Di VERONICA GAGO.

«Tiemblan los Chicago Boys. Aguanta el movimiento feminista»

(Graffiti all’Università Cattolica del Cile, 2018)

In che senso il movimento femminista contemporaneo – nella molteplicità delle lotte a cui partecipa e che sta conducendo oggi – esprime una dinamica anti-neoliberista dal basso? In che modo avvia nuove forme politiche iscritte in genealogie di temporalità discontinue? Voglio proporre otto tesi che dimostrano la sua novità.

1. Lo strumento dello sciopero femminista mappa nuove forme di sfruttamento di corpi e territori da una prospettiva che è contemporaneamente quella della visibilità e dell’insubordinazione. Lo sciopero rivela la composizione eterogenea del lavoro su un registro femminista, riconoscendo forme di lavoro che sono state storicamente ignorate, mostrando la loro attuale sovrapposizione con la precarizzazione generalizzata e appropriandosi di uno strumento tradizionale di lotta per superarlo e reinventarlo.

Lo sciopero internazionale ha aperto una prospettiva femminista sul lavoro. Poiché la prospettiva femminista riconosce il lavoro territoriale, domestico, riproduttivo e migrante, amplia il concetto stesso di classe operaia, dal basso. Perché parte dal riconoscimento che il 40% dei lavoratori nel nostro paese è coinvolto in diverse configurazioni della cosiddetta economia informale, rivendicata come economia popolare. Poiché rende visibile e mette a valore quello che è stato storicamente ignorato e svalutato, è così che noi affermiamo che #AllWomenAreWorkers.

C’è un elemento ancora più radicale: lo sciopero femminista ci pone in uno stato di indagine pratica. Come possiamo definire le esperienze di vita e di lavoro di donne, lesbiche, persone trans e travestiti? Srotolando il filo della questione su che cosa significhi scioperare, noi mappiamo, in modo pragmatico, la molteplicità di compiti e giorni lavorativi intesivi e prolungati non retribuiti, mal pagati o remunerati secondo una rigida gerarchia. Alcuni di questi compiti non avevano neppure dei nomi, altri erano chiamati in modi umilianti.

Lo sciopero femminista è rafforzato dalla sua impossibilità: le donne che non possono scioperare ma vorrebbero farlo; quelle che non riescono a smettere di lavorare nemmeno per un giorno e si ribellano allo sfruttamento; quelle che ritenevano impossibile scioperare senza l’autorizzazione dei vertici sindacali e che tuttavia rivendicano lo sciopero; quelle che sono state in grado di immaginare uno sciopero contro l’agrobusiness e la finanza. Tutte queste donne, e ognuna di noi, hanno spinto i confini dello sciopero. Alla congiunzione dell’impossibilità e del desiderio, un’immaginazione radicale emerge dalla molteplicità delle forme dello sciopero femminista, muovendosi in luoghi imprevisti, spostando l’impossibilità e il desiderio nella sua capacità di includere esperienze vitali e l’essere è reinventato da corpi che sono disobbedienti al lavoro e a quello che viene riconosciuto come tale.

Con lo sciopero, abbiamo reso visibile il differenziale di sfruttamento che caratterizza il lavoro femminilizzato, in altre parole, la subordinazione specifica implicita nel lavoro comunitario, di vicinato, migrante e riproduttivo, e abbiamo mostrato come la sua subordinazione è correlata a tutte le forme di lavoro nel quotidiano. Abbiamo dimostrato che esiste un luogo concreto dove inizia questo differenziale: la riproduzione della vita, a partire dalla sua organizzazione meticolosa e costante sfruttata dal capitale come un obbligo, gratuito o mal pagato. Ma siamo andate anche oltre: partendo dalla riproduzione – storicamente negata, subordinata e inscritta nei processi di domesticazione e colonizzazione – abbiamo costruito categorie per ripensare il lavoro stipendiato e retribuito, sindacalizzato o no, attraversato da livelli sempre crescenti di precarizzazione.

