di SANDRO CHIGNOLA.
1. La crisi non è mai, politicamente, un momento risolutivo: essa innesca processi di ricomposizione sul lato dei poteri, e negli ultimi due anni la cosa si è fatta particolarmente evidente. L’uso che della crisi è stato fatto, in Italia e in Europa, è stato costituente di nuovi equilibri, dei quali ancora non tutto è chiaro, né può esserlo – ma forse qualcosa è possibile dire. In primo luogo, che la crisi è stata gestita in modo molto efficace dalla Germania. Quella che abbiamo davanti come effetto della riorganizzazione dei poteri nella crisi è, di fatto, un’Europa tedesca, poiché alcuni dei risultati più evidenti delle politiche monetarie orientate dalla Troika sono stati l’incremento delle esportazioni e il rafforzamento dell’economia della Germania, il potenziamento, trattato in termini di pure funzionalità tecniche, del ruolo politico della stessa, il “commissariamento”, ormai senza infingimenti, non solo dei governi nazionali dei Pigs e della Francia, ma dell’intero processo istituzionale della UE. Ulrich Beck ha definito questo tipo di azione, che ha colto le opportunità della crisi, un Merkiavellismo: connubio di ortodossia dello Stato nazionale e architettura dell’Europa, arte dell’esitazione e del rinvio come strategia di disciplinamento per le aree dell’UE a rischio default, primato delle preoccupazioni elettorali nazionali e cultura tedesca della stabilità, come costellazione di un reciproco rafforzamento di fattori. In secondo luogo, la crisi ha fatto evaporare il «giuridicismo» costituente della fase dei trattati e la possibilità del suo uso progressista. Di qui in avanti, qualsiasi discorso democratico-radicale (per noi la questione è risolta dal principio…) non può prescindere da questo dato, mi sembra: di diritto e di diritti – per lo meno quelli traducibili in istanze rivolte alla (e codificabili sulla base delle sentenze della) Corte di giustizia europea è meglio parlare con un po’ di cautela. Lo stesso per le virtù del proceduralismo: il diritto non è mai stato una lingua franca, così come politica ed economia sono sempre state l’una il rovescio dell’altra. Opporre, in nome della democratizzazione possibile, diritto e potere, diritto europeo e diritto nazionale, Stato e mercato, economia e finanza, è idea priva di senso – e, da un punto di vista politico, profondamente sbagliata. Mi sembra si debba decisamente prendere congedo dal lessico che ha animato il ciclo no global: una società civile da opporre al potere non c’è. Piuttosto, c’è da analizzare l’innesto di tecnologie giuridiche in profondità sui rapporti societari come mezzo per la loro scomposizione e riconfigurazione ai fini della valorizzazione capitalistica e di mercato. Nondimeno, dobbiamo posizionare tutte le nostre energie politiche e insorgenti nel campo dell’Europa, perché il quadro della crisi ha scavato meglio della più abile delle talpe sotto il suolo delle costituzioni nazionali. Qualsiasi campagna e qualsiasi dato di programma non potranno essere posizionati o essere ricavati che nella rottura, e dalla rottura del quadro novecentesco. Parlare di difesa del Welfare, del lavoro, della formazione, senza mettere a tema ed assumere questo punto di soglia è perfettamente inutile, mi sembra, del tutto perdente.
2. Il processo costituente europeo a guida tedesca è un processo all’interno del quale i sindacati (forse non tutti, ma quelli “tradizionali” di certo) svolgono un ruolo di blocco. E non tanto, non solo, per il loro arrocco in difesa degli interessi di segmenti della forza lavoro fordista nazionale: è l’impasto perverso tra finanza e “blocchi nazionali”, che essi tutelano a rendere impossibile, se non attraverso frontiere e meccanismi di traduzione ad alta vischiosità, l’innesco di dinamiche effettivamente europee di trasformazione del Welfare. I sindacati difendono interessi – e cioè: statiche e rendite di posizione, perimetri accerchiati nello smantellamento neoliberale dei compromessi novecenteschi – e partecipano con i fondi pensione e le cooperative che controllano ai flussi globali della valorizzazione finanziaria. Lo spazio e il tempo in cui quest’ultimi si muovono non sono “lisci”: lavorano esattamente sulla connessione e sulla sconnessione tra mercato mondiale e mercati nazionali, disegnano aree intermedie e zone speciali. I sindacati vigilano, e non esattamente in difesa di interessi di classe, sui punti di snodo di questa s/connessione.
