di SANDRO MEZZADRA e DIEGO SZTULWARK.*

Le recenti elezioni in Bolivia, Uruguay e Brasile sembrano ratificare –per lo meno nel breve periodo- la continuità di un modello di sviluppo e di conquiste sociali che, trovando la propria origine nel ciclo di lotte contro il neoliberalismo degli anni ’90, non hanno perso legittimità e, prevedibilmente, non possono essere facilmente ignorate. Partendo da questo contesto, ci chiediamo: che cosa è in gioco, dunque, nella presente congiuntura?

Ci sembra che in questione siano l’interpretazione e il tipo di articolazione politica che si vogliono dare alle trasformazioni sociali verificatesi nell’ultimo lungo decennio nella regione. All’interno di questo conflitto, operano i discorsi razzisti e classisti che mirano a rafforzare le frontiere interne, facendo pressione sull’immaginario collettivo e sulle politiche pubbliche e puntando a imporre un approccio punitivo centrato sulla sicurezza; a riaffermare lo spazio nazionale come spazio internamente gerarchizzato, anche attraverso un rilancio di retoriche nazionaliste.

Purtroppo i governi “progressisti” non sono affatto immuni a queste offensive, né agiscono sempre in maniera efficace per contenerle. È facilmente verificabile, ad esempio, come la persistente violenza nelle favelas sia rimossa (quando non direttamente incentivata) dall’agenda neo-sviluppista del Brasile; altrettanto plateale è il trattamento razzista e classista che lo Stato argentino applica ai giovani dei quartieri periferici e alle occupazioni di terra (la attuale criminalizzazione dei migranti poveri non è che un nuovo capitolo di una lunga sequenza).

Un primo elemento di bilancio sui tentativi regionali di costruire un processo “post-neoliberale” in America del Sud indica che lo sforzo si è concentrato soprattutto sul livello dello Stato, dando per scontato che il neoliberalismo equivale ai mercati deregolamentati. La volontà politica così costituita ha plasmato il suo ideale neo-sviluppista aprendo importanti dibattiti ed elaborando rilevanti riforme senza la capacità, tuttavia, di invertire le caratteristiche di un neoliberalismo che persiste tanto nei suoi caratteri strutturali (egemonia della finanza; concentrazione della terra) quanto nella sua riproduzione “dal basso”. La forma “impresa” e le regole della concorrenza continuano a organizzare la gestione concreta dell’esistenza in ambiti sociali di decisiva importanza.

Effettivamente, la volontà politica che ha agito, a partire dallo Stato, in accordo con la crescita economica e la compensazione delle disuguaglianze, non è riuscita a superare le grandi disuguaglianze sociali, né a sovvertire le rigide gerarchie di carattere strutturale. Ciò ci porta a sottolineare un decisivo sfasamento tra questa volontà politico-statale e il potenziale politico generato a partire dalle insurrezioni e rivolte che si sono intensificate durante gli anni ’90 in molti Paesi della regione. Sono state queste lotte a decretare la crisi dell’egemonia politica del neoliberalismo, rafforzando e dando visibilità a un insieme plurale di soggetti precedentemente “esclusi” dallo spazio pubblico: lavoratori, contadini, poveri, indigeni. Un processo di appropriazione “plebea” si è allora esteso nello spazio pubblico (evidente e persistente soprattutto nella Bolivia di Evo Morales). Queste presenze hanno forzato, con il sorgere dei governi “progressisti” e di un complesso sistema di riconoscimenti di tali governi verso questi soggetti, l’apertura di un nuovo processo di integrazione regionale.

E tuttavia i limiti del modello di inclusione sociale proposto dai governi progressisti hanno finito per compromettere la stessa capacità di radicalizzare i processi di democratizzazione “plebea”. Nei fatti, l’integrazione attraverso i consumi e il progetto di creazione di una nuova “classe media” non hanno consentito di affrontare in maniera efficace la violenza strutturale connaturata al neo-sviluppismo, e al “neo-estrattivismo” (ovvero all’intensificazione delle attività estrattive minerarie e rurali) che ne costituisce la base materiale: questa violenza è anzi sistematicamente negata dai governi “progressisti”. E questa violenza è diventata così un carattere costitutivo – e negato – della cittadinanza “progressista”, dando luogo a nuovi conflitti sociali nei quali lo stesso ruolo dello Stato si trova in disputa.

