di VERÓNICA GAGO.

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Pioveva e faceva freddo, come d’inverno. E tuttavia, segretamente, tutte noi sapevamo che il caldo era troppo forte. Che eravamo lì per riempire le strade, per farle nostre. Perché questa altra temperatura era nei nostri corpi. È dai giorni dell’Incontro Nazionale delle Donne a Rosario, dall’8 al 10 ottobre scorsi, che il fuoco non si spegne, e facciamo tutto quel che è necessario per tenere viva la fiamma. Questa forza si è fatta corpo, è divenuta iniziativa politica dopo l’infame omicidio di Lucía Pérez a Mar del Plata. La scena, i dettagli agghiaccianti della violenza sessuale e dell’omicidio di Lucía dovevano diffondere la minaccia, lasciare senza parole, terrorizzare. Lo sappiamo nella teoria e una volta di più lo verifichiamo nella pratica: la risposta del potere ha la misura delle lotte che punta a spegnere e soffocare.

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E ottobre, il mese della nostra rivoluzione, si avvia a diventare il mese dei record dei femminicidi in Argentina. Non smettono di ripeterlo i media, e non si stancano di domandarci, con un tono che vorrebbero benintenzionato: “non vi pare che da quando sono cominciate le mobilitazioni #NiUnaMenos vi siano più femminicidi?” Questa domanda, che sembra di senso comune e che sentiamo continuamente ripetere, ha in sé una buona dose di veleno: come un ritornello pretende di imputare alla mobilitazione delle donne la crescita delle violenze machiste. È un’altra modalità della minaccia: “guardate che quanto più vi mobilitate, tanto peggio andranno le cose”. E il sotto-testo è chiaro: “più i maschi si arrabbiano più diventano aggressivi e crudeli”. Mentre eravamo a Rosario, hanno assassinato Lucía. Mentre giovedì scorso andavamo all’assemblea che ha deciso lo sciopero, abbiamo saputo di un altro femminicidio nella periferia di Buenos Aires, a Florencio Varela, e il giorno prima due ragazzine erano state aggredite a pochi isolati dal luogo della nostra riunione. Alla vigilia dello sciopero, una donna è stata accoltellata dal suo compagno, per un attacco di “gelosia”, in una piazza di Tucumán. E così via. A questa lugubre successione di morti, lo sciopero e la mobilitazione del 19 ottobre hanno detto: ¡ya basta!

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Ieri abbiamo fatto della nostra forza e del nostro grido le nostre bandiere. Nel corteo si succedevano canti e slogan, ma ciò che faceva vibrare e tremare all’unisono tutti i corpi presenti, e le donne morte e quelle che ci sono state prima di noi e che ci danno forza, era questo grido che si produce percuotendosi la bocca. Un urlo collettivo, un canto di guerra. Un tremore che scuote i corpi e confonde per l’euforia che genera. Ieri tutte noi abbiamo fatto il primo sciopero delle donne nella storia argentina. Abbiamo fermato il Paese per un’ora tutte insieme, ma durante l’intera giornata lo abbiamo fatto in mille modi diversi e collegati. Per tutto il giorno abbiamo resistito a fare qualsiasi cosa che non fosse organizzarci per stare insieme. Del tutto praticamente, siamo andate oltre i confini: ci siamo accorte, in queste ore così intense, che non soltanto stavamo comunicando a livello nazionale, ma che in tutta l’America Latina e in molte altre parti del mondo migliaia di donne si stavano unendo a noi, condividendo la nostra rabbia e il nostro bisogno di mobilitazione.

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Ci possiamo sentire orgogliose per aver reso tangibile e visibile la forza internazionalista che il movimento delle donne non ha smesso di avere fin dalle sue origini. Possiamo sentirci orgogliose per il fatto che le immagini dei leader sindacali che negoziano i termini dell’obbedienza e delle manovre economiche neoliberali ci fanno semplicemente ridere. Possiamo sentirci orgogliose di questa marea moltitudinaria che ci avvolge, ci assorbe e ci restituisce ai nostri luoghi di vita quotidiana con il tatuaggio vivo dell’entusiasmo collettivo. Possiamo sentirci orgogliose di come le amiche si raccontano le scene dell’insubordinazione quotidiana, le voci della rivolta, i mormorii anonimi del giorno in cui abbiamo fermato il mondo e ci siamo incontrate.

Buenos Aires, 20 ottobre 2016
Le foto pubblicate qui sono del collettivo Comunicacion Emergente

 

 

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