E non solo. Essi agiscono talvolta attivamente, in chiave contro-insorgente, contro processi di soggettivazione che mettano in discussione quella differenza tra pubblico e privato, nazionale ed europeo, società e Stato, che rappresenta la ragione sociale non solo della loro esistenza, ma la leva che essi possono agire per continuare a lucrare rendite finanziarie e di posizione. Sul terreno della logistica, ad esempio, questo dato è assolutamente evidente. Dislocazione degli hubs, gerarchizzazione della forza lavoro con la messa a valore della differenza tra lavoratori nazionali e extracomunitari, partecipazione agli appalti delle imprese multinazionali con le proprie cooperative caratterizzano un uso perfettamente coerente di quel ruolo di vigilanza. Certo, i processi ai quali alludo non sono segnati o fissati in modo univoco: nuove funzioni di sindacato sociale si vanno organizzando, dentro e fuori le formule classiche, anche quelle dello stesso sindacalismo di base, proprio sul terreno della logistica o della migrazione. Contraddizioni, su questo terreno, percorrono lo stesso Deutscher Gewerkschaftsbund e trasformazioni significative dovranno essere affrontate per uscire dall’impasse che segna il blocco dell’iniziativa sindacale, ad esempio in Italia. Un blocco determinato, tra gli altri fattori, dalla difficoltà a posizionarsi rispetto a processi che, nella crisi e nella sua fuoriuscita neoliberale, spaccano il soggetto e destrutturano l’universale della cittadinanza: da un lato il rientro dal debito che premia la finanza e redistribuisce unilateralmente la ricchezza sociale, dall’altro lo smantellamento del Welfare e la privatizzazione dei servizi. Stiamo sull’onda lunga di quanto accadde con la crisi fiscale della città di New York e dell’occasione che essa segnò per impiantare le politiche neoliberali. E questa situazione alimenta populismi e reazioni identitarie. Un sindacalismo nuovo, europeo, dovrà essere reinventato a quest’altezza.
3. Dobbiamo divenire-europei, nel senso in cui Deleuze e Guattari parlano del divenire nero, donna o gay. Non soltanto, cioè, dobbiamo avviare linee di fuga dal Novecento – tutto il Novecento, compresi i suoi tardi legati centrosocialisti -, ma dobbiamo continuare a muoverci, se vogliamo riposizionarci nell’immanenza dei processi per mezzo dei quali si vanno riconfigurando le strutture della governance europea, in direzione di qualcosa che sfida, prima ancora di quest’ultima, il nostro modo di pensarci e di vivere le nostre identità. Divenire-europei significa avviare un processo di trasformazione radicale delle nostre forme di vita; significa decentrarci dalla norma per la quale siamo militant@ italian@, di un certo territorio, di una certa tendenza, deterritorializzare la nostra posizione e le nostre battaglie, agire come una macchina da guerra in grado di risignificare continuamente lo spazio europeo. Divenire-europei significa non soltanto assumere l’Europa come campo di battaglia: significa soprattutto striare continuamente di processi di soggettivazione lo spazio che i processi di finanziarizzazione dell’economia ricompongono come spazi della moneta, tracciandoli di traiettorie eccedenti e di dinamiche autonome. Si tratta di produrre contropoteri fissati in una territorialità altra: non semplicemente transnazionale, ma effettivamente debordante i confini e le identità, radicata nella materialità del comune e contrapposta, come incitamento costante e come limite invalicabile per esso, al potere della Banca centrale europea e del Fondo monetario internazionale. Divenire-europei significa, io credo, imporre da posizioni di forza, perché definitivamente sottratte al ricatto che demoltiplica il comando per mezzo della leva residua dei bilanci nazionali dei singoli Stati, politiche costituenti altre: altre grammatiche e altre sintassi politiche in grado di tradurre e di ridefinire continuamente, nella materialità della prassi e senza alcun riferimento trascendentale, forme e contenuti, teorie e pratiche, del comune.
4. Divenire-europei significa indirizzare senza mediazioni la prassi che soggettiva e che costituisce il comune contro i poteri finanziari territorializzati in Europa – e cioè: decentrandola radicalmente da qualsiasi baricentro intermedio, si tratti di territori, comuni, nazioni, spazi tutti attraversati e ridescritti dai tracciati globali ed europei del governo della crisi. Significa prendere definitivamente congedo dal quadro di concetti e categorie dello Stato nazionale moderno (comprese le costituzioni, le politiche di bilancio, i servizi “pubblici”) per imporre alla Troika una rete di contropoteri in grado di riappropriare beni e servizi reinventandone, oltre la crisi, le forme di gestione collettiva. Si tratta di scrivere dal basso della cooperazione l’agenda costituente del nuovo Welfare del comune, di far saltare assieme le convenzioni monetarie e le linee del loro scorrimento giuridico. Degiuridicizzare l’agenda del comune significa non soltanto operare il salto di scala necessario a imporre un’autonomia costituente in grado di eccedere la pretensività del diritto, ma organizzare reti di contropotere installate sulla materialità delle prassi riappropriative (in tema di servizi, mobilità, formazione) come fuoco soggettivo interno all’ellisse che descrive la prassi di governo. Divenire-europei non significa difendere o descrivere una cittadinanza transnazionale, ma esautorare i quadri della cittadinanza per come l’abbiamo conosciuta: praticare tracciati ad un tempo decostituenti e costituenti, aperti ed inclusivi solo in quanto capaci di potenziarsi fluidificando i rapporti e le pratiche alle quali si applicano.
Ci troviamo in un’impasse, un momento di pausa e di arresto che può preludere all’innesco di una ripetizione, di un arretramento segnate dall’includere le proprie aspettative nella falsa alternativa tra l’Europa com’è e il populismo che la rifiuta. Oppure essa può preludere all’innesco di una linea di fuga irrecuperabile – quella linea di fuga che impone un nuovo tempo e un nuovo spazio: nuove partizioni e nuove istituzioni.