Collegando tutti i modi di produzione del valore (oltre che di sfruttamento ed estrazione), abbiamo mappato il nesso concreto tra violenza patriarcale, coloniale e capitalista. Ciò dimostra, ancora una volta, che il movimento femminista non è al di fuori della questione di classe, anche se spesso viene presentato come tale. Né può essere separato dalla questione della razza. Non è possibile “isolare” il femminismo da queste concatenazioni, che includono e situano la lotta contro nuove forme di sfruttamento, estrazione, oppressione e dominio. Il femminismo, come movimento, mostra il carattere storico della classe nonché l’esclusione sistematica di tutti coloro che non sono considerati lavoratori bianchi dipendenti e retribuiti. Pertanto non può esistere una classe che non comprenda la razzializzazione. In questo modo, diventa chiaro fino a che punto le forme narrative e organizzative sono modalità di subordinazione sistematica del lavoro femminilizzato e migrante e, come tali, i cardini della divisione sessuale e razziale del lavoro.

2. Con lo sciopero, abbiamo prodotto una nuova comprensione della violenza: siamo sfuggite al confinamento nella sfera limitata della violenza domestica collegandola alla violenza economica, lavorativa, istituzionale, di polizia, razzista e coloniale. In questo modo, diventa chiara la relazione organica tra violenza di genere e femminicidio e l’attuale forma di accumulazione del capitale. La natura anti-capitalista, anti-coloniale e anti-patriarcale del movimento femminista deriva dallo stabilire e diffondere questa analisi concreta.

Lo sciopero produce simultaneamente un punto di vista che va dalla resistenza all’espropriazione, all’insubordinazione al lavoro e alla disobbedienza finanziaria.

Questo ci consente di analizzare il rapporto tra conflitti territoriali contro iniziative neo-estrattive e violenza sessuale; il nesso tra molestie e relazioni di potere sul luogo di lavoro; nonché il modo in cui lo sfruttamento del lavoro migrante e femminilizzato si combina con l’estrazione di valore attraverso la finanza; la depredazione di infrastrutture pubbliche nei quartieri e la speculazione immobiliare (formale e informale); lo stato clandestino dell’aborto e la criminalizzazione delle comunità Indigene e Nere. Tutte queste forme di violenza sono il bottino di guerra per i corpi delle donne e i corpi femminilizzati.

Questo legame tra la violenza della dispossessione e la violenza sessuale e machista non è solo analitico: viene praticato come un’elaborazione collettiva per comprendere le relazioni di subordinazione e sfruttamento in cui i femminicidi sono resi intelligibili, nonché per definire una strategia di organizzazione e autodifesa. In questo senso, il movimento femminista pratica la pedagogia popolare attraverso un’interpretazione che collega la violenza e l’oppressione e lo fa da una posizione di disprezzo per entrambi. Su questo punto, sfuggire dalla narrativa totalizzante della vittimizzazione, è ciò che consente all’interpretazione della violenza di evitare di essere tradotta in un linguaggio di pacificazione o solo in lutto e lamento. Rifiuta anche le risposte istituzionali che rafforzano l’isolamento di questi problemi e che cercano di risolverli attraverso una nuova agency o un programma governativo. Gli strumenti istituzionali possono essere importanti purché non facciano parte di un organismo che codifichi la vittimizzazione e racchiuda la violenza come esclusivamente domestica. L’interpretazione dell’intersezionalità della violenza, resa possibile dallo sciopero, ha creato un nuovo sito di enunciazione, apertura, costruzione ed espansione degli orizzonti organizzativi del movimento. La vasta mappa che questo ci ha permesso di tracciare allarga il nostro punto di vista e va alle radici dei legami profondi tra patriarcato, capitalismo e colonialismo, trasformandolo nella costruzione di un’intelligenza condivisa.

