di GENNARO ASCIONE e FRANCESCO FESTA.
Il calcio, scriveva Pasolini, è lo spettacolo che ha sostituito il teatro. E tuttavia lo spazio-tempo di questo spettacolo, nella contemporaneità mediatizzata di una delle industrie globali maggiormente redditizie, è ben più esteso della singola partita di calcio. È ben più interstiziale dei palcoscenici delimitati dagli stadi o dagli schermi sempre più piatti di tv e pc. Sulla scorta degli studi gramsciani sul folklore e la cultura popolare, il calcio appare uno degli specchi su cui si riflette il senso comune. Oltremodo, il calcio diviene un moltiplicatore della rappresentatività poiché attiva sia il piano simbolico che il piano affettivo, tanto da diventare un fatto sociale complesso. Ad esempio, l’investimento emotivo, sociale e politico è tanto impegnativo quanto elevata è la ricompensa simbolica ed elevato lo spazio di visibilità: l’attenzione dei mezzi di comunicazione è alta e la possibilità di un messaggio politico diviene esclusiva.
Non si tratta di un rapporto tra ciò che è visibile e ciò che sta dietro le quinte. Si tratta piuttosto di ciò che pur essendo visibile, o anche vissuto (sempre più di rado “la domenica alle tre”), viene costantemente manipolato e più spesso reinventato per mezzo della ripetizione ossessiva di mantra allucinatori che producono, infine, ipostatizzazioni ontologiche della ridondanza: effetti di verità.
Forniamo dunque una lettura di alcuni mutamenti della cultura popolare italiana, di alcune trasformazioni in cui si riverberano discorsi quali l’immigrazione come “problema”, il razzismo per nulla strisciante e le pratiche dell’orientalismo come supplementi necessari, in tempo di crisi, per il funzionamento di dispositivi di cattura quali il lavoro, la famiglia e, non in ultimo, la cultura nazional-popolare.
Succede che poco prima di una finale di Coppa Italia, giocata a Roma, ma senza la Roma in campo, un tifoso del Napoli, Ciro Esposito, viene ucciso da un proiettile esploso da una pistola (con matricola abrasa) brandita da un tifoso della Roma, Daniele De Santis (aka Gastone), munito di guanti benché sotto il cielo di una (quasi) estate italiana. Il tutto nel corso della colluttazione che segue l’agguato messo in atto da quest’ultimo insieme ad altri, tra cui alcuni laziali, come si scoprirà quasi immediatamente.
Cosa ci sta a cuore discutere? Cosa è possibile o lecito tentare di comprendere di fronte al lutto, qualificare di fronte all’indecifrabile e spiegare di fronte all’ingiustificabile? Qual è il problema, o uno dei problemi, che questi fatti pongono? E quali sono gli elementi essenziali (e quelli secondari) di questo problema? Proviamo ad astrarre. Prendiamo atto, cioè, che, come intuì Marx, nell’analisi dei fenomeni sociali “non possono servire né il microscopio né i reagenti chimici; l’uno e gli altri debbono essere sostituiti dalla forza di astrazione”.1 Scontri tra facinorosi? Rivalità tra opposte tifoserie? Follia? Premeditazione? Difesa personale? Cani sciolti? Teppisti? Oppure tragica fatalità? Ciascuna possibile interpretazione si legittima in base a ciò che ognuno intende comprendere, certo. Infatti, a nostro avviso, la vicenda criminale rimanda a una questione interpretativa altrettanto dirimente: il problema che ci sta a cuore consiste nel mettere a nudo quali sono le condizioni, storicamente determinate, che fanno da cornice a questa vicenda. Cosa ci dice questo episodio tragico sulla contemporaneità in cui viviamo, e moriamo?
Curve a destra
A tal proposito, ci appare ben più rilevante l’appartenenza di De Santis alla destra neofascista della capitale che non la sua appartenenza alla tifoseria romanista; e non perché sottovalutiamo la coesistenza di queste due circostanze, ma perché, come appare dalla breve ma già intensa storia processuale di cui De Santis è protagonista, fatta di ferite comparse come stimmate e di prodezze balistiche, è questa affiliazione ideologica (e non quella al tifo organizzato) a fornire indizi maggiormente significativi per rispondere al nostro quesito. Tanto più che, va ribadito, Ciro Esposito non apparteneva ad alcun gruppo ultras.
