di SANDRO MEZZADRA.
Anticipo qui il primo capitolo di un piccolo libro che sto scrivendo su Marx, provvisoriamente intitolato “Nei cantieri marxiani. Il soggetto e la sua produzione”.
Capitolo primo – Marx oltre il marxismo
“Accade oggi alla dottrina di Marx quel che è spesso accaduto nella storia alle dottrine dei pensatori rivoluzionari e dei capi delle classi oppresse in lotta per la loro liberazione. Le classi dominanti hanno sempre ricompensato i grandi rivoluzionari, durante la loro vita, con implacabili persecuzioni; la loro dottrina è stata sempre accolta con il più selvaggio furore, con l’odio più accanito e con le più impudenti campagne di menzogne e di diffamazioni. Ma, dopo morti, si cerca di trasformarli in icone inoffensive, di canonizzarli, per così dire, di cingere di una certa aureola di gloria il loro nome”
(Vladimir Ilic Lenin, Stato e rivoluzione [1917], trad. it. in Id., Opere scelte in sei volumi, Roma-Mosca, Editori Riuniti-Progress, s.d., vol. IV, p. 235).
Sbaglieresti a pensare che io “ami” i libri, scrisse Marx alla figlia Laura nel 1868: piuttosto, continuava, “sono una macchina condannata a divorarli per vomitarli in una nuova forma, come concime sulla terra della storia” (MEW, XXXII, p. 545). Prende avvio da questa immagine la lettura di Marx recentemente proposta da Pierre Dardot e Christian Laval in un libro ponderoso (Dardot e Laval 2012). Singolare metabolismo, quello qui delineato: libri, autori e teorie macinati da una macchina di lettura che li restituisce “in una nuova forma” alla storia, per renderla più fertile. Un continuum di variazioni e di ripetizioni su temi ereditati dalla storia per produrre dal loro interno quell’innovazione che alla storia deve tornare. È bene non esagerare, sia chiaro, il significato di questa privata “confessione” di Marx alla figlia nell’anno del suo matrimonio con Paul Lafargue: e tuttavia essa ci offre una traccia che vale la pena seguire per tornare a leggere Marx, oggi. Fin dalla prefazione di Engels al secondo libro del Capitale (1885), il marxismo ha costruito di Marx un’immagine ben diversa: quella dell’assoluto novatore, “che forniva la chiave per la comprensione dell’intera produzione capitalistica, per chi avesse saputo utilizzarla” (C, II, p. 20). Il pensiero di Marx prese così a essere considerato come un compatto sistema, costruito sulla base di una serie di “scoperte” (della lotta di classe, della forza-lavoro, del plusvalore, di leggi) e di una serie di radicali “cesure” con tutto ciò che lo aveva preceduto – e con le sue stesse “tre fonti” fondamentali: la filosofia tedesca, l’economia politica inglese e il socialismo francese. Chiosava Lenin, nel 1913: “la dottrina di Marx è onnipotente perché è giusta. Essa è completa e armonica, e dà agli uomini una concezione integrale del mondo, che non può conciliarsi con nessuna superstizione, con nessuna reazione, con nessuna difesa dell’oppressione borghese” (Lenin 1913, p. 42).
È da questo Marx – dal Marx del marxismo – che dobbiamo prendere congedo. Certo, abbiamo spesso ripetuto la frase che Marx avrebbe pronunciato, secondo lo stesso Engels, verso la fine degli anni Settanta dell’Ottocento: tout ce que je sais, c’est que je ne suis pas Marxiste (MEW, XXXVII, p. 436). Non si tratta oggi, tuttavia, di tornare a proporre un Marx “critico del marxismo”. Il “marxismo” non è più (se non marginalmente) “strumento di potere”, per riprendere i termini utilizzati da Maximilien Rubel – grande studioso di Marx e implacabile critico del marxismo – nella sua dura polemica anti-sovietica (Rubel 1974, p. 8). Quello che oggi si presenta come “marxismo”, nelle accademie così come nell’azione di forze politiche che in molte parti del mondo continuano a richiamarsi a esso, è un insieme eterogeneo di elaborazioni teoriche e di linguaggi politici, raramente capace di conquistare egemonia dal punto di vista “ideologico” (altra questione che molto preoccupava Rubel). Spesso i “marxisti” dei nostri giorni – coloro che tengono a presentarsi come “marxisti” – riproducono i toni che si sono appena incontrati nella citazione di Lenin: ma quelle che un tempo, dentro grandi battaglie e grandi movimenti storici, erano armi per cambiare il mondo oggi appaiono semplici caricature. Non di rado, le letture e gli usi più interessanti e creativi di Marx – interessanti e creativi dal punto di vista di ciò che stava a cuore a Marx, sia chiaro, dal punto di vista della critica dello “stato di cose presente” (IT, p. 34) – si trovano al di fuori del “marxismo”. Dubito, personalmente, che abbia un senso oggi proporsi l’obiettivo di rifondare il marxismo, se con questo termine si intende un sistema di pensiero capace di spiegare complessivamente il mondo a partire dai concetti e dal lessico di Marx. Dubito anche del resto che si possa proporre un’“idea comunista”, secondo la formulazione di Alain Badiou (2009), senza tornare a frequentare i testi marxiani, senza appropriarsene appunto creativamente. Questo duplice dubbio è all’origine della lettura di Marx oltre il marxismo che propongo in questo piccolo libro.