3. L’attuale movimento femminista è caratterizzato da due dinamiche uniche: la combinazione di potenza e radicalità. Ci riesce perché costruisce la prossimità tra lotte molto diverse. In questo modo, inventa e coltiva una modalità di trasversalità politica.

Il femminismo esplicita una cosa che non era così ovvia: che non manca a nessuno il territorio, confutando così l’illusione metafisica del soggetto isolato. Siamo tutti situati e, anche in questo senso, il corpo può iniziare ad essere percepito come un corpo-territorio. Il femminismo cessa di essere una pratica esterna correlata agli “altri”, ed è piuttosto assunto come un principio interpretativo per comprendere i conflitti in ciascun territorio (domestico, affettivo, lavorativo, migrante, artistico, campesino, urbano, del mercato, dei territori della comunità, e così via). Ciò consente a un femminismo intergenerazionale di massa di manifestarsi, perché risulta appropriato per spazi ed esperienze estremamente diversi.

Come viene prodotta questa composizione, che possiamo qualificare come trasversale? A partire dai legami tra le lotte. Ma la rete costruita tra varie lotte non è né spontanea né naturale. Piuttosto, per quanto riguarda il femminismo, è stato vero il contrario per molto tempo: il femminismo era compreso nella sua variante istituzionale e/o accademica, ma storicamente dissociato dai processi di confluenza popolare. Ci sono linee genealogiche fondamentali che hanno reso possibile l’attuale espansione. Possiamo rintracciarne quattro in Argentina: la storia delle lotte per i diritti umani dagli anni ‘70, guidata dalle Madri e dalle Nonne di Plaza de Mayo; gli oltre tre decenni del National Women’s Gathering (ora il Plurinational Gathering of Women, Lesbians, Trans Persons, and Travestis); l’emersione del movimento piquetero, che ha anche avuto un protagonismo femminilizzato quando si è confrontato con la crisi sociale all’inizio del XX secolo; e una lunga storia di movimenti di dissenso sessuale, che vanno dall’eredità del Fronte di liberazione omosessuale (Frente de Liberación Homosexual) negli anni ’70, all’attivismo per l’accesso indipendente all’aborto, all’attivismo lesbico, trans, travestito, intersex e transgender, esperienze che hanno rivoluzionato i corpi e le soggettività del femminismo contro i limiti del dato biologico.

La trasversalità raggiunta attraverso l’organizzazione dello sciopero aggiorna queste linee storiche e le proietta in un femminismo delle masse, radicato nelle lotte concrete di lavoratrici dell’economia popolare, donne migranti, cooperative, donne che difendono i loro territori, quelle precarie, le nuove generazioni di dissidenti sessuali, le casalinghe che rifiutano le recinzioni, quelle che combattono per il diritto all’aborto e che sono impegnate in un’ampia battaglia per l’autonomia e l’autodeterminazione dei propri corpi, gli studenti mobilitati, le donne che denunciano le agrotossine e le prostitute. Lo sciopero femminista crea un orizzonte comune in termini organizzativi e quell’orizzonte funziona da catalizzatore pratico.

È potente come, dall’integrazione di questa molteplicità di conflitti, la dimensione di massa viene ridefinita sulla base di pratiche e lotte che sono state storicamente definite come “minoritarie”. L’opposizione tra la minoranza e la maggioranza viene così spostata: il minoritario prende la scala delle masse come vettore di radicalizzazione all’interno di una composizione in costante espansione. Ciò mette in discussione il meccanismo neoliberista del riconoscimento delle minoranze e la pacificazione della differenza.

Questa trasversalità politica è alimentata dai diversi territori in conflitto e crea un effetto comune sui problemi che tendono ad essere vissuti individualmente, così come una comprensione politica delle diverse forme di violenza che tendono ad essere racchiuse nello spazio domestico. Ciò complica una certa idea di solidarietà che suppone un livello di esteriorità che stabilisca la distanza del rispetto riguardo agli altri. La trasversalità favorisce una politica di costruzione di prossimità e alleanze senza ignorare le differenze di intensità tra i conflitti.