Vale la pena soffermarsi schematicamente su alcuni elementi che lasciano supporre che almeno negli ultimi due decenni, se non qualche anno prima, si sia assistito al tentativo, in parte riuscito, di fascistizzazione delle curve da parte delle destre nazifasciste in alcune città italiane. Valerio Marchi ha perfettamente ricostruito il processo di neutralizzazione delle culture ultras “di sinistra”, la loro stigmatizzazione attraverso gli stereotipi del “fascismo istintuale”, come presupposto per la successiva fascistizzazione delle curve. Da una parte, è stato l’effetto della “sconfitta del ’77, delle stagioni degli sfondamenti ai concerti, delle autoriduzioni, delle riappropriazione delle merci”; e dall’altra è stata la reazione verso l’atteggiamento di collettivi e organizzazione di movimento, nonché di quei settori della società, che più alzavano la critica nei confronti di un sistema-calcio autoritario e capitalista, che andavano al contempo relegando l’ultras e i gruppi del tifo organizzato, per lo più di sinistra e figli della generazione che aveva messo in “discussione il principio di autorità in famiglia, nella scuola, nell’università, nella fabbrica”, tra le categorie del “puro teppismo”, archiviati tra gli stereotipi delle forme conflittuali impolitiche delle classi subalterne, in una sorta di propensione verso il cosiddetto “fascismo istintuale”: “machismo, gusto della violenza, xenofobia, logica del più forte”2. Un luogo comune che, tuttavia, ha preparato la strada per la successiva fascistizzazione anche di curve storicamente “rosse”. Negli anni Novanta, la nuova destra e le varie formazioni leghiste operano direttamente sulle frange più giovani, che cercano di farsi strada ad onta delle vecchie guardie. Così si genera una vera confusione ideologica e il rapporto amico-nemico viene ridefinito in base a criteri di affinità politica che attraversano longitudinalmente molte tifoserie (il caso del gemellaggio “nero”, interisti-laziali-veronesi); allo stesso modo, nelle curve compaiono svastiche e croci celtiche.
La stagione 1994-95 è il punto di svolta. E non solo perché la triade Moggi-Giraudo-Bettega assume la dirigenza della Juventus. Il 21 novembre 1994, partita Brescia-Roma, tifosi romanisti e laziali coalizzati e guidati da Maurizio Boccacci, ex leader di Movimento Politico Occidentale, peraltro di fede interista, accoltellano il vicequestore Giovanni Selmin, lo scopo era quello di dimostrare agli ambienti neofascisti romani il nuovo riferimento organizzativo; il 29 gennaio 1995, l’uccisione di Claudio Spagnolo, “Spagna”, in occasione della partita Genoa-Milan. “Spagna” era un ultras della Fossa dei Grifoni, un rube boys, un redskin, attivista del Centro Sociale Zapata, venne accoltellato prima della partita da un piccolo gruppo di tifosi milanisti. Entrambi gli episodi presentano caratteristiche simili: lo smarrimento della unitarietà e la perdita di egemonia dei grandi gruppi e dei vecchi leader della curva. Sia nella curva romanista che in quella milanista si assiste al proliferare di piccoli gruppi che operano in maniera autonoma, secondo logiche occasionali e spesso imprevedibili. In quella milanista, vi è un gruppo di giovani di destra (conosciuto col nome di Barbour Group, per via della caratteristica giacca) che vorrebbe entrare a far parte delle Brigate Rossonere 2: una nuova formazione ultras, nata dalla scissione di uno dei maggiori gruppi milanisti, le Brigate Rossonere appunto. In quella romanista, è presente già da qualche anno un gruppo di estrema destra, l’Opposta Fazione, nato da una scissione dello storico Commando Ultrà Curva Sud, che tenta di contenderne l’egemonia in curva. In entrambi gli episodi si ha chiara la sensazione che dietro l’azione spettacolare si cerchi di imporre una diversa mentalità ultras: una mentalità estremamente politicizzata e autonoma dalle gerarchie vigenti in curva. A Genova, “Spagna” affronta il diciottenne Simone Barbaglia a mani nude – secondo la logica ultras – il ragazzo gli risponde piantandogli un coltello vicino al cuore; Claudio morirà poco dopo all’ospedale. Invece, a Brescia, la logica amico/nemico, cioè la storica ostilità tra laziali e romanisti lascia posto all’affinità ideologica: così laziali e romanisti agiscono per una ragione puramente politica.
