Di GIANNI CAVALLINI.
(Medico esperto nella gestione dei richiedenti asilo)

Fu pubblicato per la prima volta in Italia nel 1969; è un’opera che critica le condizioni in cui si trovavano gli ospedali psichiatrici italiani dell’epoca, pubblicato da Franco Basaglia e Franca Ongaro Basaglia con fotografie in bianco e nero di Carla Cerati e Gianni Borengo Gardin. Il libro contiene un’introduzione di Basaglia e testi di Goffman, Foucault, Fanon e altri. Fu uno strumento efficace con cui i Basaglia condussero la loro battaglia contro l’ipocrisia delle istituzioni, fu il manifesto del rifiuto della psichiatria istituzionale.

Oggi il mondo non è più quello, si dice.

Il 27 giugno di quest’anno in Veneto sono morte 4 persone, ufficialmente a causa del caldo eccessivo. In provincia di Rovigo una badante romena, non si sa se in regola o meno, proprio nel giorno del suo compleanno; in provincia di Treviso un senza tetto, ex camionista di 57 anni, che aveva perso il lavoro ed era assistito dalla Caritas: è stato trovato morto chiuso nella sua macchina; sempre in provincia di Treviso un muratore rumeno di 44 anni è morto improvvisamente mentre lavorava in un cantiere; sempre durante il lavoro in un cantiere è morto in provincia di Verona un operaio edile di 24 anni di origine kosovara.

Le nostre città, paesi, campagne sono abitate da tante donne e tanti uomini che, provenienti da altri Paesi e continenti, si offrono per lavori a bassi salari e in condizioni di precarietà, instabilità, insicurezza, spesso in nero e, quindi, privi di assistenza sanitaria. In Italia, che da 40 anni offre ai propri cittadini un servizio sanitario pubblico, l’accesso alle cure è tuttora negato a quanti – provenienti da altri Paesi – non dimostrano un regolare contratto di lavoro.

Come a fine anni 60 del secolo scorso il movimento antipsichiatria istituzionale dimostrò la natura di classe dei trattamenti negli istituti manicomiali, altrettanto oggi dobbiamo chiederci: è stato proprio il caldo la causa di queste morti nel Veneto oppure i fattori determinanti sono i ritmi e gli ambienti di lavoro, le condizioni di vita, la carenza di tutele e supporti (troppo spesso delegati alle associazioni di volontariato)? Tutto ciò ha forse a che fare con le politiche dell’immigrazione condotte dai diversi Governi che si sono succeduti negli ultimi anni?

Una forza-lavoro forgiata dall’esperienza dell’attraversamento del Mediterraneo con tutto il suo carico di morte, formata alla disciplina violenta dei centri di detenzione libici, in fuga da fame, discriminazioni e violenze, alla ricerca di un progetto di vita degna; una forza-lavoro forgiata dall’esperienza dell’attraversamento dei Balcani, dell’Oriente con tutto il suo carico di violenza subita, di attese infinite nei luoghi ai margini dei confini blindati degli Stati europei, completamente privati dei più elementari diritti, solo parzialmente assicurati dagli interventi di ong e associazioni di volontariato.

Attraversate queste esperienze, questa forza-lavoro arriva in Europa disponibile al lavoro a qualsiasi condizione: ancora una volta – come nei manicomi antecedenti alla Riforma Basaglia – l’ipocrisia delle istituzioni, in primis sanitaria, maschera le reali condizioni di vita delle persone.

Quel carico di violenza, che le condizioni di lavoro spesso anche  in Italia  realizzano, perpetua le violenze subite dai migranti fin dalla partenza dai loro Paesi di origine e rappresenta la causa determinante delle malattie e delle morti dei migranti in Europa. Il migrante non è il contagiante (lo sappiano Salvini e Fedriga, in particolare quest’ultimo che da Governatore della Regione Friuli Venezia Giulia vuole che i migranti siano visitati al momento in cui sono rintracciati per proteggere i poliziotti dai contagi e dalla trasmissione di malattie, come nella Milano del ‘600); il migrante non trasmette alcuna malattia alle popolazioni europee (tutta la letteratura medica internazionale lo conferma); il migrante si ammala per le condizioni in cui vive e lavora in Italia e in Europa, pur assicurando , se in regola, il versamento contributivo che sostiene il pagamento delle pensioni ai lavoratori europei e, comunque, anche quando lavora nella economia del sommerso e del nero, garantisce il fatturato e il profitto al nostro mondo imprenditoriale. Il migrante sostanzialmente oggi rappresenta una figura centrale nella dinamica della produzione di ricchezza; non è un’eccezione marginale; le loro condizioni di vita e di lavoro rappresentano il grado di in-civiltà dell’Europa.

La tutela della salute di tutte/i si fonda su punto irrinunciabile: qualsiasi persona presente nel territorio deve poter accedere ai servizi sanitari primari e specialistici; ciò, oltre che per un diritto fondamentale ed inalienabile sancito da diverse fonti normative nazionali e internazionali, per un motivo estremamente concreto, vale a dire che in tal modo si assicura l’intera comunità dal rischio di patologie.  La natura umana non può essere confinata, non può essere divisa da barriere costruite ad hoc dagli Stati; la concreta esperienza di donne e uomini sta a dimostrare questo principio di sanità pubblica: la salute di ognuno è pre-requisito per la salute di tutti.

Per questo è necessario attivare nei territori presidi sanitari di prossimità, di bassa soglia, con l’intento di intercettare ogni persona – indigente, fragile, marginalizzata, migrante… – che abbia un bisogno sanitario. Va contrastata la pratica per la quale stiamo costruendo un’offerta sanitaria anche in Italia di 3 categorie: la prima – in un mix pubblico/privato – offerta a chi possiede adeguate risorse economiche (si pensi a tal proposito all’espandersi delle polizze integrative, anche comprese nel recente rinnovo contrattuale dei metalmeccanici), per cui nel pubblico si trova risposta per le patologie acute e/o interventi complessi e nel privato a pagamento gli accertamenti strumentali, così by-passando il tema delle liste d’attesa; la seconda – tutta pubblica – per chi, cittadino italiano, non ha sufficienti risorse per accedere alla prima opzione; la terza per quanti (anche italiani che non potendo accedere al privato, rinunciano alle cure per tempi d’attesa troppo lunghi) non hanno diritto  al servizio sanitario.

La propaganda che vuole imporre muri ai confini e porti chiusi rinforza essenzialmente la strategia che vuole mettere a disposizione del sistema nazionale di imprese una forza lavoro a basso costo e ricattabile con il conseguente carico di sofferenze e malattie, che pregiudicano anche la tutela della salute collettiva delle nostre comunità.

 

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