di ALBERTO MANCONI.
Pubblichiamo la prima parte del testo scritto da Alberto Manconi per l’antologia sui Big Data curata da Daniele Gambetta ⇒ Datacrazia. Il testo integrale può essere scaricato in pdf ⇒ qui. Questo testo introduce una sezione finale del libro, Strategie dei corpi-macchina, curata dallo stesso Manconi, nel quale si fa riferimento al testo Reti di terza generazione per la democrazia del XXI secolo: l’esperienza di ‘Decidim’ a Barcellona, tradotto in italiano su DinamoPress qui.
Prendere parola come traduzione
In merito alle novità che attraversano i movimenti sociali e la politica nell’era dei big data, credo che in Spagna – e particolarmente a Barcellona – si siano espresse alcune tra le più interessanti esperienze di ricerca e attivismo a livello europeo, se non addirittura globale. Per questa ragione, ho deciso di tradurre due scritti che sono stati per me significativi nella comprensione di tale contesto. Nel territorio spagnolo – che più avanti chiameremo “laboratorio” – si è espressa negli ultimi anni una notevole e dinamica attività di organizzazione sociale e politica, il cui punto chiave sono certamente le manifestazioni di quel 15 Maggio 2011 da cui prende il nome l’intero movimento di occupazione delle piazze dei mesi successivi, 15-M (conosciuto come “movimento degli indignados” in Italia). La preparazione e l’organizzazione di quelle manifestazioni, così come gli sviluppi successivi dei movimenti e delle forze politiche in qualche modo connesse con quelli eventi, registrano un chiaro vincolo con l’utilizzo strategico delle nuove tecnologie. Questo utilizzo, che prende il nome di tecnopolitica, fa da sfondo comune ai due testi tradotti, dove si analizzano esperienze – certo molto diverse tra loro – caratterizzate secondo una inedita forma di azione sociale e politica che si muove nelle nuove capacità macchiniche.
Con il presente testo, provo quindi a discutere e commentare i dibattiti politici in cui i due scritti si inseriscono. Per farlo, ho deciso di partire da alcuni problemi posti dalla traduzione stessa che mi sono sembrati indicativi di questioni più ampie.
All’inizio di ogni paragrafo ho quindi posto una “questione di traduzione”, nella quale sottolineo, di volta in volta, una parola che risulta importante nel contesto politico dove emerge, ma che non trova una esatta corrispondenza nella lingua italiana. L’attenzione è così rivolta al significato politico che tali discordanze comportano, più che alla ricerca di una traduzione ottimale; esercizio quest’ultimo che, oltre a non essere nelle mie corde, è di difficile applicazione al di fuori delle situazioni concrete in cui le parole in oggetto agitano e muovono ciò che le circonda.
«C’è sempre un elemento di attrito, di resistenza del contesto materiale – di quelle che Gramsci chiama le “situazioni concrete particolari” – nella traduzione: e sono proprio questi elementi di attrito e di resistenza, quelli su cui bisogna concentrarsi politicamente»1.
1. Dalla crisi della rappresentanza al collasso della rappresentazione
Questione di traduzione: Representación
Nella traduzione italiana di questo termine, quando applicato in ambito sociale e politico – soprattutto in riferimento ai sistemi partitici e sindacali – si utilizza “rappresentanza”. Questa, tuttavia, nella sua accezione specifica, non trova corrispondenti nella lingua spagnola, al pari delle altre principali lingue europee come inglese, francese e tedesco. In esse non esiste la “rappresentanza”, ma viene concepita come forma specifica della “rappresentazione”.
Parlare di “crisi della rappresentanza”, come fanno i testi qui tradotti e come avviene da decenni nel dibattito politico, significa dunque – da altre prospettive linguistiche – parlare di una crisi ben più generale di quella dello specifico istituto moderno di mediazione sociale e politica?