Una settimana dopo la morte di “Spagna”, in un raduno nazionale a Genova, i gruppi ultras d’Italia rendono esplicite le profonde differenze che li caratterizzano. In particolare una: quelli, moltissimi, apertamente xenofobi e di orientamento nazifascista; mentre altri, molti meno, apertamente contrari a questa tendenza. L’incontro produce una severa autocritica, un comunicato sottoscritto dalla maggior parte dei presenti, dal titolo, “Basta lame basta infami”. Un riconoscimento della crisi in atto all’interno del mondo ultras e la riscrittura di codici e regole, “tradizionali”, che considerano “infame”, ossia fuori dal movimento ultras, non solo chi tradisce il compagno o il suo gruppo, ma anche chi non rispetta le regole.
Ma queste regole, o meglio il tentativo di codificarle come condivise, ha vita breve. Dopo qualche anno, proprio gli accordi presi durante l’incontro genovese vengono rinnegati da molti rappresentanti delle generazioni cresciute tra le curve e le sedi neofasciste. In particolare, le curve romane, dove si ridefiniscono la ritualità e i valori dell’essere ultras: una trasformazione alimentata con soldi provenienti dalla destra nazifascista (Forza Nuova, Fiamma Tricolore e più recentemente Casa Pound, Militia e il sottobosco di cultura nazifascista con epicentro Roma e provincia), il cui esito è l’allontanamento dalla balaustra centrale, con successiva estinzione, del Commando Ultrà Curva Sud, nato nel gennaio del 1977. Nella seconda metà degli anni Novanta, il gruppo vive un declino lento ma costante e non riesce più a far presa sulle nuove leve che, invece, trovano sempre più affinità verso la cultura di destra e, soprattutto, verso una mentalità ultras dal carattere elitario, che rifiuta ogni contatto con gli altri gruppi, colpevoli di avere tradito gli ideali ultras. Così la curva Sud si frammenta in un mosaico di gruppi a seconda dell’ideologia politica, fioriscono croci celtiche, svastiche e striscioni evocativi del cambio di rotta, come “Tradizione e distinzione”. Finché, in occasione di Roma-Inter, prima casalinga del campionato 1999-2000, si verifica il cambio della guardia, l’idea della “pulizia etnica” che già da qualche stagione girava in curva: la cacciata a suon di bastoni dalla “balconata” centrale del CUCS.
Simultaneamente, le società di calcio impongono i loro interessi imprenditoriali: la “sacrosanta” domenica del pallone viene sacrificata sull’altare dei diritti televisivi, le partite vengono giocate il sabato, il lunedì e quando la pay-tv comanda. La sfera economica impone la normalizzazione degli stadi: né cori, né striscioni, nessuna coreografia che possa turbare l’accumulazione dei profitti televisivi. A tale “ordine” si associano un innalzamento della presenza delle forze dell’ordine e una progressiva criminalizzazione del movimento ultras che passa per tentativi più o meno maldestri come la tessera del tifoso e il blocco delle “trasferte a rischio”. Benvenuti nel calcio moderno.
Fascismo, colonialismo e capitalismo nella metropoli contemporanea
E tuttavia, la sovrapposizione tra sentimenti fascistoidi condivisi o alimentati da una parte del tifo organizzato e le attività di organizzazioni neofasciste vere e proprie al di fuori degli stadi è tutt’altro che automatica. I due spazi, pur non essendo affatto estranei l’uno all’altro, vivono di forme di coesione ben distinte. In due articoli apparsi su“l’Espresso” poco tempo fa, Lirio Abbate ricostruisce la rete di rapporti tra gruppi neofascisti, criminalità e gruppi affaristici e di potere politico della capitale.3 In questa rete, spunta anche il nome di De Santis.