“Marxista”, non è inutile ricordarlo, era originariamente uno “stigma”, la definizione polemica, l’invettiva impiegata da Bakunin e dagli anarchici contro i seguaci di Marx nelle polemiche interne alla prima Internazionale (cfr. Haupt 1978, pp. 292 ss.). Poi, secondo modalità ben note ai sociologi, lo stigma si trasformò in “emblema”, in particolare dopo la fondazione nel 1883 della “Neue Zeit” (la rivista teorica “marxista” della socialdemocrazia tedesca) da parte di Karl Kautsky. Quello che chiamiamo marxismo è stato un formidabile edificio di pensiero, costruito storicamente a partire dal lavoro di Engels sui manoscritti del secondo e del terzo libro del Capitale, consolidatosi nella polemica di fine secolo attorno al “revisionismo” (con la nascita dei marxismi al plurale) e poi assestatosi dopo l’Ottobre sovietico e la divisione del movimento operaio. Il marxismo, “al tempo stesso un metodo per interpretare il mondo e per cambiarlo” (Hobsbawm 1978, p. XII), è vissuto nelle lotte, nelle insurrezioni e nei sogni di grandi masse, nell’azione di movimenti, partiti e regimi. Non è stato soltanto un edificio di pensiero, dunque; è stato anche una forza materiale che ha contribuito a costruire il mondo che abitiamo. Al tempo stesso una filosofia, una scienza e una politica: questo è stato il marxismo, una “triangolazione” tra questi tre poli, con lati di lunghezza variabile a seconda delle “correnti” e delle esperienze storiche, così da dar luogo a infinite variazioni sulla figura geometrica del triangolo (Therborn 2008, pp. 116 ss.). Oggi tuttavia, come ha scritto Göran Therborn, “il classico triangolo marxista si è spezzato, ed è assai improbabile che lo si possa ricomporre” (ivi, p. 180).
Non è solo la fine del socialismo reale, di quello che Rita di Leo (2012) ha recentemente definito “l’esperimento profano”, e del movimento operaio (inteso come forma storica e forza politica) a decretare il suo esaurimento. Tanto nella filosofia e nella “scienza” quanto nella politica, tanto nell’insorgenza anticoloniale quanto sulle barricate del maggio francese e nelle officine di Mirafiori, tanto nella presa di parola delle donne quanto in quella delle “minoranze”, una serie di movimenti e di lotte si costituisce a partire dalla metà del Novecento in eccedenza rispetto al marxismo; prima lo attraversa problematicamente e poi contribuisce a farlo esplodere. Diceva Sartre, sul finire degli anni Cinquanta dello scorso secolo, che il marxismo è “l’orizzonte insuperabile del nostro tempo”. Non è più così. È allora necessario rileggere Marx al di fuori del marxismo, immergerlo nella materialità di una storia che è andata oltre quest’ultimo, farlo dialogare con sviluppi teorici che il marxismo non è stato letteralmente in grado di “contenere” al proprio interno, interrogare i suoi testi attraverso le problematiche e le lotte contemporanee.
