di COLLETTIVO EURONOMADE. L’Italia ha votato, sottolineano gli osservatori, rafforzando al di là delle previsioni i partiti antiestablishment e antieuropei. Il voto segue e anzi amplifica, seppur con caratteristiche proprie, un trend osservabile in tutto il continente: dalla avanzata lepenista in Francia, alle recenti elezioni tedesche, il tratto comune sarebbe costituito dalla crescita dei partiti che si schierano contro l’Unione e contro i governi. Il che è ovviamente in buona parte vero: siamo partiti con la convinzione diffusa che le elezioni – grazie anche al notevole contributo offerto da una legge elettorale pensata per produrre un risultato bloccato – avrebbero battezzato una fase di larghe intese all’italiana, fondata sull’intesa tra Partito Democratico e Forza Italia, e abbiamo invece assistito al crollo proprio delle due forze che si candidavano a essere i perni di questa operazione di stabilità. Dunque, effettivamente un voto “contro” c’è stato.

Eppure la chiave di lettura estabilishment/antiestablishment si rivela molto astratta e formale, specie se trasposta nell’opposizione tra partiti “filoeuropei” e “antieuropei”. Se il voto italiano rompe con le grandi intese nella formula prevista, e se effettivamente premia soprattutto i due partiti più connotati in senso antiestablishment e antieuropeo, non è però all’orizzonte nessuna rottura, nessuna sfida alla governance europea, e, molto probabilmente, non c’è da attendersi nessun effetto destabilizzatore. Senza indulgere al gioco delle previsioni sulle vie d’uscita possibili dall’impasse che si è venuto a creare sul fronte della composizione di una maggioranza governativa, quello che è certo è che si apre una lunga stagione di composizione/scomposizione degli schieramenti, e, in tutta probabilità, degli stessi soggetti politici attualmente in campo. Hanno cominciato gli sconfitti più sconfitti di tutti, ossia il Partito Democratico, ad aprire il gran ballo delle guerre intestine: ma la vocazione di Renzi a spaccare e a “rifondare” un suo schieramenti di fedelissimi è solo il primo segno di un lungo ciclo di scissioni e riallineamenti.

La fibrillazione sistemica cui ora assistiamo è tuttavia caratterizzata dal non produrre rotture altrettanto sistemiche. La lettura in chiave di antiestablishment e di “antieuropeismo” trascura il fatto che tutto il quadro italiano, se letto sullo sfondo dei processi europei, in realtà non mette minimamente in discussione, ma anzi conferma in pieno le tendenze fondamentali alla rinazionalizzazione e alla chiusura proprietaria dello spazio europeo. Nell’avanzata della destra, e soprattutto nell’affermazione leghista alla testa della coalizione, la doppia tendenza al feticismo dei confini e al feticismo della proprietà, per dirla con un nostro precedente editoriale, è resa del tutto evidente; ma anche l’affermazione del M5S come primo partito rientra in questo quadro. Lega e M5S erano stati i protagonisti, quest’estate, dell’attacco contro le ONG operanti nel Mediterraneo, sostanzialmente poi santificato e normalizzato dal ministro degli Interni. Iniziata proprio con le dichiarazioni di Luigi Di Maio, quell’operazione ha certificato l’ulteriore riconfigurazione del complesso militare-umanitario, facendo emergere ufficialmente anche la disponibilità ad abbandonare in mare per rafforzare i respingimenti. Sconfitto elettoralmente Minniti, che di quella operazione decise di farsi ultimo garante e “traduttore” istituzionale, l’attacco alle ONG può essere assunto, non simbolicamente, ma nel suo segnare un concretissimo passaggio di soglia, come il momento che definisce complessivamente l’operazione di stabilizzazione reazionaria, che abbiamo già tentato di definire meglio nei suoi contorni, cui assistiamo sia sul livello italiano che su quello europeo.