Ragioniamo per assurdo, e solo in minima parte mossi dalla passione per i gialli irrisolti cui la storia d’Italia ci educa fin da quando si era fanciulli e si sognava una maglia e un pallon’. Ipotizziamo che questa rete di contatti di cui De Santis fa parte possa avere un certo peso in ipotetici tentativi più o meno ben congegnati di “coprire” Gastone. Come se, per chissà quale assurda logica, la derubricazione dei reati ascritti a quest’ultimo potesse servire da merce di scambio per il suo silenzio circa altri fatti di cui ipoteticamente potrebbe essere a conoscenza. E supponiamo anche che questi stessi fatti, una volta subodorati en passant, potrebbero addirittura finire con lo stuzzicare l’indomita immaginazione di inquirenti anch’essi appassionati di gialli, questa volta per deformazione professionale, però. Quali fatti? Non ci è dato saperlo con certezza. Negli stessi articoli testé menzionati, e che hanno costretto Lirio Abbate a essere messo sotto scorta dopo ripetute minacce di ritorsioni, però, si racconta di come diversi gruppi neofascisti di Roma formerebbero un hub cruciale nella logistica globale del mercato della droga, gestendo un giro di affari enorme. Non solo. Le medesime formazioni sarebbero intrecciate ad alcuni settori dell’alta finanza (in cui compare il Gennaro Mokbel dello scandalo Fastweb; sì, proprio quello che “Fioravanti e Mambro, li ha tirati fuori lui”) coinvolti in maxi-operazioni di riciclaggio su scala planetaria, il che renderebbe questi gruppi neofascisti parte di un network affaristico che non può prescindere da relazioni politiche potenti e connivenze a più livelli con servizi segreti deviati, nonché con membri delle forze dell’ordine. Congetture, queste, che, pur nella loro palese arbitrarietà, potrebbero perfino non sorprendere alcuni tra gli amanti più smaliziati del succitato genere letterario, come pure, più banalmente, gli assidui lettori delle pagine di cronaca dei quotidiani, cartacei e non. Il quadro che ne emerge è che l’ideologia fascista farebbe da collante culturale trai diversi livelli gerarchici dell’organizzazione, nella misura in cui produrrebbe un senso di appartenenza tra i suoi membri, garantendo un considerevole grado di coesione interna; un modello di socializzazione criminogena in grado finanche di competere, per efficienza, con i gangli dell’ormai tradizionale affiliazione mafiosa e camorristica.
Eppure, non basta. A noi pare che la recrudescenza dei fascismi oggi non rimanga circoscritta al codice interno a organizzazioni criminali emergenti (o forse mai sommerse, anzi già piuttosto emerse e molto spesso riemerse); lì, come altrove, il profitto regna sovrano. Abbiamo invece il sentore che tale recrudescenza tenti di muoversi pericolosamente in direzione del senso comune; che offra altresì parole d’ordine, percezioni e stereotipi pronti all’uso, in tutti quei contesti di disagio sociale e malcontento civile in cui le scorciatoie e la rabbia hanno il sopravvento sulla comprensione dei fenomeni reali. Del resto, il fascismo, storicamente, è sempre stato in grado di codificare il malessere orientandolo verso un nemico definito sulla base dell’appartenenza etnica, nazionale, religiosa, di genere, di orientamento sessuale o di classe. E la cifra di questo codice resta la legittimazione della violenza bieca, sotto forme molteplici. Pensiamo alle vicende di Tor Sapienza, che s’inseriscono in un più ampio quadro di strumentalizzazione della questione dei migranti, dei campi Rom e delle strutture di accoglienza in diverse città d’Italia. Pensiamo ai frequenti agguati ai clochard o alle aggressioni pubbliche agli omosessuali, che si registrano proprio in questi giorni.
Da una serie di attività di monitoraggio circa la situazione tanto di Roma Est, quanto di altre “periferie” peraltro, emerge uno scenario di tensioni “etniche” che, pur nella loro instabile configurazione, non sembrerebbero particolarmente nuove, se non per alcuni sensibili cambiamenti nella percezione che, nella comunità di residenti “nativi” per così dire, si manifestano circa la presenza di altre comunità nello stesso territorio. Una parte della cosiddetta cittadinanza attiva si mobilita su istanze xenofobe, celate dietro la ben nota formula “non sono razzista ma…”.
Esiste un nesso tra questi fenomeni che sembrano interpellarsi reciprocamente? Può darsi. O quanto meno è possibile tentarne una lettura comune. A noi pare che si rendano evidenti alcune trasformazioni sociali che non si spiegano al di fuori della fitta rete di dispositivi di potere che intreccia le evoluzioni dei fascismi, la matrice coloniale che ne legittima l’ideologia sul piano del senso comune, i processi di accumulazione di capitale su diversa scala che attraversano gli spazi della metropoli contemporanea. In una fase storica di poderoso riassetto della distribuzione di risorse e di rapida polarizzazione della ricchezza, sia su scala planetaria, sia in ciascun contesto sociale e psico-politico, storicamente determinato.
