Editoriale di COLLETTIVO EURONOMADE

Quante volte abbiamo ripetuto negli ultimi anni che viviamo in un tempo nuovo in cui fatichiamo a orientarci, a forgiare strumenti che ci consentano di tornare a praticare con efficacia la radicale critica dello stato di cose presente? L’impressione è quella di vivere all’interno di una lunga transizione, in cui l’iniziativa del capitale (di specifici attori capitalistici capaci di affermare una logica complessiva di sviluppo) spiazza continuamente sul piano globale e nei diversi spazi regionali e nazionali i movimenti sociali e politici che la contestano. Di più: dopo la grande crisi del 2007/2008, un ciclo politico reazionario ha assunto diverse manifestazioni nel mondo, tutte accomunate da una compressione degli spazi di lotta per la libertà e per l’uguaglianza. Contraddizioni e conflitti non mancano certo, ma il rischio è quello di un ripiegamento dei movimenti e delle stesse forze della sinistra su una posizione di mera resistenza, in cui è negata la possibilità di un’azione offensiva ed espansiva, della formulazione di un credibile progetto di trasformazione radicale della società e della politica. La resistenza è necessaria, ovviamente, ma è fondamentale interrogarsi sui suoi limiti, sui modi in cui si può uscire da una posizione meramente difensiva per articolare e rendere concretamente praticabile un orizzonte di vita e di cooperazione sottratto al dominio del capitale.

Ne sappiamo qualcosa in Italia, dove il ciclo reazionario ha assunto negli ultimi anni i nomi di Salvini e Meloni. Si prenda il caso dei femminicidi che hanno ancora una volta insanguinato l’estate. La mobilitazione femminista è stata potente e giustamente furiosa, ha mostrato quanto in profondità il ciclo di lotte all’insegna dello slogan “Non una di meno” abbia segnato la formazione delle nuove generazioni, trasformando identità di genere e radicando la critica del patriarcato. E tuttavia, l’impressione è che – come in altri luoghi, ad esempio in America Latina – la reazione patriarcale sia altrettanto potente, determinando effetti di violento disciplinamento dei corpi e degli stili di vita di fronte a cui occorre appunto resistere. Oppure si pensi allo scandalo dei morti in mare, alla gestione emergenziale dei cosiddetti sbarchi in una fase in cui il padronato reclama il reclutamento di centinaia di migliaia di migranti per il lavoro in agricoltura, nell’edilizia, nella cura. Imprescindibile è l’attivismo in mare, il lavoro della “flotta civile” e delle reti che lo sostengono. Anche qui, però, è difficile evitare l’impressione che quel lavoro si svolga sul terreno della resistenza, mentre risulta arduo intervenire con efficacia sul nesso tra la gestione della frontiera marittima nel Mediterraneo, i nuovi scenari geopolitici in cui si colloca e gli effetti di duro disciplinamento dei e delle migranti che vivono e lavorano nei nostri territori.

Sia chiaro: siamo interni a questi movimenti, se ne mettiamo in evidenza limiti materiali lo facciamo chiarendo che sono anche nostri limiti. Non abbiamo soluzioni da proporre, vorremmo semplicemente contribuire a precisare i termini dei problemi di fronte a cui ci troviamo oggi – in Italia e non solo. E possibilmente ad aprire una discussione per quanto possibile ampia, che coinvolga compagne e compagni con cui abbiamo condiviso momenti di confronto e di lotta in passato ma anche attivisti e attiviste che da poco si sono affacciati alla politica. Lo scorso anno abbiamo partecipato al percorso della “convergenza”, che ha avuto nella manifestazione del 22 ottobre a Bologna il suo momento più alto. Abbiamo insistito sul nesso necessario tra convergenza e “articolazione” delle lotte e dei movimenti, sull’esigenza di andare oltre quella che abbiamo chiamato – riprendendo un termine dai dibattiti femministi sull’“intersezionalità” – una concezione meramente “additiva” della convergenza, ovvero una politica delle alleanze. Di questo percorso abbiamo però anche vissuto il rapido esaurimento. Non vogliamo qui analizzarne le ragioni, ci limitiamo a prendere atto del fatto che il venire meno di una prospettiva di convergenza, di composizione delle lotte, ha contribuito a determinare la frammentazione delle iniziative che pare caratterizzare questo inizio di anno politico.

Le mobilitazioni attorno al cambiamento climatico, quelle femministe e quelle per il reddito, contro le servitù militari e per la pace, le iniziative del sindacalismo di base e quelle per il diritto alla salute – per fare soltanto qualche esempio – configurano un’agenda politica ricca e articolata. Ci sembra però, lo ripetiamo, che manchi una riflessione sull’articolazione tra queste e altre mobilitazioni, nonché sulle prospettive di una politica delle lotte dentro e contro il ciclo reazionario e la sua peculiare manifestazione in Italia. Di più, l’insistenza sul radicamento territoriale delle iniziative (che caratterizza anche la giornata di lotta contro la guerra che si annuncia per il 21 ottobre, a Pisa e in Sicilia) è indubbiamente preziosa sotto il profilo della concretezza delle campagne. Rischia però di risultare un limite se non si combina con pratiche espansive, capaci di contestare poteri e processi che hanno certo specifiche ricadute territoriali ma operano contemporaneamente su diverse scale e hanno natura in ultima istanza non territoriale.

