di SANDRO CHIGNOLA.
Tornare sulle lotte che hanno attraversato il settore della logistica e del movimento merci può forse essere utile se al centro del nostro dibattito si pone la questione della trasformazione del sindacato. Per farlo, organizzo questo articolo attorno a tre nodi. Il primo è un reminder. Riguarda una breve cronaca delle lotte. Il secondo mette a tema il recente accordo stretto tra la Federazione dei trasportatori (FEDIT) e i sindacati confederali. Il terzo la lezione che è possibile trarre, in previsione dell’autunno, dal ciclo di lotte appena concluso.
Sottolineare ancora una volta la centralità del settore della logistica nel sistema di accumulazione capitalistico contemporaneo può apparire superfluo. E tuttavia può forse essere interessante non solo ricordare qualche dato, ma metterne a fuoco gli effetti. Tanto la subfornitura quanto la movimentazione merci hanno acquisito una crescente centralità nel deterritorializzarsi dei flussi di produzione. In questione non è solo la crescente rilevanza dei magazzini e delle scorte nella gestione di processo ingegnerizzata dal just in time e direttamente organizzata dalla domanda del mercato, ma l’operatività stessa dello schema che mette a valore la delocalizzazione produttiva, i cuircuiti dell’informazione, le reti della cooperazione diffusa. La logistica attrae e valorizza capitali, traccia per essi nuove rotte, modula secca estrazione di plusvalore assoluto e saldi positivi di plusvalore relativo aiutando ad intrecciare i nodi e a vincere le rigidità e le resistenze nella divisione internazionale del lavoro. Sulla logistica si investe ed essa esce a testa alta dalla stessa crisi del capitalismo globale.
Non è di sola ed arcaica fatica fisica che si tratta, perciò, quando si parla delle lotte dei facchini. È piuttosto di segmenti avanzati della composizione tecnica del capitale, di quella stessa concatenazione tra macchine estrattive e dispositivi finanziari su cui si rilancia oggi la valorizzazione capitalistica, che parliamo perimetrando la solo apparente marginalità delle ristrutturazioni delle imprese della logistica e delle lotte che le hanno segnate ed attraversate in particolare nella pianura padana. Un secondo dato ce lo conferma. Non solo gli addetti alla logistica sono andati continuamente aumentando di numero nel corso degli ultimi anni (in Italia le stime ufficiali danno 450mila impiegati, anche se, in un settore ad alta precarizzazione e lavoro nero come questo, si ritiene essi possano realisticamente essere circa 700mila), ma l’espansione della sua sfera d’azione si accompagna ad un massiccio ingresso di migranti di prima e seconda generazione nel mercato del lavoro. La mobilità delle merci e delle forniture è ribadita dalla mobilità della forza lavoro. Ciò segna in maniera massiccia la dimensionalità specifica dei circuiti della logistica. Non soltanto gli spazi sui quali essa lavora sono spazi del tutto indipendenti dai confini nazionali e ritracciano, piuttosto, le frontiere del capitale dentro ed oltre di essi – gli hubs padani della logistica connettono immediatamente l’area metropolitana del Nordest all’Europa (per i vettori mercantili) e al Maghreb (per il lavoro vivo) più di quanto non territorializzino, in termini di valore, sui territori nei quali sono allocati -, ma la geografia che essi disegnano (proprietà, capitali sociali, flussi della rendita, rimesse degli stessi lavoratori migranti) non è facilmente restituibile con le mappe abituali. Ciò che accade alla Granarolo o all’IKEA – o che accade nei magazzini di AMAZON in Germania e in Francia o della FOXCONN vicino a Praga – allude a processi molto più generali di riconfigurazione delle geografie del capitale.