La rappresentanza è stata forzosamente sovrapposta al concetto di democrazia, fino a rendere le due identiche nella costruzione moderna della democrazia liberale rappresentativa2. La rottura3 di questa giustapposizione è oggi sancita e visibile, ma si tratta di qualcosa di più profondo del semplice invecchiamento del meccanismo di decisione attraverso la delega. È una crisi che coinvolge a tutto tondo il «potere inscritto nelle nostre menti»4 e riguarda quindi, oltre il sistema politico istituzionale, la stessa rappresentazione intesa come produzione di senso nella “relazione tra cose, segni e concetti”5. La crisi della rappresentanza va quindi intesa come la declinazione specificatamente politica della complessiva crisi di senso che le rappresentazioni consolidate subiscono nel dispiegarsi della società in rete.
I testi tradotti narrano esperienze che configurano a mio avviso delle possibili “linee di fuga” da questa crisi, in quanto alternative all’altezza della realtà tecnologica che viviamo. È ancora possibile immaginare metodi per decidere insieme sulle nostre vite, senza delegare tutto ad un “uomo forte” o ad un algoritmo sconosciuto?
Quali codici sono possibili, infine, per costruire una nuova democrazia nel “collasso caotico dell’ordine politico”6 che viviamo?
Oltre Utopia e Apocalisse
Nell’era dei big data, vediamo le due più generali prospettive sul mondo, utopica e apocalittica, rafforzarsi reciprocamente, al punto che queste investono in maniera dirompente il campo politico. In particolare, però, questo campo è attraversato da secoli da una diatriba che vedeva già applicare le due opposte visioni al concetto di opinione pubblica e quindi a quello, sempre più collegato, di rappresentanza.
Lo sviluppo dell’opinione pubblica, che è stato ricostruito da Habermas7 come cruciale per la strutturazione della politica moderna, è giocato in una tensione costante tra l’imporsi come inevitabile mediazione e il rivelarsi manipolazione delle masse.
Nutrita dal binomio di mediazione e manipolazione, l’idea di rappresentanza si è forgiata e imposta come contrappeso del carattere democratico8, fino a pretendere di coprire e comprendere la stessa idea moderna di democrazia.
L’utopia e l’apocalisse non sono altro che proiezioni riduttive volte a coprire l’inadeguatezza della stessa impalcatura politica dello Stato moderno. Infatti, di fronte al cambio di paradigma oggi intervenuto in ambito soggettivo, sociale, economico e tecnologico, i pilastri della democrazia liberale nazionale quali la sovranità, l’opinione pubblica nazionale e soprattutto la rappresentanza, si sgretolano.
Si apre così davanti a noi un largo campo di battaglia che è popolato da piattaforme arricchite di qualsiasi tipo di (nostra) informazione, estrapolate e processate da potenti macchine. Questo campo di battaglia, in cui risultiamo volenti o nolenti immersi, seppur apparentemente indifesi, è adombrato da descrizioni utopiche e apocalittiche che giustificano indirettamente la pretesa di tornare alla pomposità delle vecchie strutture dello Stato. Ciò su cui più fa presa tale “ritorno” è probabilmente la legittimazione che un tempo derivava dal sistema di rappresentanza, e dall’immagine (o rappresentazione) della società che esso riusciva a (far credere di) restituire correttamente.
La sua legittimazione politica, inscritta nel meccanismo di decisione generale stabilita attraverso una delega individuale periodica e duratura, è oggi impensabile nel caos di preferenze continue e dati personali in cui navighiamo.
Cercare il senso nel caos
La relazione tra politica e dati, cioè l’enorme quantità di segni prodotti e incamerati negli spazi virtuali, è sempre più complessa, ma risulta al tempo stesso innegabile, palese.
Dobbiamo realizzare innanzitutto che la previsione e manipolazione del significato attribuito agli eventi mediatici da parte di un forte attore (politico, economico, mediatico, quale differenza ormai?) è oggi non solo tecnicamente possibile, ma quotidianamente praticata attraverso l’analisi di quei dati o segni.
Di questo vi è un chiaro esempio: la concreta possibilità di una manipolazione nelle elezioni che hanno reso Donald Trump presidente degli Stati Uniti. Gli stessi ambigui dibattiti globali su post-verità e fake news, non parlano in fondo di questa costante manipolazione quotidiana, che solo in maniera episodica può emergere nel campo elettorale?
