di ROBERTA POMPILI
(nel momento in cui pubblichiamo questo nuovo intervento, dopo quello di Carla Panico, sui fatti di Macerata, rinnoviamo l’invito alla partecipazione alla manifestazione antirazzista del 10 febbraio, tanto più dopo l’incredibile tentativo governativo di vietarla e l’ancora più incredibile tentativo di boicottaggio da parte delle dirigenze nazionali di grandi formazioni sindacali e associative della sinistra “storica” italiana – Anpi, Libera, Arci, Cgil -, cui sta rispondendo in queste ore una sempre più estesa ribellione di base. La nostra attenzione punta poi immediatamente verso lo sciopero globale femminista dell’otto marzo, che molte assemblee di NiUnaMenos/NonUnaDiMeno in questi giorni stanno preparando: per molti motivi che anche questo intervento di Roberta fa emergere con forza, l’8M costituisce un dispositivo fondamentale per mandare all’aria il tentativo, così evidente in questi giorni, di calarci addosso una cupa egemonia impastata di razzismo/sessismo/fascismo – EN)
Corpi dissezionati di donne
Cosa collega il ritrovamento macabro di una giovane fatta a pezzi e delle sue membra lasciate sul ciglio di una strada dentro una valigia a Macerata, e quello di donna uccisa e sezionata pochi giorni dopo dal fratello che ha buttato i resti del suo corpo nell’immondizia? Non può di certo sfuggirci come a Ciudad Juarez i corpi delle donne stuprate e massacrate venivano spesso ritrovati cosi, a pezzi, con parti mancanti. Un filo nero lega quei corpi disassemblati alle fabbriche maquiladoras (di assemblaggio) nelle quali le donne lavoravano.
Le mobilitazioni di Non una di meno latinamericana ci hanno raccontato di un aumento di femminicidi e di cadaveri disseminati nello spazio pubblico con l’obbiettivo pedagogico di segnare precisi confini e gerarchie nella società del capitalismo dei flussi. Questi femminicidi e sezionamenti di cadaveri parlano prima di tutto dell’adesione del singolo ad una corporazione di maschi e lanciano nello spazio pubblico dei segnali ad altri maschi. Trattasi di fatto di una guerra, una guerra tra maschi giocata per l’accesso a risorse tanto simboliche, quanto economiche e politiche. Una guerra – la guerra securitaria/identitaria – che produce e riproduce il maschile, le strutture di potere del patriarcato, dentro le forme del para-stato (vigilantes, narcos,… fascisti) e dello stato-nazione stesso. La guerra si nutre delle immagini dei media mainstream, immagini violente a cui tutti i giorni siamo sottoposti e che ci abituano, modellano, assoggettano, producendo una sorta di narcolessia del linguaggio empatico.
Assemblaggi
La volta definitiva che mi sono resa conto che un modello lineare era evidentemente inefficace per analizzare identità e cultura ero seduta al parco su una panchina, insieme ad altre due madri che guardavano i propri ragazzi giocare. Fin qui niente di eccezionale, se non che una della due madri era ecuadoriana, come del resto il figlio, e a un tratto la conversazione prese una piega strana. La madre italiana si lamentava della presenza in città dei “migranti” fastidiosi e pericolosi. Mentre questa lamentatio proseguiva non notavo nella donna ecuadoriana, assistente ad anziani da oltre venti anni, il minimo fastidio. Le due signore, dopo una amabile conversazione si salutavano affettuosamente.
Lavoro in questo periodo come insegnante in una scuola professionale e, dopo i fatti di Macerata, ho proposto dei momenti di discussione in due classi maschili.
Difficile rendere conto di questa esperienza scolastica che, che come nota Fisher, si situa a cavallo tra il modello disciplinare e il nuovo modello del controllo. Perennemente immersi in un flusso di consumo perpetuo e a distribuzione continua, gli alunni delle mie classi giocano con i cellulari e mangiano incessantemente snack. Il mondo con cui hanno a che fare è un mondo prevalentemente di immagini, prima ancora che di parole e scritti.
Dopo una vivace discussione in una classe, l’attenzione si focalizza presto sui media: “quelli la’ (quelli che appoggiano Traini) vedono solo la televisione , non sentono e vedono altro.”
Le immagini che girano nel web e che ritraggono il fascista Traini dopo la sparatoria che ha ferito 6 migranti sono immagini significative: l’uomo viene fotografato in Caserma con la bandiera italiana sulle spalle. Il ritratto compassionevole del “cittadino italiano” esasperato.
Come tessere di un puzzle o di un mosaico il mainstream mediatico-politico offre alcune immagini efficaci per produrre, modellare gli assemblaggi della soggettività identitaria contemporanea. Oltre le figure stereotipate del ladro, dello spacciatore, dell’aderente alla baby-gang, la figura del “rifugiato” è di recente entrata nella narrazione tossica del circo mediatico come topos atto a suscitare emozioni e sentimenti contrastanti. In un’altra classe specificano, “non ce l’ho con X (compagno di classe che proviene dal Congo), suo padre lavora! Ce l’ho con i rifugiati”, “li dobbiamo mantenere noi”, “gli danno 30 euro al giorno per non fare niente, stessero a casa loro”.
Quando entro in classe oggi, i ragazzi mi mostrano dal cellulare il video diventato virale del fascista che spara dalla macchina, se lo girano e ridono. Per la “meme-generazione”, potrebbe presto contendere il posto nella hit alle immagini di combattimenti di cani e alle scene della boxe che alcuni osservano spesso.
Di là dallo specchio del cittadino/lavoratore.
Ma cosa hanno in comune le figure astratte negative evocate dalla ideologia della guerra securitaria/identitaria? Dentro i confini dello “stato legale” potremmo dire che esse incarnano l’essenza stessa di quella che comunemente viene intesa come l’improduttività.
In altri termini, come uno specchio, le figure dell’alterità di questa guerra si costruiscono in contrapposizione alla immagine integra, quanto puramente ideologica, del cittadino lavoratore (maschio) dello stato nazione.
Le stesse immagini evocate di un passato “italiano” migrante, tendono a produrre nelle retoriche una dualità con le migrazioni contemporanee; contribuiscono di fatto a “rifondare” la patria a partire dal recupero della mitologia di un’epopea fordista-nazionalista, forgiata sull’immagine del “lavoratore italiano”, il padre di famiglia dalle mani incallite (produttivo).
Il cerchio è perfetto, il corollario si chiude. Lo stato nazione è chiuso a doppia mandata dalla ideologia del lavoro. Fuori sono gli altri/altre di volta in volta e all’occorrenza definite/i improduttivi, nella migliore delle ipotesi bisognose/i di cure, interventi umanitari e diritti umani, nella peggiore soggetti pericolosi da sottoporre da galera ed espatrio.
La figura di questo mitologico lavoratore di fatto non ha nulla a che fare con la forza-lavoro contemporanea, con la centralità stessa della produzione/riproduzione delle condizioni di vita di tutte e tutti, stanziali e migranti.
Nessun antifascismo efficace si costruirà se non a partire dalla rottura di questa ideologia e dalla costruzione di nuovi assemblaggi, nuovi assemblaggi che ricostruiscano un “noi” della forza-lavoro, stanziale e mobile.