di SANDRO MEZZADRA*. È difficile scrivere di Europa e migrazioni, oggi, sine ira ac studio, per evocare la celebre formula weberiana. Tanto in Paesi del Sud come la Grecia e l’Italia, quanto in Paesi “centrali” come la Germania e la Francia la migrazione è al centro di lotte e conflitti di straordinaria intensità, ed è al contempo terreno di sperimentazione ed esercizio di nuove forme di potere – che spesso si indirizzano ai e alle migranti assumendo come presupposto il fatto che appartengano al più a un’umanità di seconda categoria. Non sono soltanto le retoriche delle destre vecchie e nuove, diffuse capillarmente nel “sentire comune” in molte società europee, a orientarsi in modo sempre più esplicito in questo senso, offrendo legittimazione alle iniziative e alla violenza squadristica di gruppi neofascisti. Nell’azione delle polizie durante gli sgomberi di campi come quello di Calais o di occupazioni abitative da parte di profughi e migranti nel centro di una metropoli come Roma, nel rifiuto di ospitare poche decine di rifugiati da parte di amministrazioni locali in Italia come in Germania, nelle condizioni in cui vivono migliaia di migranti nei campi greci si può vedere operativo il medesimo presupposto (spesso messo in atto da forze politiche che si definiscono di “sinistra” o “democratiche”). E che dire delle politiche europee nel Mediterraneo, del tentativo di trovare a ogni costo un qualche tipo di interlocutore in Libia per impedire a donne e uomini in fuga di tentare la traversata via mare, consegnandoli alle milizie che di fatto governano buona parte del Paese o relegandoli in centri di detenzione nel deserto, definiti “un inferno” perfino da esponenti degli stessi governi che promuovono quelle politiche?
Vengono alla mente le parole di Frantz Fanon, pensando al modo in cui si dovrebbe parlare di Europa e migrazioni, oggi: “voglio brutale la mia voce, non la voglio bella, non pura, non di tutte le dimensioni. La voglio lacerata da parte a parte, non voglio si diverta, perché parlo dell’uomo e del suo rifiuto, del suo marcio quotidiano, della sua spaventosa rinuncia”[1]. E certo questa voce “lacerata” e “brutale” risuona oggi in Europa, nelle parole e nelle pratiche dei e delle migranti che si battono quotidianamente contro politiche che nel migliore dei casi vorrebbero subordinare i loro movimenti alle logiche di un’“accoglienza” dai tratti duramente disciplinari. E la voce dei e delle migranti incontra altre voci, quelle degli attivisti NoBorder e dei militanti dei movimenti per la casa, di una pluralità di associazioni e di un movimento di solidarietà che in molti luoghi (dalla Germania a città come Barcellona e Milano, ad esempio) ha avuto a partire dalla “lunga estate della migrazione” del 2015 una straordinaria estensione.
Quel che è certo, in ogni caso, è che oggi attorno alla migrazione si giocano in Europa partite decisive per il futuro – o meglio: che attorno alla migrazione si gioca il futuro dell’Europa. In questione non è soltanto, in una fase di tensioni e di riorganizzazione degli equilibri geopolitici globali, la posizione dell’Europa nel mondo – e in particolare il suo rapporto con quel continente africano ancora oggi piagato dall’eredità della tratta atlantica degli schiavi e del colonialismo. La migrazione pone anche sfide di cruciale importanza per la qualità della democrazia e della cittadinanza in Europa, per il modo in cui si organizzerà in futuro la cooperazione sociale e produttiva in questo continente; molto semplicemente: per il modo in cui si vivrà nelle nostre città. E la spinta alla chiusura, con tonalità sempre più esplicitamente razziste, che sembra oggi prevalere almeno in una parte dell’Europa, non si rivolge soltanto contro profughi e migranti: investe piuttosto con la sua carica di violento disciplinamento una molteplicità di soggetti, a cominciare dai giovani, dalle donne e dai precari – nonché dagli abitanti delle periferie metropolitane e delle molte forme di banlieues diffuse in Europa..