Nel campo elettorale si evidenzia infatti, con tragica e ironica semplicità, l’inadeguatezza al sistema-rete da parte del modello politico che si suppone vigente, cioè della democrazia liberale rappresentativa. Questa si mostra oggi come un software politico per il quale ci troviamo privi di aggiornamenti disponibili, un’applicazione ormai del tutto vulnerabile agli attacchi di chi dispone delle (enormi) risorse economiche, mediatiche e tecnologiche necessarie.
In questo senso, il ritorno di fiamma del populismo9, può risultare come la capacità di hackerare la democrazia liberale, irrompendo con elementi apparentemente nuovi in questa vulnerabile applicazione, senza doverne seguire il percorso canonico.
Tali attacchi portati avanti dal populismo, volti al “ritorno allo Stato”, appaiono come operazioni superficiali, esteriori, che anche quando riescono a sostituire gli attori e le parole chiave della politica, non possono modificarne i codici e la struttura di base. Seguendo la metafora, l’hacking prodotto dal populismo sembra un semplice defacing provocatorio, mentre la macchina sociale, ormai ben diversa dal vecchio hardware dello Stato-nazione, funziona a regime.
La manipolazione è all’ordine del giorno come strumento nella disputa quotidiana sul senso politico attribuito agli eventi mediatici, tanto da parte degli attori chiamati populisti quanto da quelli indicati, all’opposto, come tecnocratici.
La coppia populisti/tecnocratici esprime una politica fondata sul nemico10, edulcorato e racchiuso con la rappresentanza in avversario11. Nel momento in cui cade la speciale funzione di mediazione della rappresentanza, questa, svuotata, esaspera il suo carattere manipolatorio, volto alla cattura delle emozioni, del riconoscimento, delle identità.
Possiamo trovare esempi pratici di come l’intero meccanismo elettorale metta in mostra sulle reti sociali la perdita di senso della propria funzione di mediazione.
Se guardiamo all’utilizzo massiccio dei bot nelle reti sociali più accreditate per la discussione pubblica [cfr. qui], a cui ricorre ormai qualunque partito politico su Twitter, o al semplice acquisto di migliaia di like fasulli su Facebook.
Bisogna notare che queste operazioni – sempre più centrali nella permanente campagna elettorale odierna – non puntano, come nella classica propaganda, a suggerire esplicitamente cosa si dovrebbe pensare, ma forniscono piuttosto rappresentazioni distorte e arbitrarie di cosa pensino gli altri, o meglio di cosa pensa la rete.
Emerge così l’importanza che le reti sociali assumono nella quotidiana (guerra sulla) costruzione di una rappresentazione della società. Questa è sempre più frutto della auto-comunicazione di massa12, ma qui si insinuano anche, con dissimulazioni sempre più sofisticate, attori con enormi risorse e strategie oscure volte a imporre la loro informazione, analizzando, processando e catturando la nostra comunicazione.
Il collasso della rappresentazione produce così un doppio moto: verso l’alto, il potere tenta con degli stratagemmi di ristabilire una informazione gerarchica unidirezionale, manipolando le reti sociali private, solo apparentemente orizzontali. Allarga lo spazio della sovranità, e vuole un’opinione pubblica globale che lo legittimi, per dirla come Habermas.
Verso il basso, però, la comunicazione è autonoma e potente, non si lascia comprimere13. Per quanto studiata e monitorata costantemente e in ogni suo segno ridotto a mero dato, la previsione può sempre rivelarsi fallace. Infatti, una rete, per quanto rappresentata e visualizzata alla perfezione, può sempre incorrere in un elemento nuovo che ne riconfigura le relazioni. La comunicazione molti-a-molti è organizzazione nel, e del, caos.
Decidere senza delegare
Nel collasso della rappresentazione si inserisce la crisi della democrazia liberale a cui ci riferivamo, e del suo principale istituto tecnico-politico di mediazione: la rappresentanza. Con la crisi delle strutture di inter-mediazione, la comunicazione dal basso contende direttamente il terreno della decisione, presunto attributo della ufficiale informazione dall’alto.
Ma se la decisione è contesa in modo diretto, dove va a finire la mediazione?
