di JUDITH REVEL.

 

Cara I.,

 

stiamo bene, un po’ fracassati da quello che succede qua, e dal modo in cui la gente reagisce – con un misto di rivendicazione nazionalista crescente (la bandiera, l’identità, la rabbia e l’orgoglio…), di assoluta cecità sulle cause interne ed esterne che hanno prodotto quella generazione di “ragazzi” assassini, e di tremendo narcisismo pseudo-empatico.

E’ forse la cosa che mi ha maggiormente colpita, in particolare sui social network, anche rispetto alla dinamica che era stata quella del “dopo Charlie” a gennaio scorso: passato il primo shock, non si è trattato di capire ma di “sentire”, anzi, di “sentirsi” come una delle vittime, di proiettarsi nel cuore dell’orrore, di manifestarne i segni e il dolore – con tutte le varianti di appropriazione (abbastanza oscena, credo) di lutti, paure, dolori, traumi altrui. Sono circondata da gente (anche amici, anche colleghi, insomma anche persone che dovrebbero per mestiere reagire altrimenti) che, invece di essere duramente sotto shock ma animata dalla voglia di comprendere, riempie le proprie bacheche facebook di “big hugs”, racconti di insonnie, foto di giovani vittime che vengono chiamate per nome come se fossero parenti, analisi dettagliate delle varie ansie provate, messaggi del tipo “vi sono vicini, ce la faremo”, “riusciremo a sopravvivere”, “hanno provato ad ammazzarci ma siamo solo feriti”,  e tutta una variazione di narrazioni del loro stato psicologico, della loro intimità, che mi lascia sgomenta. Gente che non dorme, gente che piange, gente che vomita, gente che ti dice “ma potevo essere là”, o “conosco uno che conosce uno che ha incontrato uno che è morto”. E che non lo fa in nome di una comune umanità di cui si sentirebbe partecipe. Lo fa sul modo dell’appropriazione privata, egotica. Certo che ognuno di noi poteva essere uno di loro. Ma così non è stato, appunto. A noi, proprio per questo, tocca la responsabilità di capire, per fare in modo che altre mattanze di quel genere non possano più accadere. E invece cosa abbiamo? Un’esplosione di narcisismo che prende il massacro come un’occasione di vivere per persona interposta un evento “storico”, e di diventare finalmente eroi della propria vita, di sentirsi paradossalmente qualcuno. Un violentissimo ripiegamento sull’individuale, sull’ego, sul sé. Una volta si diceva “il privato è politico”. Oggi, quell’individualizzazione narcisista è la morte della politica: ognuno vive in un permanente reality show sociale – attore di se stesso e di una vicenda atroce di cui pretende essere protagonista in primis. Da lì, credo, a distanza di quasi una settimana, l’enorme difficoltà di uscire dal registro affettivo e individuale – se non in forme già costituite e immediatamente disponibili: la nazione appunto, o la bandiera o la Marsigliese o il french way of life, ecc.

Ieri, ho visto con T. un film bellissimo (di due anni fa, credo: fu presentato a Cannes) sulle ragazze delle banlieue, sulla loro energia ma anche sulla loro disperazione. Bandes de filles, di Céline Sciamma l’hai per caso visto? Se no, cercalo su internet e guardalo. Poi i discorsi sulla resistenza alla barbarie attraverso la riaffermazione del piacere di vivere (penso agli appelli a stare in terrazzo, a bere, a mangiare, a far l’amore, a divertirsi, a essere leggeri e felici, che si sono moltiplicati in questi giorni) ti sembrano incredibilmente falsi, e anche un po’ schifosi: certo che resistere alla barbarie può significare questo per noi, parigini e parigine “dell’interno”, cioè di una città dove il prezzo al metro quadro si attesta in media sui 10.000 euro, e che abbiamo la possibilità di accedere a quel piacere di vivere di cui gli aperitivi in terrazzo e i concerti rock sono diventati il simbolo. Ma quanto può esserlo per popolazioni intere in cui ogni orizzonte sembra sbarrato? É quello che racconta il film – ed è il film più disperatamente femminista (allegro, energetico, divertente, ma disperato) che io abbia mai visto.

La mia ovviamente non è una ricerca di “scuse”, o di attenuanti per gli assassini, che tali rimangono, e che come tali vanno combattuti. È solo un modo per dire che pretendere curare il male con cataplasmi (ammesso che quei cataplasmi non avvelenino direttamente la democrazia stessa, e che siano legittimi) è ridicolo. Bisogna andare alle radici del male, e una di queste radici è ormai il grado di sofferenza sociale raggiunto da migliaia di persone letteralmente senza più orizzonte, né possibilità di sentirsi vivi. L’abbiamo creata noi, quella situazione, perché ormai sono passati troppi anni: certi (pochi) ragazzi, invece di bruciare macchine come dieci anni fa, ormai scelgono anche altro – fare più male possibile agli “altri”, e autodistruggersi in quel gesto. Quando leggo sotto la penna di qualcuno testi che ci servono la solita manfrina sul suicidio dell’intera società capitalistica ormai arrivata in punto di morte, sulla necropolitica insomma, lo trovo osceno. É osceno proprio perché l’entropizzazione della banlieue, la sua progressiva devastazione, mi sembra impossibile da integrare all’interno di un delirio estetico-nichilistico che fa del suicidio una condizione comune. Roba da vendere ai musei contemporanei, se ci cascano – niente di più. Qui bisogna invece riconoscere che la lacerazione sociale produce (comincia a produrre) quello che abbiamo visto, e patito, venerdì. E si tratta di un problema di classe – ammesso che quel termine possa valere ancora qui: un problema creato dalla compressione sociale estrema, dalla macina durissima che ha rappresentato per interi bacini di quello che era una volta la forza lavoro non qualificata di tipo fordista, per lo più di origine immigrata, il passaggio al capitalismo cognitivo. Si dirà: ma perché non hanno saputo svoltare anche loro? Seguire l’evoluzione interna del mercato del lavoro? Non hanno saputo farlo perché gliene abbiamo – volontariamente, coscientemente – impedito la possibilità – perché abbiamo fatto in modo che la scuola e la formazione, in alcuni “territoires de la République”,  non fossero altro che spazi di contenimento sociale. Oggi il contenimento scoppia. Scoppia ancora sul modo estremamente marginale – ma per quanto tempo?

Scusa lo sfogo, qui è difficile pensare a voce alta in mezzo a tutta questa gente che parla solo di sé.

 

Ti abbraccio forte.

 

J.

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