intervista di BEPPE CACCIA a NAOMI KLEIN. «Cerco di capire come si sia finiti in questa surreale congiuntura politica, come essa potrebbe addirittura peggiorare, e come invece potremmo conquistare un futuro radicalmente migliore». L’edizione italiana del quarto libro di Naomi Klein, tradotto da Giancarlo Carlotti per Feltrinelli col titolo Shock Politics. L’incubo Trump e il futuro della democrazia (pp. 288, euro 18), sarà nelle librerie da giovedì. Si presenta come un testo assai differente dalle opere precedenti. Non è il frutto di lunghi anni di ricerche, con un lavoro capace di combinare giornalismo d’inchiesta ed elaborazione di concetti nuovi in ampi affreschi narrativi. Muove invece dall’urgenza di intervenire nella situazione americana e globale, a un anno dall’elezione di Donald J. Trump alla presidenza degli Stati Uniti.
Lei scrive innanzitutto per un pubblico nordamericano, ma il testo ha il merito di collocare lo stesso fenomeno del «trumpismo» in un più ampio contesto globale. In che rapporto sta con la crescita in tutto il mondo delle nuove destre?
Trump è solo il ceppo di un’epidemia globale. Certo, ogni singolo progetto politico è legato al suo specifico contesto nazionale. Trump emerge dall’irrisolta «questione razziale» della storia americana, il rifiuto di fare i conti con il passato schiavistico e con il peso della discriminazione nel presente. E dal rigetto dell’esperienza del primo presidente afro-americano. Ma dobbiamo rifiutare l’idea di un «eccezionalismo americano» in questo. Ci sono molti Trump in giro per il mondo, ciascuno portatore di una sua specificità regionale. Marine Le Pen in Francia o Modi in India. Il modo in cui queste nuove destre nazionaliste si presentano ha a che fare con la diffusa sensazione di una «perdita di controllo» sulle proprie vite. Pensiamo allo slogan che ha caratterizzato la campagna per la Brexit. E alla realtà della crescente precarizzazione di ogni ambito della vita. In un periodo storico caratterizzato da una ricchezza senza precedenti, cresce il numero delle persone economicamente escluse. Quello che accomuna le personalità della destra in tutto il mondo è la capacità di miscelare, distorcendola, la legittimità di questo sentimento d’insicurezza con l’illegittimità di una proposta, che è una ribellione delle oligarchie indirizzata contro l’affermazione di ogni principio di eguaglianza. L’eguaglianza razziale, l’eguaglianza di genere, l’eguaglianza sociale sono i veri nemici della crescita globale di queste spaventose destre.
Il suo libro cerca di combinare due diverse temporalità, quella ripresa da «Shock Doctrine», là dove si illustrava l’uso dell’economia del disastro per veicolare il paradigma neoliberale, e quella di più lungo respiro, per cui spiega come Trump arrivi da lontano…
I risultati delle elezioni presidenziali di un anno fa sono stati un trauma. Ma leggere quanto è successo soltanto in questi termini rischia di essere un atteggiamento consolatorio e, talvolta, anche auto-assolutorio, di sottrazione per molti americani alla responsabilità collettiva per aver creato questo mostro. La sua elezione è anche un nuovo modo di procedere attraverso shock. Non è come fu l’uragano Katrina, è piuttosto la produzione di un continuo «shock-show»: la modalità spettacolare per far avanzare e proseguire una permanente politica distruttiva, finalizzata a un preciso progetto di ridistribuzione della ricchezza verso l’alto. La politica di sistematica distruzione del welfare, l’attacco alle piccole conquiste nel campo dell’assistenza sanitaria, lo smantellamento dei già fragili meccanismi di regolazione del sistema finanziario ne sono la sostanza. Dal mio primo libro, No Logo, ho dovuto riprendere lo studio del mondo del marketing e del branding aziendale: Trump ne rispecchia le peggiori caratteristiche, alimentando il suo «superbrand» anche attraverso l’uso della forma e del linguaggio dei reality show, e subappaltando a catene di sfruttamento apparentemente inafferrabili il rapporto con il lavoro concreto. E dello spettacolo di wrestling permanente, che viene messo in scena, fa parte anche la guerra. Questo rende Trump pericolosissimo. Ma la bolla di ogni superbrand ha il punto in cui si può colpire per farla esplodere: dobbiamo e possiamo trovarla anche per Trump.