La metropoli contemporanea, in altri termini, è quello spazio sociale in cui si costituiscono e si moltiplicano confini alquanto porosi, tanto da organizzare lo spazio stesso – la metropoli e i quartieri – determinandone rapporti sociali altamente gerarchizzati; lo spazio dove la linea del colore o anche le formazioni discorsive, il dispositivo dell’orientalismo, le rappresentazioni e i cliché producono differenze nel cul-de-sac dell’impoverimento generalizzato. Dunque, non ci vuole molto a raccattare dal web informazioni e dati da spiattellare in faccia al “partito della nazione” da un lato e, dall’altro, a quello di Salvini e CasaPound4, mostrando che i migranti non ci rubano il lavoro, così come gli immobili non sono regalati ai rom, anzi, come i migranti siano forza lavoro indispensabile per la produzione capitalistica in Europa. Mentre sul management delle povertà specula proprio quella borghesia proprietaria, storicamente affezionata ai sistemi autoritari di addomesticamento della conflittualità sociale. Piuttosto, la difficoltà è mettere mano all’armadio del senso comune e della cultura nazional-popolare, della storia italiana e della colonizzazione europea, all’interno del quale le stratificazioni di polvere sedimentano fino a far muro. La cittadinanza così come la formazione dello stato-nazione in Italia si sono affermati in concomitanza con l’esperienza coloniale europea. E dunque, quella stessa cultura italiana egemone non intende fare pienamente i conti con il proprio progetto imperialista, la propria genesi coloniale, così come con il proprio (non pienamente) passato fascista, se non liquidandoli nel discorso pubblico tra i cliché di “italiani brava gente” e, sistematicamente, depurandoli dalla ideologia razzista.
Basta rileggere il discorso pubblico attraverso i testi scolastici, rimasticati per lo più da Renzo De Felice e i suoi allievi, per comprendere come l’educazione nazional-popolare abbia nascosto o depurato sia il colonialismo sia il razzismo dalla storia e dell’identità nazionali. Difficilmente vedremo affrontare il Risorgimento e l’Unità d’Italia all’interno di quella congiuntura coloniale europea; la “guerra al Brigante”, invece, viene rubricata come passatismo, piuttosto che complessificarne la portata sociale; il razzismo lombrosiano su meridionali, slavi e devianti è addirittura oggetto museale; l’“avventura coloniale” tra Otto e Novecento, i massacri di civili con i gas tossici in Libia negli anni Trenta sono addirittura degne di ricevere un mausoleo in memoria dell’autore, il colonnello Graziani. E ancora, il “non si affitta ai meridionali”, degli anni Cinquanta e Sessanta diventa folklore per la divulgazione di storia narrata alla tv come consumo culturale da dopo pasto, da Paolo Mieli e Giampaolo Pansa. Proprio mentre, oggi, la razzializzazione dei migranti e dei rom da problema reale assurge, deformato, a tema dell’agenda politica da immettere in approssimative macchine del consenso, con la fermezza del bastone e la moralità cristiana della carota.
Senza soluzione di continuità, come qualsiasi costruzione identitaria, la storia italiana necessita, in quanto “italiana”, di violenti processi di costruzione dell’alterità; alterità utile per esercitare il dominio, scaricare l’ansietà etnica punitiva, le paranoie e le fobie razziali collettive. Qui, come altrove, la linea del colore continua a fornire le coordinate entro cui il modo eurocentrico di produzione delle gerarchie tra gruppi umani trasforma, nello spazio urbano, la differenza in alterità irriconciliabile, traducendo la storia del colonialismo e dei fenomeni migratori a esso consustanziali, in rapporti di forza naturalizzati. L’inferiorità viene così saldata di volta in volta alla genetica, o alla cultura, alla razza, all’etnia o alla religione. Mentre l’odio xenofobo dipinge l’allontanamento delle comunità di migranti dal territorio circoscritto del proprio vissuto quotidiano come parte della soluzione di problemi di varia natura, confusi in una commistione di disagi che vanno dalla precarizzazione del lavoro, alla criminalità, alla vivibilità degli spazi comuni.
