di BENEDETTO VECCHI.

Le fake news non sono solo falsità, bensì il simbolo di trasformazioni ben più rilevanti nella formazione dell’opinione pubblica e nel modo di produzione dell’informazione.
A sostenere questo invito a studiare con attenzione la diffusione seriale e virale delle «bufale» sono due filosofi che operano in contesti economici, politici e culturali diversi, ma con molti punti in comune. Sono il teorico del diritto statunitense Cass R. Sunstein e il filosofo italiano Maurizio Ferraris.

Cass R. Sunstein è un liberal che ha collaborato a lungo con Barack Obama; negli ultimi dieci anni, ha concentrato la sua attenzione sugli effetti non sempre positivi della comunicazione on line e dei social media nell’esercizio della democrazia politica.
Per il giurista statunitense, la Rete consente sì ai singoli di prendere la parola e di esprimere il proprio punto di vista rivolgendosi a un pubblico indifferenziato e potenzialmente di massa senza passare attraverso la «mediazione» di tv, radio e carta stampata, ma questo non coincide quasi mai con la formazione di una opinione pubblica informata capace di discernere il vero dal falso.
Allo stesso tempo, la comunicazione dei molti ai molti (tipica della Rete) non è sinonimo di un confronto anche aspro tra punti di vista diversificati e differenti, bensì ha determinato la costituzione di «comunità di simili» che sfuggono a ogni occasione di confronto.
Chi fa parte di una comunità di simili partecipa così al rumore di fondo di echo chambers dove tutto è finalizzato a riprodurre e convalidare un punto di vista.
Oppure a dare il via a cybercascades segnate da odio e disprezzo per chi è individuato come un nemico.

Le echo chambers sono fondamentali per diffondere la propria verità, invadendo così i nodi della rete giusto il tempo per diffondere la propria verità. L’informazione è dunque un flusso che può essere modificato, interrotto, deviato, ma mai sovvertito, contestato, criticato. In altri termini, per Sunstein l’uso dei social network e dei social media alimentano la propaganda e riducono la democrazia al conflitto tra opinioni espresse senza nessuna verifica dei contenuti che esprimono.
Sono tesi che lo studioso americano ha proposto in vari libri, l’ultimo dei quali è #republic (il Mulino, pp. 329, € 22), terzo capitolo di una serie che ha accompagnato lo sviluppo e la diffusione della Rete (i titoli degli altri due volumi sono Republic.com e Republic.com 2.0) .
Un libro, questo, che prende però atto che la Rete è ormai un «medium universale» e che Facebook, Twitter, la blogsfera sono ormai a tutti gli effetti dei media che non solo si affiancano a quelli tradizionali, ma rivelano la capacità egemonica della Rete nella formazione dell’opinione pubblica.
In altri termini, secondo Sunstein, tanto la televisione che la radio che i giornali cartacei scimmiottano ormai la Rete nel produrre e diffondere informazioni. Non c’è dunque un fuori dalla Rete e chi propone di sconnettersi da Internet non fa che rafforzare l’ordine del discorso dominante.

Complementare a questo saggio è il libro di Maurizio Ferraris Postverità e altri enigmi (Laterza, pp. 181, € 13). Il filosofo italiano, con un incedere apodittico, non ha dubbi: la Rete più che uno strumento democratico manifesta una attitudine autoritaria, anche se questo non significa cancellare la libertà di espressione, bensì di definire la cornice – dunque i confini del legittimo e dell’illegittimo – dove può essere ammessa comunicazione.
Per questo, non è più rilevante la distinzione tra verità e falso, bensì decriptare la nuova era qualificata come «postverità». Figura emblematica e triviale della postverità è il personaggio di Maurizio Crozza che ha scelto come nickname Dinamite, perché pensa che i movimenti compulsivi del mouse e il ticchettìo dei tasti della tastiere facciano esplodere un mondo percepito come ostile e nemico.

Le fake news non sono perciò solo «bufale» che possono essere contestate facendo leva su quell’agire comunicativo fondato sulla razionalità e sulla verifica dei fatti, bensì sono l’emblema radicale di quell’affermazione postmoderna in base alla quale non ci sono «fatti ma solo interpretazioni».
I social network e i social media sono cioè il braccio tecnologico di quel postmoderno dato per morto, ma ancora in servizio permanente ed effettivo nell’«era della documedialità», cioè nel regno del documento, della scrittura che diventa testo teso a qualificare, meglio nominare la realtà.
La differenza tra l’epoca contemporanea e le precedenti, che hanno visto anch’esse i documenti come lettura, interpretazione, rappresentazione della realtà, sta nell’adagio hegeliano della quantità che si trasforma in qualità.
Inoltre, e questo è l’elemento ben più rilevante, la documedialità attesta il fatto che ogni testo, foto, video che viene diffuso abbia una funzione mediatica, cioè corrisponda a una rappresentazione della realtà che è destinata a rimanere memorizzata nella cloud della comunicazione on line. Da qui, la certezza della postverità come orizzonte della comunicazione en general.

