In copertina un’illustrazione dell’intervista di Claudio Calia.
Riprendiamo qui un’intervista a Giacomo e Piero Despali di Ivan Grozny Compasso per Padova oggi, uscita in due puntate il 19 e il 26 gennaio 2020.
Di IVAN GROZNY COMPASSO.
I. Gli “autonomi”: «Ora quella storia ve la raccontiamo noi»
Giacomo e Piero Despali sono due fratelli sulla soglia dei settant’anni. I due non si parlavano da trenta. I loro nomi ai più diranno poco o nulla, ma hanno contribuito a scrivere una pagina di storia sempre molto discussa ma mai raccontata dai protagonisti di quei giorni. Una pagina per molti controversa e piena di ombre, che copre il periodo che va da metà anni settanta fino ai primi ottanta con l’intervento della magistratura. Una pagina che “gli sconfitti” avevano sempre lasciato in bianco e che ora hanno riempito tanto da farne un libro, in uscita il 30 gennaio edito da Derive e Approdi.
Terrorismo e Wikipedia
Se si va ad esempio sulla pagina di wikipedia, la voce “collettivi politici per il potere operaio” è catalogata come gruppo terroristico. Se è come dice l’enciclopedia online, quelli che stiamo intervistando sono due ex terroristi? «Ha colpito molto anche me trovare quel tipo di definizione la prima volta che l’ho cercata – racconta Giacomo, il più grande dei due – quindi vuol dire che è tempo che si racconti in prima persona chi eravamo, cosa abbiamo fatto e riportare a galla l’atmosfera, le situazioni e le motivazioni dell’epoca, oltre che la repressione, le persecuzioni giudiziarie e i morti». Prende fiato e aggiunge: «Terrorismo è uccidere indiscriminatamente, terrorismo sono le stragi: le bombe sui treni Italicus o quella alla stazione di Bologna o alla Banca dell’Agricoltura. Quello è stato terrorismo». Lo spiega con calma, prendendosi il suo tempo, Giacomo. Lo farà per tutto il corso di questa intervista, circa quattro ore di risposte e spiegazioni molto dettagliate che vista la complessità del tema e la vastità di informazioni raccolte abbiamo deciso di dividere in due parti, questa la prima. «Se lo fossimo stati – prosegue Giacomo – terroristi, saremmo stati isolati, cosa che proprio non era. Agivamo in un contesto sociale ampissimo, come era l’area della sinistra del tempo. Certo, eravamo consapevoli che ci sarebbe stata la ferma risposta delle istituzioni e anche la repressione, che puntualmente è arrivata, ma erano in tanti ad essere coinvolti in questo percorso che al tempo sembrava possibile. Il contesto internazionale del tempo ci autorizzava a farlo. Se il Veneto è una regione in cui vige lo strapotere della Democrazia Cristiana, nel mondo c’è l’Unione Sovietica, la Cina di Mao, Cuba con Castro. Agli inizi degli anni Settanta si respirava questa atmosfera tra chi si sente militante rivoluzionario per il comunismo».
Logica collegiale
Voi non avevate dei capi a differenza di altre organizzazioni: «All’interno dei collettivi c’erano quelli con più responsabilità e quindi più esposti a rischi e quelli meno». Voi facevate certamente parte della prima categoria, ma è troppo semplicistico dire che siete voi che avete dato vita alla stagione degli “autonomi” ? «Noi siamo tra i tanti», risponde secco Giacomo. Quindi sì, rilanciamo: «La logica della leadership non ci apparteneva, un altro conto – interviene Piero – è invece assumersi delle responsabilità. Noi le abbiamo avute, maggiori e a volte più di altri, ma sempre dentro una dinamica collegiale, di condivisione di un punto di vista. Non c’era un capo, non ne avevamo bisogno». Poi fa notare: «Basta dire che per noi l’egualitarismo era una battaglia che portavamo nella società, ma concetti ad esempio come l’uguaglianza tra uomo e donna al nostro interno erano un dato già acquisito».”