Al di là di ogni retorica legata al multiculturalismo, le comunità di migranti sono una parte fondamentale del tessuto economico e del processo di estrazione e di accumulazione capitalistica di quelle stesse zone metropolitane, non soltanto dal punto di vista della produzione e dello scambio, ma anche della rendita. Non soltanto in quanto manodopera sottopagata e spesso senza alcuna garanzia, nell’edilizia, nella ristorazione, nei servizi, nella produzione domestica di reddito non monetario; non soltanto perché terminali di assemblaggi globali nella distribuzione di merci all’ingrosso e al dettaglio; ma perché alla condizione di migrante, insieme ad altre forme di costante precarizzazione, molto spesso si associano violente speculazioni immobiliari che garantiscono massicce rendite, altrimenti irrealizzabili per i proprietari locatori di molti quartieri. Anzi, il mercato nero degli affitti è una delle attività più redditizie, per quanto difficilmente quantificabile in modo esaustivo, nella metropoli contemporanea.
Fascismo e odio xenofobo appartengono a una medesima matrice coloniale del potere che opera a più livelli e garantisce la riproduzione delle gerarchie di ordine razziale e non solo. Fascismo e odio xenofobo ne sono il volto apertamente violento e indolente. La dimensione razziale del processo di estrazione del valore svolge una funzione regolativa essenziale nel processo di circolazione allargata nel capitalismo contemporaneo. La violenza fascista che legittima aggressioni fisiche e verbali, la gerarchia razzista di ordine coloniale e di scala globale, lo sfruttamento biopolitico delle esistenze, si saldano in una singola matrice in grado di spingersi ben al di là degli ambiti formalizzati della prevaricazione, della discriminazione, dello sfruttamento: questa matrice fascista, coloniale e capitalistica del potere raggiunge quegli ambiti non formalizzati del processo di produzione e/o di estrazione del valore che i confini porosi della cittadinanza non sono in grado di ordinare. Il nesso tra capitalismo, fascismo e colonialismo oggi codifica lo spazio informale della metropoli come ampia e articolata tecnologia di governamentalità, in senso letterale di simbiosi tra i dispositivi di governance e le mentalità.
E questo nesso è costituente, coestensivo e intrinseco rispetto a quegli spazi del processo di accumulazione che si articolano invece in termini di attività produttiva formalizzata, speculativa o finanziaria. Più precisamente, lo spaziotempo delle cosiddette periferie della metropoli non è disgiunto dallo spaziotempo ineffabile del capitale finanziario: il mercato della droga, ad esempio, ne è un vettore multiscalare, così come pure, nella scia della crisi del 2008, lo è il mercato immobiliare in cui si assiste sempre di più a una concentrazione della proprietà nelle mani di attori che diminuiscono in numero ma aumentano in estensione e potere di creare scarsità artificiale in funzione dell’aumento dei saggi marginali di profitto. Questa stessa configurazione concreta del potere, fascista, coloniale e capitalista, è il segno di una trasformazione in atto, proprio perché dotata di una flessibilità tale da prestarsi a stigmatizzazioni di altra natura, sulla base della discriminazione di genere, di orientamento sessuale; infine, sotto le spoglie di quella “discriminazione territoriale”, per attenerci alla definizione che chiunque segua il calcio negli ultimi anni ha imparato a conoscere e a riconoscere, che tratteggia ulteriori linee “del colore”.
“Daniel, diciassettenne di Torpignattara uccide pakistano a calci e pugni, per futili motivi” ha a che fare con “Daniele De Santis, neofascista romano, uccide Ciro Esposito perché napoletano”?
K. Marx, Prefazione alla prima edizione de Il Capitale. Critica dell’economia politica. Libro primo, VII edizione Roma: Editori Riuniti, 1980, p. 32. ↩
V. Marchi, Il derby del bambino morto. Violenza e ordine pubblico nel calcio, Roma 2005, pp. 142-3 [nuova edizione in corso di ripubblicazione presso Alegre]. ↩
Si vedano i due articoli di Lirio Abbate su neofascisti e narcotraffico e le organizzazioni cosiddette fasciomafiose. ↩
Si veda online G. De Michele, Immigrati: costi e numeri (quelli veri). ↩