La critica alla postverità non può dunque che partire dalla comprensione della documedialità, asserisce Maurizio Ferraris. Ma più che una via d’uscita dalla postverità sembra di trovarsi di fronte a un circolo vizioso.
Come attestare la veridicità dei documenti memorizzati nella Rete; come distinguere il vero dal falso? Sembra un gioco dell’oca dove la casella della documedialità impone di tornare alle origini del pensiero filosofico e a quella distinzione tra opinione e verità suggellata da Aristotele e Platone come fondamento della filosofia.
Vale la pena allora soffermarsi su come nascono e si diffondono le opinioni.
Senza tirare in ballo lo studio seminale sull’opinione pubblica di Jürgen Habermas, occorre volgere lo sguardo sugli «imprenditori degli hashstag», cioè chi definisce le parole chiave della frammentazione del pubblico, e su personaggi come Mark Zuckerberg che non nascondono le ambizioni di costruire una comunità globale che attraverso la rete definisca i criteri per rendere compatibile un punto di vista con l’interesse generale di quella stessa comunità globale.
Zuckerberg dà per scontata la frammentazione degli utenti della rete in una miriade di comunità elettive, ma ritiene che un atteggiamento politicamente corretto codificato in policy, che dia ai proprietari del social network il potere di bloccare l’accesso agli haters, possa evitare la formazione di imprenditori dell’odio razziale, sessista e ideologico.

È un posizione questa che continua a immaginare le funzioni normative degli intermediari (i media, gli imprenditori della comunicazione e gli intellettuali), come fossero guardiani del «vero». Solo attraverso la loro azione può essere contrastato lo sminuzzamento del pubblico, che si rifugia, frammento per frammento, nelle echo chambers preferite, e temporanee, va da sé, per paura dell’incontro con le diversità.
E se i media ritrovano così un ruolo «progressivo», capace di salvare la democrazia dai suoi limiti e della sua tendenza a trasformarsi nel potere degli oligarchi, gli intellettuali possono ambire a illuminare le caverne dove uomini e donne sono condannati a vivere in assenza dei sapienti.
Nostalgia del passato, di un mondo precedente a Internet, non c’è dubbio, ma ignorare la denuncia della sistematica manipolazione dell’opinione pubblica significherebbe agire come gli struzzi: nascondere la testa nella sabbia perché il pericolo si avvicina.

La manipolazione dell’opinione pubblica è un dato di fatto. E se in passato accadeva per consolidare rapporti sociali e di potere, nell’era della #republic questo avviene anche per consolidare modelli di business, perché la produzione dell’opinione pubblica è diventata un settore economico di tutto rispetto.
Facebook produce e riproduce opinione pubblica: attraverso di essa ha definito il proprio modello di business. Lo stesso si può dire per Twitter, Google, Amazon, le cloud computing delle imprese operanti dentro e fuori la Rete.
Certo, ciò significa che il pubblico è immaginato e manipolato come un aggregato di consumatori, parcellizzati a seconda di particolari affinità elettive. È questo lo sfondo, il contesto delle proposte di Zuckerberg, che vede gli utenti della Rete come consumatori di contenuti.
Rompere la gabbia del consumo di informazione è certo un primo passo, ma quel che più conta è sviluppare una critica all’economia politica dell’opinione pubblica, dove produzione, consumo e distribuzione funzionano come un vortice che «cattura», risucchiandoli, i desideri, i pensieri, le aspirazioni, l’intelligenza presenti nella comunicazione.

E poi c’è la cooperazione sociale.
È solo attraverso una accorta e efficace critica dell’economia politica dell’opinione pubblica che si può immaginare una democrazia radicale che non tracimi nell’oligarchia, come ripetevano i classici della filosofia politica.
Altrimenti ci si può salvare l’anima evocando un mondo che non c’è più, magari rinchiudendosi in una consolatoria echo chamber dove si assiste con terrore al flusso di informazioni e al loro rumore di fondo scandito da fake news, denunciando la degenerazione della democrazia in un spazio dominato dal consumo e dalla postverità.

questo testo è stato pubblicato sul manifesto il 18 gennaio 2018

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