In una situazione come questa, la migrazione attrae in modo sempre più marcato l’interesse e la passione di ricercatori e ricercatrici che coniugano le metodologie di diverse discipline (dall’antropologia alla sociologia, dalla teoria politica alla geografia critica, per citarne alcune) con una precisa scelta di campo e, in molti casi, con pratiche militanti. In diversi Paesi europei si sono così venuti formando gruppi di ricerca network, con fitte relazioni transnazionali, che hanno configurato un campo di studi critici sulle migrazioni estremamente ricco e articolato – sostanzialmente rimasto ai margini, con qualche eccezione, del mainstream accademico ma in grado di produrre un sapere sulle migrazioni che in vari modi è circolato produttivamente all’interno dei movimenti e delle lotte dei e delle migranti. Questo vale in modo particolare per la Germania, dove fin dagli anni Novanta le mobilitazioni dei rifugiati e quelle delle “seconde generazioni” migranti (ad esempio attraverso un network come Kanak Attak[2]) hanno nutrito un profondo rinnovamento delle pratiche e del linguaggio consolidato dell’antirazzismo, evidente ad esempio nell’azione di reti come NoBorder e Kein Mensch ist Illegal. Tra le iniziative pionieristiche di ricerca militante sul tema va certamente segnalata l’attività della Forschungsgesellschaft Flucht und Migration (FFM), che a partire dal 1995 ha pubblicato una serie di quaderni che hanno imposto al centro del dibattito tedesco la questione dei confini dell’Europa – introducendo temi e concetti che sarebbero stati sviluppati ampiamente negli anni successivi[3]. Nello stesso lavoro del gruppo di ricerca “Staatsprojekt Europa”, di cui si è appena letta una sintesi ampia ed efficace, si può sentire risuonare l’eco di quel lavoro, ad esempio attraverso l’uso che viene fatto del concetto di Grenzregime (“regime di controllo dei confini”), oggi al centro del dibattito e degli studi di un’altra importante rete di ricercatori e ricercatrici militanti che opera nel mondo di lingua tedesca, Kritnet[4].
Qual è la specificità dell’approccio del gruppo di ricerca “Staatsprojekt Europa” all’interno di questo ampio e articolato campo di studi critici sulle migrazioni? Lo si è ben visto, credo, leggendo le pagine che precedono questa postfazione. Si può partire da una celebre affermazione del sociologo algerino Abdelmalek Sayad, il cui lavoro continua a essere un punto di riferimento importante: “pensare l’immigrazione significa pensare lo stato”, dal momento che “lo stato pensa se stesso pensando l’immigrazione”[5]. Il testo di Sonja Buckel, Fabian Georgi, John Kannankulam e Jens Wissel, pur non citando Sayad, ribadisce la centralità del tema dello Stato per lo studio delle migrazioni, e più in particolare rivendica e tenta di dimostrare l’efficacia di una specifica versione della “teoria materialistica dello Stato”, arricchita da quella che Ulrich Brand ha formalizzato come “analisi storico-materialistica della politica” (e delle “politiche”, intese nel senso del termine inglese policies). Di fondamentale importanza, nella ricerca del gruppo, è il riferimento a Gramsci. Ricollegandosi in particolare ai lavori di Nicos Poulantzas e Bob Jessop, infatti, Buckel, Georgi, Kannakulam e Wissel propongono una reinterpretazione del concetto di egemonia come chiave interpretativa per comprendere lo stato come campo di forze e di tensioni, al cui interno diversi attori concorrono a forgiare “progetti egemonici” in competizione e conflitto tra loro, la cui geometria variabile di relazioni influenza in profondità la formulazione delle politiche.
