di UGO ROSSI.
SEMINARIO LE PIATTAFORME DEL CAPITALE, MILANO, MACAO, 3-4 MARZO
Vorrei partire da un libro di recente uscita intitolato The Complacent Class: The Self-Defeating Quest for the American Dream (New York, 2017) scritto da Tyler Cowen, un economista mainstream di orientamento conservatore (nel libro simpatizza apertamente con l’amministrazione Reagan degli anni Ottanta), noto per animare uno dei blog di economia più letti negli Stati Uniti. Nel libro l’autore sostiene che la società statunitense, e in particolare il suo ceto medio, ha perduto il dinamismo e la smania per il cambiamento (la restlessness) che la ha animata fin dalla fondazione della nazione americana. Gli statunitensi non si muovono più come un tempo da uno stato all’altro in cerca di migliori opportunità di realizzazione personale, come hanno fatto fino agli anni Settanta del Novecento, a differenza degli europei visceralmente legati alla propria città natale; non cambiano lavoro come un tempo e hanno smarrito lo spirito imprenditoriale che li caratterizzava: a dispetto della retorica sul tema, il numero di imprese start-up – fa notare Cowen – è in costante diminuzione negli Stati Uniti, perfino nel decantato tech sector, il settore tecnologico che ha fatto parlare del tech boom 2.0 negli anni successivi alla “grande recessione”, dal 2010 a oggi.
L’autore manca di offrire un’analisi di perché ciò sia avvenuto. Il suo saggio, in linea con la tradizionale vena moraleggiante degli economisti conservatori, non offre soluzioni di public policy ai problemi di immobilità sociale che mette in evidenza, ma finisce per l’appunto con lanciare una strigliata morale alla nazione americana, colpevole di crogiolarsi in un apparente benessere dove in realtà sotto le ceneri covano sentimenti di frustrazione e risentimento sociale portati alla luce dall’elezione di Donald Trump.
In un articolo apparso in The Atlantic nel novembre 2015 (in era pre-Trump dunque) intitolato “Why the Economic Fates of America’s Cities Diverged” (Perché i destini delle città americane hanno iniziato a divergere) Phillip Longmann ha offerto un’accurata riflessione sulle cause dei crescenti divari regionali, in termini di distribuzione della ricchezza e del reddito, negli Stati Uniti: secondo lui, tali divari sono da attribuire alla mancanza di una politica di riequilibrio territoriale come quella che aveva orientato la politica economica federale nei decenni post-bellici, nell’era pre-neoliberale. I divari regionali sono ben evidenziati dai differenziali nei prezzi delle case tra le varie città. L’elite di città che si sono poste alla testa del technology boom post-recessione hanno visto un’impennata dei prezzi (San Francisco, New York, Boston, Washington, Seattle, in parte Chicago e Los Angeles), mentre quelle che sono rimaste ai margini o del tutto escluse da tale fenomeno (ossia la stragrande maggioranza dei centri urbani americani) hanno avuto mercati immobiliari stagnanti. Queste ultime oggi attirano coloro che non possono più permettersi di vivere nelle città investite dal boom tecnologico. Per la prima volta – Longmann fa notare – gli americani si muovono non più alla ricerca di migliori opportunità di lavoro (cioè di più elevati salari) ma di un luogo più affordable, con più bassi costi della vita, anche se ciò comporta mettere da parte le proprie aspirazioni di mobilità sociale.
Tale fenomeno riflette la dinamica ben illustrata da Michael Hardt e Antonio Negri in Commonwealth: i real estate values, ossia i prezzi immobiliari, sono direttamente proporzionali all’attrattività dei luoghi, in termini di esternalità positive (concentrazione di imprese e università innovative, governi dinamici, servizi efficienti etc.) come le chiamano gli economisti. È quel che abbiamo sotto gli occhi anche qui a Milano, la città italiana dove si osserva meglio il fenomeno della gentrification: l’ad di Starbucks ne ha tessuto nei giorni scorsi le lodi come “città modello”, nel motivare la scelta di aprire la prima sede in Italia della famosa catena di caffetterie.