4. Il movimento femminista dispiega una nuova critica dell’economia politica. Comprende una denuncia radicale delle condizioni contemporanee di valorizzazione del capitale e, pertanto, aggiorna il concetto di sfruttamento. Lo fa espandendo quella che è generalmente considerata l’economia.

In Argentina, in particolare, c’è un intreccio che consente una nuova critica dell’economia politica. Ciò è dovuto all’incontro pratico tra l’economia popolare e quella femminista. Le economie popolari come reti riproduttive e produttive esprimono un accumulo di lotte che hanno aperto l’immaginazione dello sciopero femminista. Questo è il motivo per cui in Argentina lo sciopero femminista riesce a dispiegare, problematizzare e valorizzare una molteplicità di compiti sulla base di una cartografia del lavoro che segue un registro femminista, nella misura in cui è collegato a una genealogia piquetero che ha problematizzato il lavoro dipendente, retribuito, e le forme di “inclusione”. Sono queste esperienze che sono all’origine delle economie popolari e che persistono come elemento insorgente convocato ancora una volta dai femminismi popolari.

Le dinamiche organizzative degli scioperi femministi innescano due processi nelle economie popolari. Da un lato, la politicizzazione delle sfere riproduttive oltre il domestico funziona come uno spazio concreto per lo sviluppo dell’espansione del lavoro che è valutata dallo sciopero. D’altra parte, una prospettiva femminista su tali compiti consente di evidenziare i mandati patriarcali e coloniali che li naturalizzano e, quindi, consente di dispiegare da essi logiche di sfruttamento ed estrazione.

Lo sciopero femminista, avviando una lettura basata sulla resistenza all’iscrizione dentro i compiti riproduttivi in termini familiari, sfida il permanente accrescimento morale imposto dai sussidi sociali e produce un’intersezione tra l’economia femminista e l’economia popolare che radicalizza entrambe le esperienze.

Attraverso lo sciopero, il movimento femminista produce figure di soggettivazione (traiettorie, forme di cooperazione, modi di vita) che sfuggono alla binarietà neoliberista che si oppone alle vittime degli imprenditori del sé (anche nello pseudo linguaggio di genere che parla di “empowerment” imprenditoriale). I femminismi sono diventati anti-neoliberali assumendosi la responsabilità dell’organizzazione collettiva contro la sofferenza individuale e denunciando politiche sistematiche di dispossessione.

L’attuale movimento femminista propone una precisa caratterizzazione del neoliberismo e, quindi, apre l’orizzonte di ciò che chiamiamo politica anti-neoliberista. A causa del tipo di conflitti che mappa, rende visibili e mobilita, diffonde una nozione complessa di neoliberismo che non si riduce alla binarietà dello stato contro il mercato. Al contrario, le lotte femministe indicano il legame tra la logica estrattiva del capitale e la sua embricatura con le politiche statali, determinando come il valore venga sfruttato ed estratto da determinati corpi-territori. La prospettiva dell’economia femminista che ne emerge è quindi anticapitalista.

5. Il movimento femminista occupa le strade e costruisce in assemblee, tesse potere nei territori ed elabora interpretazioni della congiuntura: produce un contropotere che articola una dinamica di raggiungimento dei diritti con un orizzonte radicale. Quindi, smantella il binario tra riforma o rivoluzione.

Con lo sciopero, il movimento femminista costruisce una forza comune contro la precarizzazione, l’austerità, i licenziamenti e la violenza che questi comportano. Sopra, abbiamo sottolineato l’elemento anti-neoliberista dello sciopero (mettendo in discussione la razionalità del mercato come ordine del mondo), affermando la sua natura di classe (vale a dire che non naturalizza o minimizza la questione dello sfruttamento) e il carattere anti-coloniale e anti-patriarcale (perché denuncia e si oppone allo sfruttamento specifico del capitalismo contro le donne e i corpi femminilizzati e razzializzati). Questa dinamica è essenziale: produce un’intersezione funzionale tra razza, classe e genere e crea un’altra razionalità per l’analisi della congiuntura. Ciò significa che i dibattiti parlamentari (affermando che non esiste diritto o forza di legge che non siano prima formulati nella protesta sociale) e la radicalizzazione dell’organizzazione popolare dei femminismi resistono alla riduzione a una “quota” o un “settore”.

