Di SANDRO MEZZADRA.

Liberté, liberté! È in fondo in questo coro, ritmato da quarantanove profughi e migranti al momento di sbarcare a Lampedusa martedì scorso, che si può cogliere il significato più profondo di quel che è avvenuto in questi giorni attorno alla “Mare Jonio”, la nave di “Mediterranea”. E quel coro ci racconta la trama di quanto accade quotidianamente non solo nel Mediterraneo, ma anche nelle terre attraversate da uomini e donne in fuga prima di giungere alla sponda sud di quel mare: una spinta tanto elementare quanto potente verso la libertà sostiene il movimento delle e dei migranti. Attorno a loro, a contenere quella spinta e spesso a negarla con esiti tragici, agisce un insieme di dispositivi di controllo, da quelli più sofisticati (i radar e le altre tecniche di sorveglianza dello spazio e di intercettazione dei corpi in movimento) a quelli più rudi e violenti: la frusta e gli altri attrezzi di tortura in mano ai sorveglianti nei campi di concentramento libici.

La “Mare Jonio”, la nave oggi bloccata a Lampedusa da un “sequestro probatorio” disposto dalla guardia di finanza e confermato dalla Procura di Agrigento, si è inserita in questo conflitto, ha aperto un varco all’anelito di libertà delle e dei migranti. È un piccolo varco, certo: basti considerare che nelle stesse ore in cui veniva effettuato il salvataggio un altro gommone faceva naufragio nel Mediterraneo centrale, con una trentina di morti o dispersi. È tuttavia un varco importante, che ha salvato quarantanove vite e ha spezzato il circuito infernale su cui prosperano i “trafficanti”: quel circuito per cui i migranti, una volta intrapreso il viaggio attraverso il Mediterraneo, vengono ricondotti a forza dalla cosiddetta Guardia costiera libica nei campi di detenzione, per essere nuovamente messi a disposizione del business del “traffico di esseri umani”. È questo circuito integrato, che si basa su complicità ormai ampiamente documentate negli apparati libici, il vero motore che alimenta gli affari dei trafficanti. E chi lo sostiene, come il governo italiano, è il loro vero complice. Non certo “Mediterranea” o organizzazioni non governative come “Sea Watch” e “Open Arms”, che semmai lavorano per interrompere il circuito e per liberare dai ceppi, tanto letterali quanto metaforici, donne e uomini in fuga.

Uno dei quarantanove migranti salvati dalla “Mare Jonio” ha raccontato di avere tentato per cinque volte la traversata. È questa ostinazione che qualifica la ricerca di libertà che ha come teatro, troppo spesso tragico, il Mediterraneo. Quel coro, Liberté, liberté!, non può allora che interpellarci in profondità. Deve essere messo in risonanza con le piazze che in questo mese di marzo sono tornate a riempirsi per le manifestazioni contro il razzismo, contro il cambiamento climatico, per la libertà delle donne. “Io non spengo nessun motore”, ha risposto il pescatore Pietro Marrone, Comandante della “Mare Jonio” e oggi indagato, alla guardia di finanza che gli intimava di fermare i motori con onde alte due metri che avrebbero messo in pericolo la stabilità della nave. Quelle parole, esempio di dignità e di responsabilità, valgono per noi anche più in generale: contro ogni criminalizzazione, accendiamo e moltiplichiamo i motori della solidarietà, impegniamoci in quell’esercizio collettivo di costruzione delle basi materiali di una nuova libertà a cui ci chiama il coro dei migranti a Lampedusa.

La “Mare Jonio”, si diceva, è attualmente sotto “sequestro probatorio”. La nave è ferma in porto a Lampedusa, impossibilitata a svolgere quelle funzioni di monitoraggio e di salvataggio per cui è attrezzata. Matteo Salvini, evidentemente spiazzato dall’iniziativa di una nave con bandiera italiana e dalla coincidenza del salvataggio di lunedì scorso con il dibattito in Senato sul caso Diciotti, oggi canta vittoria. Celebra un mare desertificato da ogni presenza indipendente, in cui nell’oscurità possono avvenire naufragi e può operare veri e propri respingimenti collettivi la cosiddetta Guardia costiera libica, secondo quanto auspicato dalla direttiva diramata dal suo ministero. La “Mare Jonio”, in queste condizioni, diventa un simbolo di umanità e di libertà, di dignità e di responsabilità. Liberare la “Mare Jonio”, consentirle di accendere nuovamente i motori e di tornare là dove bisogna essere, è oggi la parola d’ordine attorno a cui chiamare alla mobilitazione, a quello che il movimento femminista chiama uno “stato di agitazione permanente”.

Questo articolo è stato pubblicato su il manifesto il 22 marzo 2019.

 

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