Se la coalizione di destra con la sua guida leghista segna la esplicita disponibilità a far proprio il discorso razzista di un blocco di proprietari e non proprietari attirati al momento dalla promessa di rassicurazione territoriale e nazionalista, l’M5S, che ha da tempo investito gran parte della sua immagine proprio su una politica altrettanto segnata dal “prima gli italiani”, costituisce il momento dinamico di cattura della disponibilità di ceti medi impoveriti, ma anche di una buona parte del precariato e del lavoro autonomo e piccolo-imprenditoriale, verso politiche di stabilizzazione, nel segno di una promessa di rassicurazione sociale. Al di là dei giochi di riconfigurazione degli attori politici, e al di là delle formule di governo, per altro tutte instabili, cui questi giochi approderanno, l’ipotesi più credibile è che l’intera operazione di stabilizzazione reazionaria finisca per trovare in ogni caso proprio nel M5S il pilastro di normalizzazione, valorizzando nei pentastellati la vocazione in qualche modo “centrista”, apparentemente moderata e in grado di fornire alla governance europea le garanzie di mantenimento della stabilità, pur allo stesso tempo partecipando attivamente al robusto e complessivo spostamento a destra di tutto l’asse del sistema politico.

Solo tenendo ben fermo questo panorama generale – una complessiva per quanto costitutivamente a rischio e contrattata stabilizzazione del sistema politico in senso reazionario, cioè proprietario e nazional-identitario – si possono affrontare, e forzare per allargarle, le diverse faglie di instabilità, i tagli non suturati che la connessione reazionaria tra neoliberalismo e autoritarismo non chiude, e anzi può persino esasperare. Non a caso, proprio mentre diventava sempre più chiaro che lo slittamento complessivo a destra aveva ampi margini per tradurre anche a livello elettorale i nuovi spazi conquistati dai discorsi autoritari e razzializzanti, quando non esplicitamente neofascisti, la campagna elettorale assisteva anche all’emergere di una forte e estesa disponibilità alla solidarietà antirazzista, del resto già annunciata nei mesi precedenti da importanti manifestazioni come quella di Milano del maggio scorso. Questo antirazzismo coglie bene uno dei caratteri principali costitutivi del tentativo di stabilizzazione, cioè l’utilizzazione della cittadinanza come meccanismo di gerarchizzazione e di differenziazione, e, allo stesso tempo, come mezzo per una “rassicurazione” sempre più etnicizzata. Spingendosi oltre le stesse manifestazioni di solidarietà, la reazione delle comunità migranti di Firenze dopo l’ennesimo omicidio razzista ha mostrato a tutti quanto questo fronte sia produttivo non solo di resistenze, ma anche di sperimentazione di assemblaggi politici e, almeno in potenza, di alleanze sociali meticce in grado di far saltare i confini imposti dal razzismo istituzionale.

Contemporaneamente, lo sciopero generale femminista dell’8M, ribadendo per il secondo anno la sua forza in Italia, dentro una straordinaria mobilitazione transnazionale, ha mostrato la potenza di un piano, com’è quello rivendicato da NonUnadiMeno, che porta la sfida a sessismo e razzismo nella materialità della produzione/riproduzione delle vite e delle soggettività. NiUnaMenos transnazionale sfida i confini e le identità imposte dal neoliberalismo nella sua attuale versione machista, razzista e autoritaria, rendendo visibile, attraverso la ridefinizione dello sciopero, la forza eccedente della riproduzione allargata, della cooperazione sociale. Un mondo di differenze, che riaprono spazi di resistenza e di vita, di riconquista del potere sulla produzione e riproduzione delle proprie forme di esistenza: movimenti che, insieme a quelli dei migranti, rompono il dominio del soggetto maschile e autoctono, santificato dal modello di cittadinanza che ha sempre guardato all’individuo proprietario e al lavoratore salariato come i due unici poli del suo equilibrio, per ritrovarli ora esasperati, in questa versione ultraidentitaria del loro patto, nell’idea di sicurezza nazionale, razziale e di genere.

In quel tessuto di cooperazione e di differenze, oltre la cittadinanza e il suo soggetto, si radicano oggi le possibilità di aprire varchi e resistenze, di costruire un campo sociale di contropoteri ed esperimenti di nuove istituzioni. Le ragioni della débacle della sinistra elettorale, di tutte le espressioni della sinistra, neoliberali, riformiste o radicali, vanno evidentemente ricercate nella incapacità di comprendere la trasformazione soggettiva in corso, vale a dire l’incommensurabilità dell’attuale composizione sociale al mondo della cittadinanza classica e del modello produttivo che la sorreggeva.