Ad oggi il processo di costruzione di significato si scopre ipermediato dall’interazione costante con le macchine in rete. D’altra parte, però, la rappresentazione formulata attraverso la rete risulta diretta e attiva per i soggetti coinvolti, che mettono in discussione tutti gli istituti tradizionali di mediazione che favorivano la costruzione del senso comune nazionale. Dai mezzi di comunicazione di massa alle ufficiali rappresentanze sociali e politiche, arrivando fino alla stessa struttura linguistico-grammaticale ortodossa14, tutte le categorie canoniche e condivise con cui era pensata la società appaiono contestate in maniera sempre crescente nella loro presunta univocità.
Le forme di mediazione, dunque, non spariscono ma sono sempre più effimere e istantanee, perché soggette a continue contestazioni, incorporate nei funzionamenti delle macchine.
Tutto ciò significa che la delega un tempo attribuita a persone fisiche scelte con il voto deve essere oggi attribuita agli algoritmi secondo cui agiscono le macchine in rete?
No, perché questo ci riporta a una forma utopica e tecnocratica di legittimazione della decisione. D’altra parte, però, quanto detto sopra a proposito del populismo ci aiuta a ricordare che, se nessuna delega a un algoritmo imposto dall’alto ci permette di riappropriarci della decisione, allo stesso modo nessun isolato salvatore della patria si potrà appropriare in modo duraturo della legittimità di decidere. Siamo circondati da profeti15, ma nessuno di questi può riuscire a restaurare davvero la rappresentanza, e con essa la vecchia legittima decisione liberal-democratica.
Per imporre dal basso una decisione realmente democratica, qualsiasi effimera mediazione (o leadership temporanea), non può che emergere come tattica di un assemblaggio macchinico, che costruisce direttamente e in comune i propri algoritmi. I testi provenienti dal “laboratorio spagnolo” che ho tradotto, sono a mio avviso esperimenti di dirottamento degli algoritmi dominanti e costruzione di nuovi.
Dato che gli algoritmi non possono essere slegati da assemblaggi sociali più ampi, la loro materializzazione all’interno del red stack implica il dirottamento delle tecnologie dei social network, l’invenzione di nuovi tipi di plug-in, la costruzione di nuove piattaforme attraverso un abile bricolage delle tecnologie esistenti e l’invenzione di nuove tecnologie16.
Sandro Mezzadra, Leggere Gramsci oggi, in Orizzonti Meridiani, Briganti o Emigranti, Ombre Corte, Verona 2014, p. 34. ↩
M. Hardt, A. Negri, Moltitudine, Rizzoli, Milano 2004. ↩
M. Castells, Ruptura, Alianza Editorial, Barcelona 2017 + link con grafi e dati in merito alla crisi di rappresentanza e rappresentazione qui. ↩
M. Castells, Potere e Comunicazione, EGEA, Milano 2009. ↩
S. Hall (ed.), Representation, SAGE, London 1997 p. 19 trad. mia. ↩
M. Castells, Ruptura, Alianza Editorial, Barcelona 2017. ↩
J. Habermas, Storia e critica dell’Opinione Pubblica, Laterza, Bari 2005 ↩
M. Hardt, A. Negri, Moltitudine, Rizzoli, Milano 2004. ↩
Senza voler banalizzare il dibattito serio e le concettualizzazioni utili, credo che il dibattito mediatico sul populismo abbia impedito qualsiasi tipo di definizione sistematica, per questo mi riferisco al termine solo metaforicamente. ↩
C. Schmitt, Il concetto di “politico”, in C. Schmitt, Le categorie del politico, il Mulino, Bologna 2013. ↩
I. Errejon, C. Mouffe, Construir pueblo, Icaria Editorial, Barcelona 2015. ↩
M. Castells, Potere e Comunicazione, EGEA, Milano 2009. ↩
A. Negri, Comunicazione ed “esercizio del comune” in Posse, Insorgenze della comunicazione, Manifestolibri Roma 2015. ↩
In proposito abbiamo scritto, insieme al curatore di questa raccolta, su Euronomade (e una versione ridotta apparsa sul Manifesto) qui. ↩
A. Illuminati, Populisti e profeti, Manifestolibri, Roma 2017. ↩