Come vi definireste? «Noi eravamo dei militanti rivoluzionari, molto scolarizzati. L’elemento fondamentale, per quanto riguarda il nostro percorso, è una soggettività pur giovane, che ha un alto tasso di istruzione. A quel tempo accedere agli studi era facile e anche l’Università non costava. I percorsi e le proposte formative erano molto vari. C’erano i seminari di professori come Negri, Ferrari Bravo e Bologna. La qualità di chi ci formava era di un certo livello. L’Università attirava giovani da tutta Italia. Poi però nelle università c’erano anche docenti e militanti fascisti. Erano tanti in città». In quegli anni vi scontravate nelle strade: «Sì – interviene Giacomo – ma non ci abbiamo messo molto a relegarli in via Zabarella, mentre prima giravano indisturbati in tutta la città. A quel punto l’unico luogo sicuro era la sede del MSI, che si trovava proprio in quella via. E questo tipo di percorso si vedeva. Alcuni compagni erano stati aggrediti così sono nate delle ronde che sono passate dall’intervenire in aiuto al prevenire il problema, in poco tempo». Eravate tanti, non certo una realtà marginale: «Non era un discorso solo numerico, noi vivevamo la città e il territorio. Ne eravamo parte integrante. Per questo non abbiamo mai voluto scegliere la clandestinità, perché volevamo vivere alla luce del sole la felicità del cambiamento che vivevamo o che comunque auspicavamo. Questo fino a che non è nata l’inchiesta Calogero col suo teorema. Non eravamo in un ghetto, dietro c’era un humus sociale e culturale che coinvolgeva tutti gli strati sociali della città. I ceti di provenienza erano variegati. La città era coinvolta, c’era un radicamento vero, sociale. Per questo abbiamo tenuto anche sul piano processuale, al contrario di realtà analoghe in altre città. Perché siamo rimasti uniti. Nell’epoca del pentitismo e della dissociazione, gli strumenti che lo Stato usava per colpire i movimenti, noi non abbiamo scelto né l’una e neppure l’altra». I Despali hanno passato gli ultimi due anni e mezzo a rileggere tutti gli atti dell’inchiesta del giudice Calogero, compresi gli interrogatori.
Il giudice Calogero
«Per Calogero è stato fondamentale l’aiuto con testimoni e strumenti politici della federazione di via Beato Pellegrino del PCI. Per quel partito è intollerabile la presenza di qualsiasi realtà che stia alla sua sinistra. Il PCI è dal ’68 che faceva fatica a leggere la realtà delle fabbriche e men che meno le istanze giovanili. Per loro eravamo quindi una grana». E Calogero? «Lo convincono che Padova è “la centrale” che mette in pericolo la democrazia. Lui ci crede con un atteggiamento direi fanatico. In quella fase politica in città il radicamento dei collettivi politici e del movimento rivoluzionario era molto forte. Sono gli anni in cui il partito di Berlinguer lavora per mettere in atto il compromesso storico». Lo racconta tutto di un fiato: «È anche da Padova che parte la voce che i telefonisti delle BR che parlano con la famiglia di Aldo Moro fossero il giornalista de l’Espresso Pino Nicotri e il professor Toni Negri. La voce di Negri è inconfondibile, impossibile confondere lui con qualcun altro o viceversa». E chi dice di riconoscere queste voci e le distingue? «Un assistente di matematica a Ingegneria, Renato Troilo che del PCI faceva parte, dice di riconoscere la voce di Pino Nicotri, cosa che non è assolutamente vera». Poi Piero Despali, fa un passo indietro: «Nel 1976 Calogero processa trentatre fascisti a Padova e alcuni di noi, forse con un po’ di leggerezza, chiamati a testimoniare contro gli imputati, ci vanno. È nella logica che contro i fascisti vale tutto – sottolinea con un sorriso sarcastico ma non troppo compiaciuto – così Calogero comincia a raccogliere informazioni su di noi e allo stesso tempo si costruisce una certa fama».
La CIA
Però voi sorridete quando si accenna a teorie su complotti e “grandi vecchi” che dirigono masse e sistemi: «Magari ci fosse stata una grande organizzazione alle spalle, magari internazionale – scoppia in una grande risata Giacomo – invece non è affatto così. E vale lo stesso per la nostra vicenda processuale». Interviene di nuovo Piero, che con tono questa volta molto sarcastico ma non per questo meno serio, dice: «Ma certo che ci credeva Calogero e ha fatto di tutto per dimostrare la sua tesi. Che non stava in piedi, certo. Ma questo perché il giudice Calogero non aveva gli strumenti per comprendere i movimenti. Utilizzava degli schemi con l’approccio di un maniaco sulla preda più che quello di uno che vuole accertare dei fatti. Credeva che fossimo pagati dalla CIA», sottolineato con una risata.