Ciò che rende particolarmente interessante questo lavoro è il fatto che si fonda fin dalla formulazione delle sue premesse su una critica del “nazionalismo metodologico” (cosa che non avviene spesso nel campo della teoria dello Stato), assumendo come proprio orizzonte di riferimento l’Unione Europea intesa come “parte e specifica manifestazione di un progetto statuale europeo post-fordista” (supra)[6]. Definita non come uno Stato ma come un “insieme di apparati di Stato”, l’Unione Europea costituisce la cornice imprescindibile per comprendere le stesse politiche dei singoli Stati membri – come appare in particolare evidente per quel che riguarda il tema delle migrazioni. Articolato sui molteplici livelli del “nuovo costituzionalismo” per molti versi post-democratico che in questa cornice ha preso forma, lo schema interpretativo dei “progetti egemonici” è certo efficace nel delineare il ritmo evolutivo delle politiche migratorie europee – nonché le tensioni, gli scarti e i conflitti che lo caratterizzano. In particolare, risulta convincente l’analisi dell’insieme dei processi che – anche per via dell’azione di attori globali come l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM) e l’OCSE – hanno condotto la Commissione Europea all’inizio del nuovo secolo ad adottare il “migration management” come schema generale di riferimento per le politiche migratorie. La flessibilità del “migration management”, che punta a determinare processi di “inclusione differenziale” dei migranti attraverso una molteplicità di dispositivi di filtro e selezione (nella cui azione giocano un ruolo fondamentale concetti come skill e “capitale umano”), è parsa in effetti ben adattarsi alle esigenze del mercato del lavoro dopo la crisi del “fordismo”[7]. Certo espressione, nei termini impiegati dal gruppo di ricerca “Staatsprojekt Europa”, del “progetto egemonico” neoliberale, il “migration management” – ostile a ogni discorso di mera chiusura e fortificazione dei confini – ha occasionalmente rappresentato il terreno di incontro tra questo progetto e quello che viene qui definito progetto egemonico liberal (“liberale di sinistra e alternativo”). È avvenuto ad esempio nel contesto aperto dalla “lunga estate della migrazione” in Germania[8].
L’estate del 2015, il movimento di massa di profughi e migranti che ha sfidato e per un momento travolto i confini europei dall’Egeo fino alla Scandinavia, attraverso la “rotta balcanica”, è assunto dal gruppo di ricerca “Staatsprojekt Europa” come punto d’avvio del testo che si è appena letto. E si tratta di una scelta imposta dalle circostanze, dato che quel movimento – con la carica di “speranza” e la tensione soggettiva che lo hanno caratterizzato[9] – è all’origine della crisi del regime europeo di controllo dei confini, che è ben lungi dall’essere superata oggi. Perché occorre dirlo con chiarezza: quella che viene presentata nel discorso pubblico mainstream come “crisi dei migranti”, o “dei rifugiati”, è in realtà una crisi delle politiche europee di controllo dei confini e delle migrazioni[10]. La crisi economica e le politiche di austerity da una parte, le rivolte nel Maghreb e nel Mashrek (con la caduta dei regimi di Ben Ali in Tunisia e Gheddafi in Libia, partener strategici delle politiche europee di controllo dei confini) dall’altra avevano anticipato quella crisi, che la “lunga estate della migrazione” ha condotto a un punto di non ritorno. E si tratta di una crisi che investe in profondità, come sottolineano opportunamente Buckel, Georgi, Kannakulam e Wissel, il progetto del “migration management” – il tentativo cioè di costruire non tanto una “fortezza” quanto un sistema di dighe e di filtri con l’obiettivo di sincronizzare (in forme violente e gerarchiche, anche attraverso processi di “illegalizzazione”) l’ingresso di quote di migranti con le esigenze delle società e dei mercati del lavoro europei.