C’è chi propone, anche a sinistra, in Europa, di farla finita con i movimenti delle donne, con la solidarietà e le lotte dei migranti, con la difesa e la conquista di nuovi diritti civili, con la questione ecologica, di tornare a occuparci solo della «classe operaia bianca» per sottrarla ai populisti di destra. Per affrontare questi argomenti, lei parte proprio dalla straordinaria ricchezza di conflitti che anima la scena nordamericana. Che ruolo possono avere nella costruzione di un’alternativa?
Il risentimento sociale è stato parte importante del consenso per Trump. Ma non è qualcosa di inedito: il continuo e sistematico contrapporre la classe operaia bianca ai neri, i cittadini ai migranti, gli uomini alle donne, è fondamentale nella costruzione dell’attuale distopia corporativa. È la strategia del divide et impera di sempre, una delle più potenti armi di difesa delle élite contro la vera democrazia. Uno scrittore e intellettuale come Cornel West ha detto che «la giustizia è l’aspetto che assume l’amore in pubblico».
Il neoliberismo è politica senza amore. Incarnazione di avidità e indifferenza, come lo stesso Trump. Scatenare l’odio contro i più vulnerabili ne è un aspetto essenziale. Per questo è decisiva la scelta di un’impostazione «intersezionale» compiuta da molti movimenti americani. Significa comprendere come i vari problemi, di razza, genere, reddito, condizione migrante, crisi climatica, si incrocino e si sovrappongano all’interno dell’esperienza individuale di vita. E anche nelle strutture profonde di potere. Dobbiamo essere capaci di mostrare il ruolo giocato dalla politica della divisione e della separazione. Ribaltarla e non seguirla.
Nel suo libro insiste sul bisogno di appropriarsi di due concetti che sono, allo stesso tempo, altrettante indicazioni-guida per la pratica. Che cosa intende per «protezione» e «prendersi cura»?
Ho imparato che cosa significhi assumersi il ruolo di «protettori» nelle giornate che ho trascorso a Standing Rock, durante la resistenza al devastante progetto di oleodotto. Significa difendere la natura e i beni comuni quanto sono minacciati, perché sono fondamentali per le nostre vite. E farci carico della cura degli altri, perché solo nella reciprocità delle relazioni è possibile costruire un qualche futuro. Le connessioni sistemiche che abbiamo di fronte stanno diventando evidenti a tutti. E oltre a gridare forti i nostri «no», dobbiamo anche essere capaci di mettere in campo un’altra strategia: pronunciare un «sì» seducente che elabori un progetto capace di realizzare miglioramenti concreti nella vita quotidiana di tanti, costruito su parole impegnative come «redistribuzione» e «risarcimenti».
Nella campagna elettorale per le Presidenziali 2016 non è emerso solo il fenomeno di Trump. È emerso anche qualcosa che mi ha fatto capire come le idee, i contenuti radicali di cui siamo portatori, non solo nella principale economia capitalistica del mondo, ma in tutto l’Occidente, siano molto più diffuse e popolari di quanto mi aspettassi. Penso alla campagna per Sanders. Costruire una credibile narrazione in cui i temi della razza e delle migrazioni, del genere, del lavoro e del reddito, della giustizia climatica siano ricompresi nella proposta di una trasformazione post-capitalistica della società. Bernie e tante altre esperienze di sinistra, di qua e di là dell’Atlantico, con i loro limiti e contraddizioni, stanno dimostrando che c’è spazio per questo.
articolo pubblicato su il manifesto del 31/10/2017