euro per un’attività regolare mentre altri parlano di cento euro al mese.
Quando un nuovo “juicer” si lancia, le start-up inviano solo un piccolo numero di carica batterie, circa cinque secondo i lavoratori intervistati da Libération, il che limita il guadagno potenziale. Per poter ottimizzare il sistema e accaparrarsi il maggior numero possibile di dispositivi, si è quindi anche sviluppato un traffico non ufficiale di carica batterie sui social network. I vecchi “juicers” vendono decine di cavi a quelli nuovi, a quasi 10 euro ciascuno. Con il risultato che alcuni auto-imprenditori si ritrovano ogni sera con un centinaio di monopattini nel bagagliaio.
La lista dei punti negativi si allunga, ma Quentin, l’ex imprenditore delle due ruote, si dispiace soprattutto che questo lavoro sia un “disastro ecologico”. “Vi immaginate ogni sera più di 200 camion che girano tra le 18:00 e le 3:00, il più delle volte a diesel? Fanno solo brevi viaggi, accelerano, frenano, spengono il motore, riaccendono…” si lamenta. Su Twitter, si vedono anche monopattini in carica per la strada, sotto i ponti o in aree urbane, collegati… a dei generatori a benzina.
Più di 15.000 scooter sono self-service nelle strade di Parigi. Il loro numero è destinato ad aumentare ulteriormente con l’arrivo su questo mercato di Uber e di nuovi marchi internazionali come Voi. Il Comune di Parigi, che prevede 40.000 scooter per la fine del 2019, ha appena reagito, vietandone l’uso sui marciapiedi pena una multa di 135 euro. Lunedì riunirà gli undici operatori per far firmare loro un accordo di buona condotta. Da parte sua, il governo prevede di fare lo stesso grazie alla prossima legge sulla mobilità. Tutti i “juicers” intervistati non hanno dubbi sul loro futuro. “Non siamo ingenui, è un lavoro di merda”, si lascia andare un operaio prima di sbattere la porta del suo camion. “La maggior parte di noi tornerà da dove è venuta.”
(1) I nomi degli intervistati sono stati modificati.
(traduzione di Clara Mogno)
Questo articolo è stato pubblicato su Libération il 10 maggio 2019.