Questa dinamica del movimento femminista è duplice: costruisce la propria istituzionalità (reti autonome) e, allo stesso tempo, intercetta l’istituzionalità esistente. A sua volta crea una temporalità strategica che agisce simultaneamente nel presente con ciò che esiste e con ciò che esiste anche nel presente ma come virtualità, come possibilità ancora aperta, non ancora realizzata. Il movimento femminista non esaurisce le sue rivendicazioni o le sue lotte all’interno dell’orizzonte dello Stato, anche se non ignora quel campo d’azione, decisamente non crede che lo Stato sia il luogo in cui la violenza possa essere risolta. È una dimensione utopica, che tuttavia ha un’efficacia nel presente e non nel posticipo di un obiettivo finale, futuro e distante. Di conseguenza, la dimensione utopica riesce anche a operare in mezzo alle contraddizioni esistenti senza attendere l’apparizione di soggetti pienamente liberati o condizioni ideali per le lotte, né senza fidarsi di un unico spazio che assecondi la trasformazione sociale. In questo senso, il movimento femminista fa appello al potere, alla potenza, alla rottura contenuta in ogni azione, e non limita la rottura a uno spettacolare momento finale di accumulazione strettamente evolutiva.

Questo, ancora una volta, è collegato al potere, alla potenza, alla trasversalità, che cresce a causa del modo in cui l’attivismo femminista si è convertito in una forza disponibile che viene messa in gioco in diversi spazi di lotta e di vita. In questo modo, si contrappone alla “settorizzazione” della cosiddetta agenda di genere e contro l’infantilizzazione delle sue pratiche politiche. In altre parole, la trasversalità non è solo una forma di coordinamento, ma anche la capacità di trasformare il femminismo nella propria forza in ogni luogo, senza limitarlo a una logica di richieste specifiche. Non è facile da mantenere in quanto comporta un lavoro quotidiano di tessitura, di conversazione, di traduzione e di espansione delle discussioni, delle prove e degli errori. Ma ciò che è più potente oggi è che questa trasversalità è sentita come un bisogno e un desiderio di aprire a una temporalità della rivoluzione qui e ora.

6. Il femminismo contemporaneo tesse un nuovo internazionalismo. Non è una struttura che rende le lotte astratte e omogenee per portarle su un piano “superiore”. Al contrario, è percepito come una forza concreta in ogni luogo. Conduce una dinamica transnazionale basata su traiettorie e corpi situati. Il movimento femminista si esprime quindi come una forza coordinata di destabilizzazione globale la cui potenza, in particolare, è radicata ed emerge dal sud.

Il femminismo contemporaneo è un internazionalismo basato su territori in lotta. Questo è ciò che rende la sua costruzione più complessa e polifonica: include sempre più territori e lingue. Non dipende dal quadro dello stato-nazione e pertanto eccede già oltre il concetto di “internazionalismo”. Piuttosto che internazionale, è transnazionale e plurinazionale. Perché riconosce altre aree geografiche e traccia altre mappe di alleanze, incontro e convergenza. Perché include una critica radicale alle recinzioni nazionali che cercano di limitare le nostre lotte, è collegato sulla base di traiettorie migranti e si avvicina a paesaggi che ricombinano elementi urbani, suburbani, campesino, indigeni, di quartieri e comunità, quindi molteplici temporalità vi sono ripiegate.