Si diceva che una serie di movimenti teorici e pratici, a partire dalla metà del Novecento, contribuisce ad accelerare la crisi del marxismo (e si dovrebbe aggiungere che il tema della “crisi” accompagna lo sviluppo del marxismo fin dalla “revisione” di fine Ottocento). È il caso di sottolineare che ciò avviene in particolare per quel che riguarda il modo in cui quest’ultimo ha costruito e interpretato la soggettività del “lavoro”. In un saggio del 1990, analizzando l’esperienza di Solidarnosc in Polonia e le lotte proletarie nel Sudafrica dell’apartheid, Giovanni Arrighi mostrava con grande chiarezza come il marxismo avesse in questo senso mutuato (quantomeno nelle sue forme egemoniche) un’idea presente già in Marx: e cioè che alla tendenza del capitale a sfruttare la forza lavoro “come massa indifferenziata, senza specificità diversa da quella determinata dalla differente capacità di aumentare il valore del capitale”, corrispondesse un’analoga “tendenza del lavoro a mettere da parte le differenze naturali e storiche come mezzi per affermare individualmente e collettivamente un’identità sociale distinta” (Arrighi 1990, p. 105). Lo sviluppo su scala mondiale del capitalismo e delle lotte operaie e proletarie nel Novecento, proseguiva Arrighi, non aveva in alcun modo confermato questa idea: di qui era derivata l’incapacità del marxismo di offrire strumenti teorici efficaci per contrastare la diffusione all’interno dello stesso movimento operaio (tanto nelle sue componenti comuniste quanto in quelle socialiste) di patriarcato, razzismo e nazionalismo. Assumere il tema della produzione di soggettività come filo conduttore dell’analisi di alcuni testi di Marx significa per me tenere ben presenti queste questioni.
Più in generale, si potrebbe considerare il marxismo come un “sistema di pensiero”, nel senso che Michel Foucault assegnò a questa formula al momento di assumere il suo incarico al Collège de France nel 1970. Anche nel marxismo, cioè, “la produzione del discorso è insieme controllata, selezionata, organizzata e distribuita tramite un certo numero di procedure” (Foucault 1970, p. 9). Non si tratta di riprendere l’affermazione di Foucault di qualche anno prima, secondo cui “il marxismo è nel pensiero del XIX secolo come un pesce nell’acqua: cioè, fuori di lì cessa ovunque di respirare” (Foucault 1966, p. 283). Di questa affermazione sarebbe anzi possibile mostrare la posizione di paradossale internità, ancorché liminare, al “campo discorsivo” del marxismo: si potrebbe cioè sostenere che proprio l’esigenza di sottrarsi a tale “campo discorsivo”, alle procedure e alle logiche che lo organizzavano, ha spinto Foucault, negli anni Sessanta, a relegare lo stesso Marx tra le anticaglie dell’Ottocento. È piuttosto la definizione di questo campo discorsivo che Foucault ci aiuta a cogliere. Studiando in particolare i tre momenti “fondativi” che si sono precedentemente indicati, credo che sarebbe possibile tracciare in modo quasi cartografico le regole di enunciazione (un certo modo di utilizzare le citazioni di Marx, ad esempio) e le problematiche (il rapporto tra struttura e sovrastruttura, per limitarci a un’unica questione) che, in modo relativamente costante – combinando le funzioni che ancora Foucault ha definito in termini di “persistenza”, “additività” e “ricorrenza” (Foucault 1969, pp. 166 s.) –, hanno governato la produzione e la riproduzione del marxismo come “sistema di pensiero”. Anche all’interno di quest’ultimo, si potrebbe insomma dire, “‘chiunque parla’, ma quello che dice non lo dice da una posizione qualunque” (ivi, p. 165): è piuttosto necessariamente implicato nelle procedure che costituiscono e delimitano il campo discorsivo del “marxismo”.
Non è difficile anticipare a questo punto le obiezioni: non vi sono state all’interno del marxismo straordinarie “eresie”? Dobbiamo forse confondere il “marxismo-leninismo” con il black Marxism e con l’operaismo italiano, Stalin con Trotski, il “marxismo occidentale” con il “dispotismo orientale”? Non scherziamo. La fine del marxismo ci consente piuttosto di riaprire l’archivio marxista, di apprezzarne come mai in passato la polifonia e la ricchezza di alternative. Di rileggere un’intera schiera di classici, senza limitarci a quelli che una lunga storia ha appunto canonizzato come “eretici”. Al cuore dell’“ortodossia” marxista, in altri termini, non mancano certo formulazioni e problematiche da riscoprire. Ma l’essenziale è affermare un principio di metodo: la condizione per riaprire produttivamente l’archivio marxista è la sospensione, la disattivazione delle regole di enunciazione e delle procedure che hanno governato la sua formazione. Nella prospettiva di dare un primo, modesto contributo a questa impresa necessariamente collettiva, lascio risuonare all’inizio di ogni capitolo di questo libro, in forma di epigrafe e senza commentarle, una serie di citazioni “marxiste”.