A noi pare che l’insieme dei problemi a cui abbiamo accennato debba essere analizzato e discusso sulla base di un’analisi della congiuntura in cui ci troviamo a vivere e ad agire. Pochi cenni in questo senso possono bastare, rimandando l’approfondimento a una discussione collettiva che sentiamo particolarmente urgente. Siamo convinti che la concatenazione tra la pandemia e la guerra in Ucraina abbia determinato un’accelerazione di tendenze già presenti all’interno del capitalismo globale e contemporaneamente una nuova qualità dei conflitti che lo caratterizzano. Siamo ben lungi dal celebrare il “multipolarismo”: lo assumiamo piuttosto come dato di fatto, sottolineando che nel mondo multipolare contemporaneo la guerra – attuale e potenziale – si è installata al centro dei processi globali, come scontro materiale sugli spazi in cui questi processi si dipanano. Concretamente, questo comporta che “sicurezza nazionale”, riarmo, ricerca militare orientano spesa pubblica e produzione a tutte le latitudini. La “geopolitica” diventa un fattore interno allo sviluppo capitalistico, mentre lo spettro della guerra nucleare torna a incombere su un orizzonte già pesantemente segnato da quello del cambiamento climatico. Ci sembra che non soltanto in Italia ci sia un evidente ritardo nella discussione a proposito del modo in cui lottare dentro e contro questa situazione.

La proiezione della guerra ucraina in Europa, del resto, ha determinato profonde trasformazioni di cui vediamo oggi il riflesso nella crisi economica che colpisce diversi Paesi – ma in particolare la Germania (e qui il nesso tra “geopolitica” e sviluppo capitalistico è evidente). La rottura dell’asse franco-tedesco ha avuto come contropartita (e in qualche modo come condizione, imposta dagli USA) la rinuncia a ogni illusione di “autonomia strategica” dell’Europa. L’ascesa della Polonia, che ha oggi il più forte esercito convenzionale in Europa, è stata accompagnata da un accresciuto peso del nazionalismo all’interno della UE e da un corrispondente spostamento in senso “confederale” del suo equilibrio costituzionale. È evidente che oggi rilanciare in Europa una battaglia per la giustizia sociale e climatica non può che significare lottare contemporaneamente contro gli sviluppi sinteticamente indicati – e lottare dunque contro gli effetti della guerra all’interno delle società europee. Rompere i confini nazionali è una priorità strategica per noi, come in fondo hanno dimostrato “in negativo” le straordinarie lotte francesi degli ultimi mesi e anni – nonché la loro sconfitta.

All’Europa a “trazione polacca” ha tentato e tenta di agganciarsi Giorgia Meloni, ridefinendo su scala europea (una confederazione di nazionalismi) e globale (l’atlantismo e l’asservimento agli USA come dogma) il suo progetto politico. Sono evidenti le difficoltà che questo progetto sta incontrando: la gestione del PNRR e la preparazione della legge di bilancio lo mostrano ogni giorno. Da una parte, il governo italiano sconta la determinazione della Commissione europea a recuperare terreno anche in vista delle elezioni del prossimo anno, puntando su una celere riforma del patto di stabilità (e riducendo dunque i margini di manovra dei governi nazionali, con l’imposizione di scelte di austerity in Paesi a forte debito pubblico, rafforzata dalle politiche monetarie della Banca Centrale); dall’altra parte, la difficile congiuntura globale ed europea esaspera limiti e problemi strutturali del capitalismo italiano, con un’inflazione che comprime ulteriormente il potere d’acquisto di salari fermi da decenni e con il presidio di corporazioni più o meno potenti su interi settori dell’economia. È evidente per noi che su queste contraddizioni dovrebbero aprirsi fronti di lotta capaci di arricchire e di offrire una nuova base di massa e un nuovo terreno di convergenza ai movimenti ambientali e femministi che continuano a crescere in Italia e altrove.

È bene ripeterlo: se ci domandiamo perché questo non sia fin qui avvenuto, lo facciamo in primo luogo interrogandoci sui nostri limiti. E quel che in ogni caso davvero ci interessa è comprendere come possa avvenire nel prossimo futuro. È per noi una questione politica fondamentale, la questione politica del presente in Italia e non solo: certo non possiamo affrontarla in solitudine, ed è per questo che proponiamo l’avvio di un dibattito collettivo più largo possibile, di cui andranno individuate le forme e i luoghi. Nelle prossime settimane, in ogni caso, continueremo a partecipare in tutte le iniziative di movimento, seguendo con attenzione al tempo stesso i processi di mobilitazione e dibattito che attraversano il mondo sindacale, nella convinzione che un movimento di sciopero, uno sciopero generale, potrebbe aprire uno spazio di convergenza e di lotta con esiti felicemente imprevisti da parte delle stesse organizzazioni che decidessero di convocarlo.

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