La serie di lotte – e va ricordato, spesso vincenti – che hanno bloccato i magazzini dell’Emilia Romagna, della Lombardia, del Veneto e di altre regioni italiane nel corso dell’ultimo anno hanno denunciato i limiti raggiunti dall’esternalizzazione del processo produttivo nei settori della movimentazione merci. Solo nel bolognese sono oltre una settantina le cooperative spurie che hanno in appalto il carico-scarico delle merci e che non aderiscono a nessuna delle grandi centrali cooperative (AGCI, Confcooperative, Legacoop) che insieme hanno dato vita all’Alleanza delle Cooperative. Sfruttando i vantaggi offerti dalla fiscalità agevolata e della specifica disciplina normativa che ritaglia la figura del «socio lavoratore», le cooperative che appaltano i lavori e la gestione dei magazzini svolgono fondamentalmente il ruolo di intermediatori di lavoro a basso costo per i committenti. Nessuna applicazione dei contratti nazionali, scarsissime tutele, turnazione degli orari di lavoro e ripartizione delle ore lavorate (e quindi del salario) assolutamente discrezionali e discriminatori da parte dei caporali, caratterizzano un mondo, quello della cooperazione, a forte infiltrazione mafiosa e che si sostiene sullo sfruttamento e sulla precarizzazione.
Tre scioperi nazionali nell’arco dell’ultimo anno e mezzo e una serie lunghissima di mobilitazioni, picchetti, presidi, lotte per il reintegro di lavoratori in lotta licenziati, hanno sfidato questa situazione e recuperato forme e strumenti dell’organizzazione operaia delle quali sembrava quasi persa la memoria rendendo di fatto ingovernabili i magazzini. Centrali, in questo processo, sono stati i sindacati di base (SiCobas e ADL-Cobas), ma lo sono stati indubbiamente gli stessi lavoratori migranti. Negli ultimi mesi la permanenza e la radicalità della mobilitazione ha prodotto risultati significativi sia per quanto riguarda il recupero diretto del reddito (le buste paga delle cooperative molto spesso eludono ore lavorate, straordinari, ferie non godute…), sia per quanto riguarda le condizioni di lavoro, e ancora, infine, per il riconoscimento e per la tutela dell’accessibilità politica dei delegati e dei quadri sindacali di base. Le cronache, basta uno sguardo in rete per chi non abbia seguito in prima persona le mobilitazioni, riferiscono di queste conquiste come ottenute al prezzo di una radicalità e di forme di lotta incontenibili nel quadro della concertazione o della rappresentanza sindacale classica.
Il recente accordo tra la FEDIT – l’associazione padronale che raggruppa alcuni dei principali gruppi per la movimentazione merci quali TNT, BRT, GLS – e i sindacati confederali assume come una grande occasione di ristrutturazione complessiva delle relazioni industriali il percorso di mobilitazione e di lotta dei facchini delle cooperative. Esso registra esplicitamente l’ingovernabilità che si è venuta producendo nei magazzini esternalizzati alle cooperative, parlando di «un crescendo di conflittualità fuori controllo, con fenomeni di illegalità diffusa, suscettibili di strumentalizzazioni di varia natura» che deve essere normalizzata. L’accordo, che pare non verrà immediatamente applicato nei magazzini dove è forte la presenza dei Cobas e contro il quale già si va organizzando la mobilitazione, registra una volta di più la trasformazione del sindacato «tradizionale», come abbiamo avuto già modo di definirlo in articoli pubblicati su questo sito. Esso registra la convergenza tra organizzazioni padronali e sindacato sull’obiettivo tattico di riportare sotto controllo i magazzini e su quello strategico di adoperare la denuncia operaia delle forme di illegalità e di sfuttamento selvaggio che attraversano la cooperazione spuria per ristrutturare in profondità l’organizzazione del lavoro.
Un rapido sguardo all’accordo conferma immediatamente questo dato. Esso si pone l’obiettivo di avviare un processo di stabilizzazione dei lavoratori che metta in grado quest’ultimi di vedere riconosciuti e garantiti i propri diritti. Farlo, significa in primo luogo limitare l’esternalizzazione alle cooperative e marginalizzare il ruolo di quest’ultime spingendo quelle più forti a trasformarsi in SRL e ad assumere direttamente coloro che sino ad ora erano invece considerati «soci lavoratori». A questa «internalizzazione» del rapporto di lavoro, facilmente vendibile come una conquista contro la precarietà, si accompagna tuttavia una flessibilizzazione che ricalca ritmi e modalità del caporalato che viene abolito. Al lavoratore viene chiesto di essere a disposizione dal lunedì al sabato per 13 ore al giorno per essere chiamato a operare da un minimo di 4 ad un massimo di 10 ore. Tutti i lavoratori assunti sulla base di questo accordo saranno tenuti ad essere reperibili in ore non lavorative per sopperire ad esigenze aziendali e i lavoratori non potranno rifiutarsi di rispondere alle chiamate in cambio di un’indennità che, però, non viene definita. Permessi ed ex festività vengono concessi e retribuiti in base ad obiettivi di produttività (presenze, colli per ora per uomo, eventuali errori, danni). Il sabato non sarà mai retribuito con la maggiorazione e le ore di straordinario verranno conteggiate alla fine dei sei mesi sui quali si calcola la media delle ore retribuite. Il mantenimento dei livelli (che introduce però un 6 livello junior e di prova anche per chi lavora da anni sulle linee di movimentazione delle merci e che viene ora assunto a tempo indeterminato) tende a riprodurre i vantaggi in precedenza offerti dal subentro di cooperativa. L’applicazione di questo accordo abolisce infine di fatto la contrattazione di secondo livello che ha permesso di ottenere molti risultati nel corso delle mobilitazioni degli ultimi due anni.