Partiamo dunque dalla prima, che si è da poco letta, e facciamo un’eccezione commentandola brevemente. Quando Lenin, alla vigilia dell’insurrezione di ottobre, parla della trasformazione di Marx in un’“icona inoffensiva” pone in fondo un problema che ci riguarda, nel tempo in cui l’Economist dedica copertine a Marx come profeta visionario della globalizzazione (e in fondo come apologeta del capitalismo). Ma anche il marxismo, quello stesso marxismo-leninismo che si è richiamato nei decenni successivi a Stato e rivoluzione, ha trasformato Marx in un’“icona” – spesso, anche se certo non sempre, “inoffensiva”, ma comunque in un’“icona”. Non è accaduto lo stesso a Lenin? Basti rileggere l’incipit del poema, troppo facilmente profetico, che Majakovskij scrisse all’indomani della sua morte, nel 1924: “ho paura che una corona sulla sua testa / possa nascondere la sua fronte / così umana e geniale, così vera. Sì, io temo / che processioni e mausolei / con la regola fissa dell’ammirazione / offuschino d’aciduli incensi / la semplicità di Lenin”. Ma restiamo a Marx: il marxismo, novella patristica, si è costituito essenzialmente attraverso il commento ai suoi testi, e ha così costruito di Marx una specifica immagine in primo luogo forgiando un corpus di opere che ha valorizzato l’istanza di sistema e scientificità. Il lavoro di Engels attorno al secondo e al terzo libro del Capitale è da questo punto di vista esemplare. Sia chiaro: non si tratta qui di proporre l’ennesima contrapposizione tra Marx ed Engels, tra la genialità del primo e la pedanteria del secondo. Engels fece un lavoro straordinario, coniugando dedizione amicale, cura filologica e spirito militante, “di partito”! Ma impose unitarietà e sistematicità a un pensiero che dopo la pubblicazione del primo libro del Capitale (1867) si era mosso in direzioni complesse e spesso contraddittorie, senza più riuscire ad assestarsi in una sintesi. La pubblicazione dei manoscritti marxiani nella nuova edizione critica delle opere (la cosiddetta MEGA2) ci consente di apprezzare la frammentarietà ma anche la ricchezza di questo pensiero: e ci offre nuove chiavi di accesso a quelli che si possono definire con una certa precisione i cantieri marxiani.
È necessario scrivere una volta di più “sia chiaro”: non si vuol certo qui sostenere che l’autore del Capitale fosse un pensatore che amava il frammento o l’aforisma. L’istanza di sistema e scientificità (uno dei tre lati del “triangolo marxista” individuato da Therborn) è propria di Marx fin dagli anni della sua formazione. Ma quel che oggi vale la pena di sottolineare (di interrogare criticamente e di valorizzare) è il continuo urto di questa istanza con la materialità della storia, della politica, dello stesso sviluppo dei suoi studi e della sua riflessione. I “sentieri interrotti”, se è concesso riprendere con qualche ironia il titolo di un celebre libro di Martin Heidegger, sono innumerevoli nei cantieri marxiani. Se la MEGA2 ha contribuito a rinnovare l’immagine di Marx, e a stabilire un nuovo terreno su cui studiarlo, non è tanto per gli “inediti” che ha portato alla luce quanto perché ha mostrato l’enorme sproporzione – difficilmente riscontrabile in un altro “classico” – tra quanto Marx ha scritto e quanto Marx ha pubblicato. E ha in fondo offerto qualche argomento a chi, come Dardot e Laval, valorizza la metafora della “macchina” da cui si sono prese le mosse. Leggere Marx oltre il marxismo ci consente di apprezzare in modo nuovo il carattere frammentario dell’opera marxiana, di esplorarne i cantieri – come si diceva – sulla base delle nuove acquisizioni delle lotte e degli sviluppi teorici degli ultimi decenni. Non è quello che è avvenuto all’interno del marxismo, il cui sviluppo è stato periodicamente caratterizzato dalla pubblicazione di “inediti” attorno a cui si sono accese polemiche che hanno considerato quaderni di appunti e frammenti di teoria come opere a sé stanti. È accaduto con i Manoscritti economico-filosofici del 1844 e con l’Ideologia tedesca, è accaduto – sia pure secondo modalità e in condizioni diverse – con i Grundrisse, come ha mostrato di recente ad esempio Marcello Musto (2011). Anche qui si tratta dunque di disattivare e sospendere le regole di enunciazione e le problematiche che hanno governato, in quel Novecento che è stato anche il “secolo marxista” (cfr. ancora Arrighi 1990), la lettura di Marx.