Di fronte all’ipotesi di uno scenario di stabilizzazione (modello neo-sviluppista, consenso conservatore) ottenuto attraverso l’intervento degli stessi governi “progressisti” è possibile immaginare che le conquiste dei movimenti dell’ultimo decennio possano funzionare come base a partire dalla quale riaprire la produttività politica di un nuovo ciclo, caratterizzato un circolo virtuoso tra politica e movimenti? O dobbiamo considerare questo ciclo come già esaurito? Ancora una volta, si tratta di valutare il ruolo dello Stato. Il ciclo latinoamericano, come si vede anche dalle difficoltà che stanno incontrando i governi di Venezuela ed Ecuador, mostra che anche quando lo stato può giocare un ruolo positivo nella costruzione di alternative, in  nessun caso si può confidare in esso come attore strategico esclusivo. E questo perché i processi di trasformazione tendono a esaurirsi in una sterile centralità statale quando non si riescono a produrre modalità di articolazione che possano attivarsi a partire dall’emergenza di nuovi soggetti con logiche non stato-centriche e a partire dalla configurazione di uno spazio politico regionale in grado di agire oltre la dimensione nazionale. Effettivamente, solo a partire da una peculiare sensibilità geopolitica è oggi possibile farsi carico in modo originale e produttivo della circostanza, particolarmente evidente in America Latina, per cui le grandi sfide globali sono a tutti gli effetti elementi costitutivi delle dinamiche interne della regione.

Se è certamente vero che lo scenario latinoamericano si è stabilizzato nonostante la continuità del ciclo politico dei governi “progressisti”, possiamo pensare in maniera differente il legame tra il ciclo politico e il modello di sviluppo in corso? Abbiamo già fatto menzione della violenza classista e razzista associata a questo modello di sviluppo. Quel che è certo è che l’emergenza di nuovi conflitti sociali e territoriali pone sfide fondamentali alle tendenze democratiche che si sono attivate nell’ultimo decennio. Questa conflittualità di nuovo tipo ha del resto in sé un aspetto essenzialmente reazionario, dato che l’azione al suo interno di una serie di attori (legali e “illegali”, dalle polizie ai narcos) costituisce la via pratica attraverso cui si subordina la rivolta “plebea” che ha rappresentato il motore delle lotte contro il neoliberalismo. Questa situazione ci costringe a immaginare in altro modo, in un modo più radicale, ciò che si intende con “inclusione sociale”. Quello a cui pensiamo, ad esempio, è la possibilità di rilanciare la vitalità collettiva intorno a nuclei di economia “informale” e di autoimprenditorialità, al lavoro precario e alle lotte per l’accesso alla terra e l’abitare “degno”: liberati dal dispositivo costituito dalla sequenza “modello di consumo-industria a basso costo-economia neo-estrattiva”, questi soggetti potrebbero costituire il perno di una coalizione di forze in grado di dare impulso a nuove dinamiche sociali e politiche.

Tuttavia questa coalizione non è immaginabile se non a partire dall’insieme di esperienze e di lotte che si fanno carico quotidianamente del compito strategico della produzione di una nuova soggettività. Si tratta di esperienze radicate nella potenza sensuale costruita dalle lotte assai più di quanto non ruotino attorno al potere celeste e alla sua rappresentazione pontificale. Ci riferiamo alla produzione di modi di vita che caratterizza le lotte attorno alla salute, all’educazione e ai diritti umani. È questa produzione di modi di vita che può fornire una materialità positiva alla costruzione di reti di cura e autodifesa in quartieri e territori sempre più attraversati dalla violenza. Per quanto in modi diversi, queste esperienze sono presenti in tutta la regione latinoamericana: considerate nel loro insieme, sono queste le pratiche che possono resistere efficacemente ai tentativi di stabilizzazione e aprire, come già stanno facendo, nuove possibilità politiche.

Lungi dall’attardarsi a guardare indietro, attendendo risposte dal protagonismo dei movimenti di inizio secolo, come se niente di importante fosse cambiato in questo lungo decennio latinoamericano, vale la pena piuttosto di sottolineare che la base materiale costruita da quei movimenti continua a essere la condizione di una nuova produttività politica e di nuove immagini di sviluppo.

*Trad. it. Maura Brighenti

Una versione molto più ampia e articolata di questo articolo si può leggere in spagnolo ai seguenti indirizzi web:

https://www.euronomade.info/?p=3604

http://anarquiacoronada.blogspot.com.ar/2014/11/anatomia-politica-de-la-coyuntura.html

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