In queste città d’elite si concentrano le imprese tecnologiche start-up, le comunità di pratiche innovative (i cosiddetti “imprenditori urbani” di nuova generazione: dai citymakers ai fablab), oltreché i servizi rari per le imprese, come avevano mostrato i primi analisti delle città globali già negli anni Novanta (da Saskia Sassen a Peter Taylor). Nel resto dei centri urbani, si tira avanti, si raccolgono le briciole, covando quella “politica del risentimento” che vediamo esemplificata nell’esplosione del fenomeno del nazional-populismo nelle sue diverse manifestazioni: dai 5 Stelle a Brexit e a Trump. Alcuni teorici della sinistra, come Jodi Dean, autrice di The Communist Horizon, giungono a sostenere l’idea che la sinistra debba smettere di guardare alle grandi città trendy, dove la politica alternativa si è ridotta a pratiche fondamentalmente borghesi come la cura degli orti urbani e la filosofia del cibo a km zero, e debba concentrarsi invece sui piccoli centri, quelli rimasti ai margini dello sviluppo economico, dove appunto si alimenta il rancore sociale. Ma a livello politico è realistica l’indicazione di Dean? Sempre a proposito degli Stati Uniti c’è un bel libro della politologa Katherine Cramer The Politics of Resentment: Rural Consciousness in Wisconsin and the Rise of Scott Walker (Chicago, 2016) che esplora la cultura del risentimento sociale nelle aree rurali e suburbane del Wisconsin, alla base dell’ascesa del governatore ultra conservatore Scott Walker, dove i repubblicani hanno tradizionalmente una presenza egemonica. È realistico pensare che la sinistra ricominci da questi territori? La spettacolare Women’s March del gennaio scorso ha in realtà mostrato la potenza delle città per quella che Andy Merrifield ha chiamato “politics of encounter”, la crowd politics, la politica della moltitudine diciamo noi che ha avuto nel 2011 il suo momento più alto e che la marcia delle donne ha riportato all’attualità.
Detto questo, vorrei tornare sul punto principale: perché una ristretta elite di città e grandi centri urbani svolge tale ruolo di catalizzatore del progetto di “imprenditorializzazione della società e del sé”, già intuito da Michel Foucault, rappresentato dal fenomeno del tech boom di imprese start-up di cui si diceva e dal connesso fenomeno della sharing economy ufficiale per cui tutti diventiamo un po’ imprenditori di noi stessi (anche se non lo siamo ufficialmente)? Certamente esistono i fattori immateriali di cui si diceva prima: l’attrattività della location, per dirla in breve. Ma se vogliamo sfuggire a un’analisi meramente socio-culturale del fenomeno, vale a dire basata sui comportamenti e sulle preferenze individuali del consumatore o del lavoratore, che si avvita su se stessa e alla fine asseconda la politica neoliberale dominante, come quella offerta da Richard Florida nel famoso The Rise of the Creative Class (secondo il quale la classe creativa sceglie di vivere nei centri urbani più tolleranti e culturalmente predisposti verso minoranze, talenti e tecnologia), allora dobbiamo volgere il nostro sguardo per l’appunto al platform capitalism di cui si parla nel convegno. Come ha ben illustrato Nick Srniceck nel suo libro recente sul tema (Cambridge, 2016), il movente essenziale delle imprese capitalistiche di piattaforma è la raccolta di ingenti masse di dati. Le grandi città e aree metropolitane, e in particolare i centri urbani divenuti egemoni nell’immaginario collettivo, funzionano da “laboratori viventi” (living labs) per le imprese chiave della nostra economia: per “i nuovi profeti del capitale”, come li ha chiamati Nicole Aschoff, che parlano da filantropi mentre fanno affari nel nome del “bene comune”.
Per questa ragione, Microsoft e Google approdano nelle favelas di Rio de Janeiro, affermando di voler far emergere il talento imprenditoriale oggi soffocato dalla povertà, distribuendo smartphone agli abitanti e digitalizzando la vita urbana. Per la stessa ragione, Amazon oggi utilizza Seattle per testare i gusti dei consumatori in previsione di una sua esplorazione di nuovi sbocchi di mercato, nel campo del cibo e dell’abbigliamento. Ma lo stesso fanno le imprese start-up. Ne ho avuto conferma recentemente intervistando il rappresentante italiano di un’impresa start-up francese operante nel campo della mobilità urbana, impegnata ormai da vari anni nell’internet of things, ossia nel rendere connessi gli oggetti alle persone per monitorare i loro spostamenti e le loro forme di vita: “non ci interessano i piccoli centri, ci interessano le grandi città, le metropoli affollate di persone”, ha dichiarato. È nelle grandi città che i “profeti del capitale” così come le start up emergenti ritrovano le forme di vita in comune da cui traggono linfa essenziale per il proprio business, oltreché in molti casi l’ambiente istituzionale, sociale e culturale che consente loro di svilupparsi e costruire la propria narrazione di “felicità”.
Il platform capitalism e i collegati fenomeni della smart city e della start-up city in tal senso offrono potente dimostrazione del passaggio, segnalato da Gilles Deleuze poco prima della sua morte, alla scala urbana da una società disciplinare, fondata su meccanismi centralizzati come i “grandi eventi” e i “grandi progetti” (la recente crisi economica e politica brasiliana, all’indomani di Olimpiadi e Mondiali, è una prova della crisi del “mega-evento” come propulsore di sviluppo economico), a una società del controllo fondata sulla dispersione dei meccanismi di coinvolgimento sociale e valorizzazione, ma oggi tenuta insieme dalla rendita del comando capitalistico, in particolare da quello che qui chiamiamo “capitalismo delle piattaforme”.