Le reazioni alla “lunga estate delle migrazioni”, i conflitti che hanno diviso l’Unione Europea lungo l’asse Est/Ovest (all’indomani della crisi greca, che aveva mostrato ancora una volta la spaccatura tra Sud e Nord), la fortificazione dei confini a partire dalla “rotta balcanica”, le limitazioni poste alla stessa libera circolazione all’interno dello spazio di Schengen hanno fatto emergere una chiara tendenza alla ri-nazionalizzazione della politica dei confini, evidentemente in contraddizione con la logica del “migration management”. E se è possibile vedere nella formulazione dell’“hotspot approach” da parte della Commissione europea un tentativo di riorganizzare il regime di controllo dei confini secondo una razionalità logistica, che per altri versi caratterizza l’evoluzione delle politiche di avviamento al lavoro dei profughi in un Paese come la Germania[11], occorre anche sottolineare che questo approccio semplicemente non funziona dal punto di vista della gestione della mobilità. Lungi dall’operare efficacemente (secondo il progetto della Commissione europea) come piattaforme di selezione e “smistamento” di profughi e migranti, gli hotspot sono oggi in molti casi nient’altro che centri di detenzione, mentre in altri sono utilizzati come dispositivi di controllo dei cosiddetti “movimenti secondari” dei profughi e dei migranti all’interno dello spazio europeo – ovvero delle pratiche di mobilità attraverso cui essi continuano a sfidare i confini che lo attraversano[12]. La crisi del regime europeo di controllo delle migrazioni è dunque tutt’altro che superata, e il campo di tensione tra ri-nazionalizzazione e riorganizzazione “logistica” che caratterizza l’attuale transizione produce effetti di inaudita violenza sulla vita e sui corpi dei e delle migranti – mentre è evidente che la chiusura di fronte alla migrazione costituisce un problema anche per componenti significative delle élite e del capitale in Europa. Se è vero infatti che la tensione tra la determinazione esclusiva del criterio nazionale e l’esigenza di reclutare forza lavoro migrante costituisce in qualche modo un tratto caratteristico della storia del capitalismo quantomeno a partire dalla fine del XIX secolo, è vero anche che questa tensione deve in qualche modo essere resa “produttiva”, per funzionare dal punto di vista del capitale[13]. E non sembra davvero essere questo il caso nell’Europa di oggi.
L’analisi svolta dal gruppo di ricerca “Staatsprojekt Europa” offre un contributo importante alla comprensione di alcuni tratti di fondo della crisi delle politiche migratorie e di controllo dei confini in Europa nonché della transizione in atto. In particolare, consente di ragionare su questa crisi e sugli scenari delineati dagli sviluppi contemporanei dal punto di vista della mobilità, e non semplicemente da quello della fortificazione dei confini. Quel che ci si può conclusivamente domandare è se lo schema interpretativo dei “progetti egemonici” – oltre a consentire di analizzare i conflitti e le tensioni che segano la formulazione delle politiche migratorie – risulta adeguato a porre in rilievo teoricamente e politicamente le sfide, i comportamenti soggettivi, le rivendicazione dei e delle migranti. Su questo punto ha insistito tra l’altro, negli ultimi anni, l’approccio dell’“autonomia delle migrazioni”[14], che ha avuto una significativa circolazione all’interno dei movimenti e che Buckel, Georgi, Kannakulam e Wissel menzionano nel loro testo – ad esempio quando scrivono che “il regime tedesco ed europeo di controllo dei confini è una specifica reazione politica alla pratica globale della migrazione” (supra). Questa “pratica”, tuttavia, risulta necessariamente un po’ in ombra nello studio dei diversi “progetti egemonici”, dove il testo sconta a mio giudizio un limite generale del concetto di egemonia: ovvero il fatto che esso tende a indirizzare l’attenzione verso l’articolazione del dominio, di cui riesce a certo a cogliere tutta la complessità senza tuttavia che i movimenti dei soggetti subordinati emergano in primo piano appunto nella loro (quantomeno potenziale) autonomia.