Addentriamoci dunque nei cantieri marxiani. Leggiamo di nuovo i suoi testi senza dimenticare che la storia di cui sono intrisi non è solo storia di teorie ma anche storia di lotte e di combattimenti di strada, della violenza del dominio e dello sfruttamento, della faticosa conquista e della materiale costruzione di libertà e di uguaglianza da parte degli sfruttati. È storia vissuta nella luce incerta e tuttavia mai spenta di quello che Marx, in una celebre lettera a Ruge del settembre 1843, chiamò il “sogno di una cosa” (Traum von einer Sache, MEW, I, p. 346), e che avrebbe assunto il nome di comunismo. Vale in fondo anche qui, per apporre una seconda epigrafe marxista a questo incipit, quel che Ernst Bloch scriveva di Thomas Münzer nel 1921, all’indomani della fatale sconfitta della rivoluzione in Germania: “noi vogliamo essere sempre con noi. Così anche qui noi non guardiamo assolutamente indietro. Ma vivi noi stessi ci mescoliamo. Ed anche gli altri si volgono di nuovo trasformati, i morti tornano di nuovo, la loro azione vuole compiersi ancora una volta con noi”. Anche Marx, insomma, è per noi “anzitutto storia in senso fecondo, egli e ciò che è suo e tutto il passato che merita essere trascritto è qui per impegnarci, per entusiasmarci, per sostenere sempre in modo più ampio ciò che è da noi continuamente inteso” (Bloch 1921, p. 29). Affermare la necessità di un ritorno a Marx oltre il marxismo, come dovrebbe essere chiaro a questo punto, è un gesto teorico che punta a riscoprire e a riattivare nel presente la radicalità, il portato sovversivo e rivoluzionario del suo pensiero e del suo desiderio comunista – ovvero di “ciò che è da noi continuamente inteso”.
Sigle delle opere di Marx citate
C, II = Il capitale. Critica dell’economia politica, Libro secondo, Il processo di circolazione del capitale, Torino, Einaudi, 1975.
IT = K. Marx – F. Engels, L’ideologia tedesca, in Opere, vol. V, Roma, Editori Riuniti, 1972.
MEW = K. Marx – F. Engels, Werke, 39 Bde. und 2 Erg.Bde., Berlin, Dietz, 1958-1971.
Altri riferimenti bibliografici
Arrighi, G. (1990), Secolo marxista, secolo americano. L’evoluzione del movimento operaio mondiale, trad. it. in Id., Capitalismo e (dis)ordine mondiale, Roma, manifestolibri, 2010.
Badiou, A. (2009), L’ipotesi comunista, trad. it. Napoli, Cronopio, 2011.
Bloch, E. (1921), Thomas Münzer teologo della rivoluzione, trad. it. Milano, Feltrinelli, 1980.
Di Leo, R. (2012), L’esperimento profano. Dal capitalismo al socialismo e viceversa, Roma, Ediesse.
Foucault, M. (1966), Le parole e le cose, trad. it. Milano, Rizzoli, 1978.
Foucault, M. (1969), L’archeologia del sapere, trad. it. Milano, Rizzoli, 1980.
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Haupt, G. (1978), Marx e il marxismo, in Storia del marxismo, vol. 1, Il marxismo ai tempi di Marx, Torino, Einaudi.
Hobsbawm, E.J. (1978), Prefazione, in Storia del marxismo, vol. 1, Il marxismo ai tempi di Marx, Torino, Einaudi.
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Musto, M. (2011), Ripensare Marx e i marxismi. Studi e saggi, Roma, Carocci.
Rubel, M. (1974), Marx critico del marxismo, trad. it. Bologna, Cappelli, 1981.
Therborn, G. (2008), From Marxism to Post-Marxism?, London – New York, 2008.