Di GIROLAMO DE MICHELE

Ci sono tre testi che tutti quelli che parlano di Ilva-Mittal dovrebbero conoscere, e per la più parte dicono di averli letti: le inchieste di Antonio Cederna del 1972 e di Walter Tobagi del 1979, e il romanzo La dismissione di Ermanno Rea.

Cederna, con due lunghi articoli sul Corriere, evidenziava il nesso fra l’insediamento industriale attuato senza alcun rispetto per gli equilibri ambientali, la devastazione del territorio, e un’urbanistica impazzita: «Una città disastrata, una Manhattan del sottosviluppo e dell’abuso edilizio, tale appare Taranto allo sbalordito visitatore. Stretta nella morsa della speculazione privata e di un processo di industrializzazione che si realizza al di fuori di qualsiasi piano di interesse generale, essa può ben essere presa a simbolo degli errori della politica fin qui seguita per il Mezzogiorno».

Tobagi sottolineava «la “contraddizione” tra l’enorme concentrazione industriale di Taranto e il vuoto che c’è attorno», cogliendo le linee essenziali del rapporto fra città e fabbrica: captazione della ricchezza sociale all’interno della fabbrica, con l’impoverimento delle altre risorse del territorio; mancata restituzione al territorio della ricchezza prodotta; attitudine consociativa dei sindacati. In sintesi, scriveva, «l’Italsider assicura una discreta quota di benessere medio, ma non ha determinato quel decollo della regione che molti speravano quando si gettarono le fondamenta di questa cattedrale della siderurgia».

Rea, infine, nella figura allucinata e alienata di Vincenzo Buonocore, l’operaio che incapace di concepire una vita senza la fabbrica, è disposto a smontarla lui stesso per poterla poi ricostruire in Cina.

In questi scritti c’è tutto quello che ci sarebbe da dire, oggi: con buona pace di chi continua a recitare la fiaba del modello di sviluppo trainato dal Centro Siderurgico, che con un salto logico incongruo diventa la premessa all’ineluttabilità della sua esistenza, dunque all’impossibilità di pensare un futuro per Taranto senza Fabbrica, l’Italsider-Ilva-Arcelo Mittal ha costituito per Taranto una sorta di Alien che, mentre la teneva in vita, le succhiava ogni risorsa vitale, fino a ucciderla. Avvelenandone non solo l’aria, con emissioni e polveri, e il sottosuolo, con scarichi dei quali tutt’ora si sa poco; ma anche, devastandone la struttura sociale, e imponendosi come la tetra forma mentale di un destino al quale non si può sfuggire.

Da qui, le petizioni di principio di enunciati nei quali l’impossibilità di liberarsi dall’acciaio viene dato come presupposto, laddove sarebbe da dimostrare che di un acciaio di cattiva qualità, prodotto con tecniche vetuste e altamente inquinanti non solo a valle, ma anche a monte (con prelievi di minerali ferrosi inquinanti e senza controllo in Brasile), in una fabbrica con materiale in scadenza, sia davvero necessario, a fronte di giganti della siderurgia che producono in fabbriche di nuova costruzione a minore impatto ambientale, riciclando buona parte del materiale ferroso invece di estrarlo, con una maggiore qualità del prodotto finito.

Di fatto, non c’è formazione o leader politico che non abbia, non importa con quale buon uso della lingua italiana, recitato il mantra del «Taranto non può vivere senza la Fabbrica»: un mantra nel quale Taranto diventa un luogo neutro e vuoto, una volta cancellato il tributo di sangue e tumori pagato dai tarantini. Un mantra che, con un’altra capriola logica, predica la ricerca del bravo imprenditore che risanerà la Fabbrica, o del buono e bravo Stato che, nazionalizzandola, la risanerà: ignorando la sostanza dell’imprenditoria orientata solo al profitto, o l’incapacità di una pianificazione industriale di lungo periodo. Nel quale, peraltro, i tarantini saranno probabilmente tutti morti, e sepolti in un cimitero con lapidi rosate, perché le bianche si tingono subito della polvere rossa della Fabbrica: come in un incubo benjaminiano, neanche i morti sono al sicuro, a Taranto.

Questo articolo è stato pubblicato su il manifesto il 7 novembre 2019

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