Non voglio con questo in alcun modo ridimensionare l’importanza del contributo che si è letto in questo libro. E sono anch’io convinto dell’importanza di uno studio (materialistico) dello Stato e della riorganizzazione di elementi costitutivi della statualità per analizzare il campo di tensione al cui interno si collocano le pratiche dei migranti e la stessa autonomia delle migrazioni. Ripensando alle parole di Sayad citate in precedenza, tuttavia, credo che sia opportuno ricordare che l’affermazione per cui “pensare l’immigrazione significa pensare lo Stato” è caratterizzata da una profonda ambivalenza, di cui lo stesso Sayad era ben consapevole[15]: se ci ricorda infatti l’importanza di “pensare lo Stato” per comprendere l’immigrazione, ci mette anche in guardia di fronte al rischio che il “pensiero di Stato” finisca per condizionare il modo in cui noi stessi pensiamo l’immigrazione, costruendone l’immagine per così dire sul rovescio delle categorie statuali. Seeing like a State, si intitola un bel libro di James Scott[16]: anche nell’analisi e nella critica dello Stato dovremmo provare a esercitare uno “sguardo migrante”, innestandolo sui consolidati paradigmi di analisi critica per aprirli in direzione dell’esperienza, dei movimenti e delle lotte dei migranti – della loro voce oggi tanto più “lacerata” e “brutale”, per riprendere i termini di Fanon citati all’inizio di questa postfazione. Una politica “comunista” sulle migrazioni, a cui il testo del gruppo di ricerca “Staatsprojekt Europa” fa riferimento nelle ultime pagine, non può in particolare che individuare in questa apertura una condizione necessaria.
[1] F. Fanon, Lettera a un francese (1956), in Id., Scritti politici. Per la rivoluzione africana, a c. di M. Mellino, Roma, DeriveApprodi, 2006, p. 60.
[2] Si veda l’autodescrizione del 1998 di Kanak Attak: http://www.kanak-attak.de/ka/about/manif_eng.html.
[3] I quaderni della FFM (1995-2002) si possono scaricare dal sito http://www.ffm-berlin.de/index.html. L’avvio del mio stesso lavoro sui confini (di cui si possono vedere gli esiti nel libro scritto con Brett Neilson, Border as Method, or, the Multiplication of Labor, Durham, NC: Duke University Press) deve molto alla discussione con i compagni della FFM, e in particolare con Helmut Dietrich.
[4] Cfr. http://kritnet.org/. Si vedano i tre volumi collettivi intitolati Grenzregime e pubblicati dalla casa editrice Assoziation A di Berlino (I, Diskurse, Praktiken, Institutionen in Europa, 2010; II. Migration, Kontrolle, Wissen. Transnationale Perspektiven, 2014; III, Der lange Sommer der Migration, 2017) e la rivista della rete, Movements: http://kritnet.org/2015/movements-das-kritnet-journal-ist-online/
[5] A. Sayad, “Immigrazione e pensiero di Stato”, in Id., La doppia assenza. Dalle illusioni dell’emigrato alle sofferenze dell’immigrato, trad. it. Milano, Cortina, p. 368.
[6] Si veda in questo senso Foschungsgruppe “Staatsprojekt Europa”, Die EU in der Krise. Zwischen autoritärem Etatismus und europäischem Frühling im Auftrag der Assoziation für kritische Gesellschaftsforschung, Münster: Westphälisches Dampfboot, 2012.
[7] Sul “migration management” si veda ad esempio M. Geiger e A. Pécoud, The Politics of International Migration Management: Migration, Minorities and Citizenship, Houndmills: Palgrave Macmillan, 2010. Sul concetto di “inclusione differenziale”, cfr. S. Mezzadra e B. Neilson, Frontières et inclusion différentielle, in «Rue Descartes», 67, 2010, pp. 102-108.
[8] Si vedano in questo senso, nella prospettiva del gruppo di ricerca “Staatsprojekt Europa”, F. Georgi, Widersprüche im langen Sommer der Migration. Ansätze einer materialistischen Grenzregimeanalyse, in “PROKLA”, 2016, 2 (Heft 183), pp. 183-203 e – in una diversa prospettiva – M. Altenried, M. Bojadžijev, L. Höfler, S. Mezzadra e Mira Wallis, Logistische Grenzlandschaften. Das Regime mobiler Arbeit nach dem Sommer der Migration, Münster, Unrast Verlag, 2017.