Il transnazionalismo femminista implica una critica agli avanzamenti neocoloniali nei territori del corpo. Denuncia le differenti forme di estrattivismo e dimostra il loro legame con l’aumento della violenza di genere e le forme di sfruttamento del lavoro che prendono la maquila come scena emblematica in questo continente.

Lo sciopero femminista costruisce una rete transnazionale inarrestabile perché mappa, contro il buonsenso, il mercato mondiale che organizza l’accumulazione di capitale. Tuttavia, questi collegamenti transnazionali non sono organizzati secondo un calendario di riunioni di grandi agenzie al servizio del capitale. Basato sullo sciopero femminista, il movimento prende la forma del coordinamento da un lato e di un comitato dall’altro, per affrontare le lotte nel qui e ora, con iniziative che infrangono le frontiere e attraversano i confini. È un transnazionalismo che ha spinto il motto globale dello sciopero e ha forgiato un nuovo tipo di coordinamento: “Se ci fermiamo, fermiamo il mondo”.

La forza di destabilizzazione è globale perché esiste prima in ogni famiglia, in ogni relazione, in ogni territorio, in ogni assemblea, in ogni università, in ogni fabbrica, in ogni mercato. In questo senso è il contrario di una lunga tradizione internazionalista che organizza dall’alto, unificando e dando “coerenza” alle lotte secondo la loro inclusione in un programma.

La dimensione transnazionale compone il collettivo come un’investigazione: si presenta sia come auto-educazione che come desiderio di articolarsi con esperienze che all’inizio non sono vicine. È abbastanza diverso considerare il coordinamento collettivo come un requisito morale a priori o astratto. Il femminismo nei quartieri, nelle camere da letto o nelle famiglie non è meno internazionalista del femminismo nelle strade o negli incontri regionali, e questo gli conferisce la sua potente politica di collocamento. Viene dalla sua non-disgiunzione, dal suo modo di trasformare l’internazionalismo in una politica di radicamento e dalla capacità di aprire i territori a connessioni inaspettate.

7. La risposta globale alla forza femminista transnazionale si organizza come una tripla controffensiva: militare, economica e religiosa. Questo spiega perché il neoliberismo necessita ora di politiche conservative per stabilizzare il suo modo di governo.

Il fascismo a cui stiamo assistendo a livello regionale e globale è reazionario: una risposta alla forza dispiegata dal movimento femminista transnazionale. I femminismi che sono scesi in piazza negli ultimi anni per formare una forza capillare concreta in tutte le relazioni e le sfere sociali hanno messo in discussione la subordinazione del lavoro riproduttivo e femminilizzato, la persecuzione delle economie migranti, la naturalizzazione dell’abuso sessuale come mezzo di disciplinamento della forza-lavoro precaria, la famiglia etero-normativa come rifugio contro quella stessa precarietà, il confinamento domestico come sito di sottomissione e invisibilità, la criminalizzazione dell’aborto e delle pratiche di sovranità sul proprio corpo, l’avvelenamento e l’espropriazione delle comunità da parte delle società e multinazionali in cooperazione con lo Stato. Ognuna di queste pratiche di interrogazione ha scosso la normalità dell’obbedienza, interrompendone la riproduzione quotidiana e sistematica.

Lo sciopero femminista intessuto come un processo politico ha aperto a una temporalità della rivolta. Si è sviluppato come un desiderio rivoluzionario. Non ha lasciato nessuno spazio indifferente alla marea di insubordinazione e interrogazione.

D’ora in poi, il neoliberismo deve allearsi con le forze conservatrici reazionarie perché la destabilizzazione delle autorità patriarcali mette a rischio l’accumulazione di capitale. Potremmo dirlo in questo modo: il capitale è ben consapevole della sua necessità di articolarsi con il colonialismo e il patriarcato per riprodursi come una relazione di obbedienza. Una volta che la fabbrica e la famiglia etero-patriarcale non riescono più a mantenere la disciplina e una volta che il controllo securitario è sfidato dalle forme femministe di gestione dell’interdipendenza, nell’epoca della precarietà esistenziale, la controffensiva si intensifica. E vediamo chiaramente perché il neoliberismo e il conservatorismo condividono gli stessi obiettivi strategici della normalizzazione.