Il contratto a tempo indeterminato e l’internalizzazione dei magazzini – saranno ora i grandi gruppi ad assumere direttamente i facchini – recepiscono le rivendicazioni dei lavoratori, ma le subordinano perciò ad una ristrutturazione generale dei rapporti di lavoro nella logistica. All’interno di quest’ultima, i sindacati tradizionali agiscono un ruolo non solo concertativo, ma di partecipazione attiva, risignificando la propria funzione come attori della governance neoliberista. Alberto De Nicola e Biagio Quattrocchi ce lo hanno recentemente ricordato: «proprietarizzazione della contrattazione e funzione di controllo all’interno dei luoghi di lavoro» – l’accordo stretto con le organizzazioni dei trasportatori vale anche laddove i sindacati confederali sono in netta minoranza e non sono stati pochi i casi, a fronte degli scioperi e dei picchetti dei facchini, in cui quest’ultimi hanno sostenuto l’azione repressiva della polizia e dei crumiri – sono le forme attraverso le quali quella funzione si esplica. E non solo. La marginalizzazione delle cooperative spurie e la trasformazione delle grandi cooperative in SRL prevista implicitamente dall’accordo disegna una profonda trasformazione degli assetti dell’imprenditorialità della logistica.
A fronte di quest’accordo si prepara la mobilitazione. Ed è su questo che intendo concludere questo contributo alla discussione. Vi è chi ritiene che il protagonismo dei picchetti possa immediatamente prefigurare una ricomposizione della soggettività antagonista attorno alle figure del lavoro precario che si sono incontrate e sostenute di fronte ai cancelli. Vi è chi ritiene che il potenziale della situazione sia invece compromesso dall’intervento di sindacati di base più intenti a rafforzare la propria posizione che inclini a generalizzare e socializzare le lotte. Certo, il terreno sul quale si sono prodotte le mobilitazioni – conflitti di lavoro, legati alla particolare organizzazione dei magazzini e ad una composizione soggettiva trainata dai migranti – non è facilmente aggirabile e mantiene intatta la sua specificità. E tuttavia, leggere questi processi con un occhio all’Europa – a quello che è successo nei magazzini di Amazon in Germania, ad esempio – permette forse di cogliere questo terreno come terreno di sperimentazione e di innovazione di pratiche – sindacali in senso proprio e non – volte a ridefinire il senso del lavoro politico sullo specifico del lavoro migrante e precario. Decentrare lo sguardo aiuta. E si è obbligati a farlo, quando si guarda a rotte e tracciati della messa a valore che attraversano e rimodulano in base all’operatività del capitale le mappe dei territori che siamo soliti frequentare.
Le lotte dei facchini ci parlano delle potenzialità dei blocchi della circolazione delle merci. E la presenza – da mesi – dei blindati della polizia presso l’IKEA di Piacenza ce lo conferma indirettamente. Le difficoltà a costruire questo tipo di conflittualità su altre forme del lavoro migrante e precario, ci indicano quanto duro e difficile sia ancora il compito dell’organizzazione. La metropoli non è uno spazio liscio sul quale scivoli l’accumulo delle lotte. Essa è il piano striato, ancora tutto da conquistare, in cui si inseguono linee di fuga e dispositivi di cattura. Un nuovo sindacalismo sociale è su di esso che dovrà essere inventato.