[9] Si veda in questo senso l’articolo di B. Kasparek e M. Speer, Of Hope. Hungary and the Long Summer of Migration, in «Bordermonitoring.eu» (September 9, 2015), http://bordermonitoring.eu/ungarn/2015/09/of-hope-en/
[10] Cfr. S. Mezzadra e M. Bojadžijev, “Refugee crisis” or crisis of European migration policies?, in «Focaalblog», Novembre 2015, http://www.focaalblog.com/2015/11/12/manuela-bojadzijev-and-sandro-mezzadra-refugee-crisis-or-crisis-of-european-migration-policies/
[11] Cfr. ad esempio – sull’“hotspot approach” – B. Kasparek, Routes, Corridors, and Spaces of Exception: Governing Migration and Europe, in «Near Futures Online», 1 “Europe at a Crossroads” (March 2016), nearfuturesonline.org/routes-corridors-and-spaces-of-exception-governing-migration-and-europe/ e – sulle politiche di avviamento al lavoro dei profughi in Germania – M. Altenried et al., Logistische Grenzlandschaften, cit.
[12] Cfr. G. Garelli e M. Tazzioli Hotspot beyond Detention: Spatial Strategy of Dispersal and Channels of Forced Transfer, in corso di pubblicazione in Society and Space. Disponibile online: www.academia.edu/28943080/HotspotbeyondDetentionSpatialStrategyofDispersalandChannelsofForcedTransferGlendaGarelliandMartinaTazzioliforthcominginSocietyandSpace
[13] Si veda S. Mezzadra, Diritto di fuga. Migrazioni, cittadinanza, globalizzazione, Verona, ombre corte, 2006 (in particolare capp. 1 e 2).
[14] Si vedano ad esempio, per diverse varianti della teoria dell’“autonomia delle migrazioni”, D. Papadopoulos, N. Stephenson, e V. Tsianos, Escape Routes. Control and Subversion in the 21st Century, London – Ann Arbor, MI: Pluto Press, 2008; M. Bojadžijev e S. Karakayali, Recuperating the Sideshows of Capitalism: The Autonomy of Migration Today, in e-flux, number 17 (2010), disponibile online: www.e-flux.com/journal/recuperating-the-sideshows-of-capitalism-the-autonomy-of-migration-today/; S. Mezzadra, The Gaze of Autonomy: Capitalism, Migration and Social Struggles, in V. Squire (a cura di), The Contested Politics of Mobility: Borderzones and Irregularity, London: Routledge, 2011, pp. 121-142; Maribel Casas-Cortes, Sebastian Cobarrubias e John Pickles, Riding Routes and Itinerant Borders: Autonomy of Migration and Border Externalization, in Antipode, 47 (2015), 4, pp. 894-914; N. De Genova, The “Crisis’ of the European Border Regime: Towards a Marxist Theory of Borders, International Socialism. A Quarterly Review of Socialist Theory, 150 (2016), disponibile online: http://isj.org.uk/the-crisis-of-the-european-border-regime-towards-a-marxist-theory-of-borders/#footnote-10080-21
[15] Questa ambivalenza è emersa pienamente nel 2009, in occasione delle polemiche che hanno accompagnato l’inaugurazione della “Médiothèque Abdelmalek Sayad” alla “Cité de l’immigration au Palais de la Porte Dorée” (il vecchio “Palais des Colonies”, assai significativamente): si veda l’appello Cité de l’immigration: Non à l’instrumentalisation d’Abdelmalek Sayad, pubblicato il 30 marzo di quell’anno in Mediapart, diponibile online: https://blogs.mediapart.fr/edition/les-invites-de-mediapart/article/300309/cite-de-l-immigration-non-a-l-instrumentalisati
[16] J.C. Scott, Seeing Like a State: How Certain Schemes to Improve the Human Condition Have Failed. New Haven: Yale University Press, 1998.
*postfazione a Staatsprojekt EUropa, L’EUROPE DES FLUX. Migrations, travail et crise de l’Union Européenne, Eterotopia France, 2017. Pubblicata in concomitanza anche sul nuovo sito d’inchiesta, appena lanciato, Plateforme d’enquêtes militantes