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A cura di TANIA RISPOLI
L’estratto che riportiamo di seguito è tratto dai Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio di Niccolò Machiavelli, libro che, scritto in un lasso di tempo variabile tra il 1513 e il 1519, si compone di una serie di discussioni, appunti, riflessioni (tenuti nella sede degli Orti Oricellari) attorno ai primi dieci libri della storia romana di Livio. Formati di tre libri, i Discorsi trattano in modo apparentemente frammentario e rapsodico tre questioni: la politica interna di Roma, la politica estera e militare e, infine, gli exempla tratti dalle vite degli uomini illustri. In questo brano (Discorsi I, 4), che fa parte del blocco unitario 1-18 del primo libro in cui si narra e commenta la nascita e il declino della repubblica romana, Machiavelli mostra come la “disunione” costitutiva tra la Plebe e il Senato romano fu la causa della sua potenza. Contro una lunga storia di detrattori antichi e contemporanei dei conflitti romani (da Agostino a Bruni), Machiavelli evidenzia la capacità dei tumulti di produrre “leggi” e “ordini” volti al bene comune. Tra questi ordini – ordinamenti in senso lato giuridico e militare – i tumulti romani furono in grado di istituire i tribuni della plebe, tramite cui il popolo – per sua “natura” dominato dal desiderio di non essere oppresso – era stato in grado di mettere in forma la sua capacità di autogoverno (“amministrazione”). Già il commento di Guicciardini, che nelle sue Considerazioni (1528) notava con disappunto che “laudare” il conflitto era come “laudare in uno infermo la infermità” (Considerazioni IV), mostra l’eccezionalità della proposta di Machiavelli nella storia del pensiero antico, umanistico e cinquecentesco per il suo identificare il conflitto come fonte inesauribile in grado di produrre istituzioni giuridico-politiche. In questo passaggio, Machiavelli individua la natura co-costitutiva dei conflitti e degli ordini – intesi come istituzioni sempre plurali e flessibili – che, insieme, formano il dispositivo nascente di un’idea di democrazia radicale.
Fonte: N. Machiavelli, Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, in Tutte le opere (secondo l’edizione di M. Martelli) Roma, Bompiani, Milano 2018, pp. 321–323.
Che la disunione della Plebe e del Senato romano fece libera e potente quella republica
Io non voglio mancare di discorrere sopra questi tumulti che furono in Roma dalla morte de’ Tarquinii alla creazione de’ Tribuni; e di poi alcune cose contro la opinione di molti che dicono, Roma essere stata una republica tumultuaria, e piena di tanta confusione che, se la buona fortuna e la virtù militare non avesse sopperito a’ loro difetti, sarebbe stata inferiore a ogni altra republica. Io non posso negare che la fortuna e la milizia non fossero cagioni dell’imperio romano; ma e’ mi pare bene, che costoro non si avegghino, che, dove è buona milizia, conviene che sia buono ordine, e rade volte anco occorre che non vi sia buona fortuna. Ma vegnamo agli altri particulari di quella città. Io dico che coloro che dannono i tumulti intra i Nobili e la Plebe, mi pare che biasimino quelle cose che furono prima causa del tenere libera Roma; e che considerino più a’ romori ed alle grida che di tali tumulti nascevano, che a’ buoni effetti che quelli partorivano; e che e’ non considerino come e’ sono in ogni republica due umori diversi, quello del popolo, e quello de’ grandi; e come tutte le leggi che si fanno in favore della libertà, nascano dalla disunione loro, come facilmente si può vedere essere seguito in Roma; perché da’ Tarquinii ai Gracchi, che furano più di trecento anni, i tumulti di Roma rade volte partorivano esilio e radissime sangue. Né si possano per tanto, giudicare questi tomulti nocivi, né una republica divisa, che in tanto tempo per le sue differenzie non mandò in esilio più che otto o dieci cittadini, e ne ammazzò pochissimi, e non molti ancora ne condannò in danari. Né si può chiamare in alcun modo con ragione una republica inordinata, dove siano tanti esempli di virtù; perché li buoni esempli nascano dalla buona educazione, la buona educazione, dalle buone leggi; e le buone leggi, da quelli tumulti che molti inconsideratamente dannano: perché, chi esaminerà bene il fine d’essi, non troverrà ch’egli abbiano partorito alcuno esilio o violenza in disfavore del commune bene, ma leggi e ordini in beneficio della publica libertà. E se alcuno dicessi: i modi erano straordinarii, e quasi efferati, vedere il popolo insieme gridare contro al Senato, il Senato contro al Popolo, correre tumultuariamente per le strade, serrare le botteghe, partirsi tutta la plebe di Roma, le quali cose tutte spaventano, non che altro, chi le legge; dico come ogni città debbe avere i suoi modi con i quali il popolo possa sfogare l’ambizione sua, e massime quelle città che nelle cose importanti si vogliono valere del popolo: intra le quali, la città di Roma aveva questo modo, che, quando il popolo voleva ottenere una legge, o e’ faceva alcuna delle predette cose, o e’ non voleva dare il nome per andare alla guerra, tanto che a placarlo bisognava in qualche parte sodisfarli. E i desiderii de’ popoli liberi rade volte sono perniziosi alla libertà, perché e’ nascono, o da essere oppressi, o da suspizione di avere ad essere oppressi. E quando queste opinioni fossero false e’ vi è il rimedio delle concioni, che surga qualche uomo da bene, che, orando, dimostri loro come ei s’ingannano: e li popoli, come dice Tullio, benché siano ignoranti, sono capaci della verità, e facilmente cedano, quando da uomo degno di fede è detto loro il vero.
Debbesi, adunque, più parcamente biasimare il governo romano; e considerare che tanti buoni effetti, quanti uscivano di quella republica, non erano causati se non da ottime cagioni. E se i tumulti furano cagione della creazione de’ Tribuni, meritano somma laude, perché, oltre al dare la parte sua all’amministrazione popolare, furano constituiti per guardia della libertà romana, come nel seguente capitolo si mosterrà.