Poiché il movimento femminista politicizza la crisi della riproduzione sociale in modo nuovo e radicale, sia come crisi di civiltà che come crisi della struttura patriarcale della società, l’impulso fascista lanciato per contrastare offre economie di obbedienza al fine di gestire la crisi. Sia attraverso i fondamentalismi religiosi o la costruzione paranoica di nuovi nemici interni, stiamo assistendo a tentativi di terrorizzare le forze di destabilizzazione radicate in un femminismo che ha attraversato i confini.

8. Il movimento femminista si confronta oggi con l’immagine più astratta del capitale: il capitale finanziario, precisamente la forma di dominio che sembra rendere impossibile l’antagonismo. Affrontando la finanziarizzazione della vita, ciò che si verifica quando l’atto stesso di vivere “produce” debito, il movimento femminista ha avviato una lotta contro nuove forme di sfruttamento ed estrazione di valore.

Il debito appare come un’immagine “invertita” della produttività della nostra forza lavoro, della nostra potenza vitale e della politicizzazione (valorizzazione) dei compiti riproduttivi. Lo sciopero femminista grida “ci vogliamo vive, libere e senza debito!” rendendo evidente la finanza come conflitto e difendendo così la nostra autonomia. È necessario comprendere l’indebitamento di massa che ha messo le sue radici nelle economie popolari femminilizzate e nelle economie domestiche come una “contro-rivoluzione” quotidiana, come un’operazione nel terreno stesso in cui i femminismi hanno scosso tutto.

Prendendo la finanza come terreno di lotta contro l’impoverimento generalizzato, il movimento femminista pratica una contro-pedagogia nei confronti della violenza della finanza e delle formulazioni astratte per lo sfruttamento di corpi e territori.

L’aggiunta della dimensione finanziaria alle nostre lotte ci consente di mappare i flussi del debito e di completare la mappa dello sfruttamento nelle sue forme più dinamiche, versatili e apparentemente “invisibili”. Comprendere come il debito estrae il valore dalle economie domestiche, dalle economie non retribuite e dalle economie storicamente considerate non produttive, ci consente di vedere gli apparati finanziari come veri e propri meccanismi di colonizzazione della riproduzione della vita. Ci permette anche di comprendere il debito come un dispositivo privilegiato per il riciclaggio di flussi illeciti e, quindi, di cogliere il legame tra le economie legali e illegali e l’aumento dei mezzi di violenza diretta contro i territori. Ciò che il debito sta cercando è proprio un’“economia dell’obbedienza” al servizio dei settori ad alta concentrazione di capitale, in cui la carità viene utilizzata per depoliticizzare l’accesso alle risorse.

Tutto ciò ci offre, ancora una volta, possibilità più ampie e complesse per interpretare le molteplici forme di violenza che reclamano i corpi femminilizzati come nuovi territori di conquista. È necessaria una risposta femminista alla macchina del debito, che agisca contro il meccanismo della colpa alimentato dalla moralità etero-patriarcale e dallo sfruttamento delle nostre forze vitali.

Traduzione di Elvira Vannini. Questo articolo è stato pubblicato su hotpotatoes il 10 gennaio 2020.

Il testo Eight Theses on the Feminist Revolution è tratto da La potencia feminista (Tinto Limón, 2019) che sarà pubblicato in inglese da Verso Books nel 2020. Per dare un’idea del contesto argentino in cui Verónica Gago ha scritto il libro, oltre mezzo milione di donne si sono mobilitate in seguito alle imponenti marce seguite allo sciopero nel 2017; 800.000 donne erano in strada per l’International Women’s Day nel 2018 e nel 2019; nel corso del 2018 hanno avuto luogo massicce mobilitazioni per la legalizzazione dell’aborto.

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