Non basta denunciare la resa del Partito Democratico all’ideologia neoliberale, non basta proclamare il proprio “antiliberismo”, come – con maggiore o minore intensità e credibilità – le “sinistre a sinistra del PD” hanno fatto. Non risulta infatti più efficace il solo “antiliberismo”, se questo consiste nel richiamo alla centralità di un lavoro sempre meno indagato nella sua realtà e sempre più proclamato come “valore perduto”, o in una poco realistica invocazione della funzione protettiva dello stato (richiamo simbolico molto meglio giocato, sul lato destro dello schieramento, dalle diverse forze che animano il progetto autoritario). La questione risiede altrove, si direbbe: ma questo altrove è precisamente costituito e animato dalle soggettività che forzano continuamente quel richiamo ai confini dello stato, della proprietà e della cittadinanza, che la stabilizzazione reazionaria continuamente e spesso violentemente riproduce.

La stessa faglia geografica (tra Nord e centro-Sud) che il voto ha aperto, l’Italia disunita su cui si soffermano molti discorsi, cambia significato se la si legge in questa chiave. Certo il Sud non ha votato “per il reddito di cittadinanza” per infingardaggine e connaturato assistenzialismo, come in questi giorni ripetono rancorosi, con sprezzanti toni da colonialismo interno, proprio tutti quegli attori più o meno vicini al Pd che si sono fatti sempre storicamente garanti al mezzogiorno di un modello di sviluppo dipendente e assistito, e che da tempo non ne controllano il consenso. D’altro canto, il voto massiccio al M5S non segna certo immediatamente una “rottura” in nome della richiesta di reddito: non a caso, rientra in quel voto anche una richiesta di protezione, in nome della “cittadinanza nazionale”, che rimanda chiaramente al ruolo “neocentrista” che il M5S può giocare nel processo di stabilizzazione. Eppure, anche questo voto meridionale – che il M5S tende a incorporare dentro le politiche di controllo sulla forza lavoro e di workfare estremamente condizionato che ne connotano il discorso – indica che il terreno di battaglia si apre sul welfare, e sulla capacità di fare del welfare un terreno di autonomia e liberazione, di potenziamento dei contropoteri e della capacità di costruire vita in comune oltre e contro i dispositivi di controllo, di normalizzazione e di gerarchizzazione di classe, razza e genere, che attraversano costantemente le vite in questa fase di torsione autoritaria del neoliberalismo. E il voto del Sud potrebbe aprire prospettive di resistenza interessanti, ma evidentemente solo a patto che il lavoro di lotta politica riesca a farlo sfuggire alla trappola del workfare e delle politiche di governo sulla povertà, producendo connessioni e alleanze sociali inedite, capaci di forzare i confini della cittadinanza.

Più in generale, il terreno del welfare, come connessione di soggettività non integrabili nella cittadinanza classica e ostili o anche semplicemente sconosciute agli alfabeti dei “patti tra produttori” nazionali, è il campo di resistenza e di sperimentazione che si apre ai movimenti sociali: di connessione tra i movimenti dei migranti, la nuova onda femminista, e le lotte per il welfare universale incarnate nei nuovi esperimenti del sindacalismo sociale, delle lotte della forza lavoro digitale dentro e contro il capitalismo delle piattaforme, della riappropriazione “neomunicipalista” degli spazi cittadini e metropolitani. Un po’ l’avevamo intuito dal 2011 in poi: la lotta è tra i nuovi poteri radicati nelle maree che ripetutamente emergono sul terreno del welfare e della produzione/riproduzione sociale, contro un tentativo sempre più rigido di controllare le soggettività attraverso i dispositivi della sovranità, dell’identità e della proprietà. Anche il caso italiano, più che narrarci di casta e anticasta, di élites e antiélites, di europeisti e antieuropeisti, ci racconta che è precisamente lungo questa linea che l’uno si è diviso in due.

 

 

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