Violenza politica
È raro che i due si lascino andare ad entusiasmi, ma le poche volte in cui ridono non è mai per vero divertimento ma solo a sottolineare paradossi. Come quando chiediamo ingenuamente come si può raccontare a chi è nato negli anni Zero quel periodo, quel modo di stare in piazza fatto anche di scontri, di molotov e di colpi d’arma da fuoco. Oggi si giudica più il modo di stare in piazza che i contenuti e le rimostranze che si vogliono evidenziare, dalle “sardine” alla fiaccolate per intenderci: «Com’è cambiato il mondo, una volta in strada si alzava in alto il pugno in segno di lotta, oggi si avanza con le mani alzate – ci scherza su, Giacomo – ma è impossibile rapportare la realtà attuale a quella di quegli anni». Sottolinea Piero: «Non si possono paragonare le due epoche. Ai tempi la cosiddetta “illegalità di massa”, come ad esempio le occupazioni o gli espropri proletari, era molto praticata e diffusa. La violenza politica era vista come una possibilità in risposta alla violenza delle istituzioni, alle carceri o ai pestaggi nelle caserme e nelle questure. Ma non c’entra nulla con l’omicidio politico che noi abbiamo sempre rifiutato. Non per questo non sapevamo da che parte stare. Non si può valutare quell’epoca usando gli strumenti interpretativi che si utilizzano per comprendere il tempo presente, come ci fosse una continuità. Per questo nel libro descriviamo e entriamo nel dettaglio perché non è solo il contesto ma la complessità di quel tempo che è indispensabile comprendere se si ha davvero voglia di capire. Soprattutto per un padovano, poi si può apprezzare oppure no, ma c’è l’opportunità per la prima volta di sentire raccontare quella storia da dentro e non come è stata vista, interpretata e giudicata solo attraverso un tipo di narrazione assolutista e pregiudizievole».
Lega
Il racconto di una sconfitta: «Certo sì, il racconto di una sconfitta. Ma noi raccontiamo tutto nel libro, proprio tutto. E a pensarci oggi, questo sì, non è andata bene neppure per i vincitori di allora. Guarda caso oggi vola la Lega, la cui nascita coincide proprio con la chiusura dell’esperienza dei collettivi politici veneti».”
II. Affinità e divergenze tra Autonomia Operaia e Brigate Rosse
A pochi giorni dall’uscita de “Gli Autonomi, storia dei collettivi politici per il potere operaio”, nelle librerie dal 30 gennaio, ecco la seconda parte dell’intervista ai due fratelli Despali, protagonisti assoluti di una vicenda che ancora oggi divide. Farci raccontare la storia degli anni Settanta secondo il punto vista dei protagonisti è una occasione che non potevamo davvero lasciarci sfuggire. Ma cosa animava tanti giovani in quegli anni cosa era il sogno che si andava inseguendo: «L’unità dei comunisti – lo spiega Giacomo Despali – non era un sogno. In diversi Paesi si è dimostrato che è una cosa che poteva succedere. Non un’utopia, non un sogno ma una possibilità concreta. Oggi mi rendo conto che è difficilmente comprensibile ma allora questo si cercava. Si agiva tutti all’interno di una stessa area politica ma c’erano pratiche e differenze organizzative tra le varie realtà. Strutturarsi come collettivi, nel nostro caso, è stata una scelta politica e organizzativa».
L’intervista
«Ci strutturiamo, non si può lasciare al caso nulla. Diventa indispensabile rafforzare i rapporti interni, sapere sempre chi si ha a fianco», spiega Giacomo. Un aspetto che permetterà ai collettivi padovani di rimanere sempre uniti, anche a fronte di divisioni che invece investono tante realtà simili in tutta Italia. «Per riuscire davvero a determinare un progetto maturo di cambiamento che mette insieme tutti coloro che agivano all’interno dell’area comunista era l’unica possibilità per cambiare un Paese come il nostro. Serviva non solo la lotta ma anche il ragionamento, l’analisi, il confronto. Una crescita collettiva che esclude il nascondersi o la clandestinità ma che ha bisogno di essere condivisa pubblicamente». Questo metodo organizzativo e questa scelta politica si rafforza ancora di più dopo l’episodio di Ponte di Brenta.
Un episodio che segna la vita di un giovanissimo Piero Despali che in quel momento ha solo 22 anni. La mattina del 4 settembre 1975, verso le dieci e trenta, alla periferia di Ponte di Brenta una pattuglia della polizia stradale ferma una Fiat 128 per un controllo. Nell’auto vi sono due giovani, Carlo Picchiura e Piero Despali. I due si conoscono ma Despali non sa che Picchiura ha scelto da qualche giorno di entrare nelle Brigate Rosse e di conseguenza in clandestinità. Si incontrano quasi per caso, Despali è vicino casa sua senza documenti e in ciabatte. Picchiura lo vede, lo fa salire in auto dove cominciano una conversazione. I due si conoscono da molto tempo. Così quando li fermano, è il primo dei passaggi forti della prima parte del libro, Picchiura pur non essendo ricercato, reagisce. Ne nasce una sparatoria in cui perde la vita l’appuntato Antonio Niedda, che rimane ucciso. Despali rimane sorpreso mentre le pallottole gli fischiano sopra la testa. Con l’arrivo di altre pattuglie, Picchiura e Despali vengono arrestati. La posizione di Despali viene in poco tempo chiarita. Despali viene arrestato e massacrato di botte in questura e passa un mese in isolamento, dopodiché viene scarcerato.
«Nel 76 – racconta Giacomo – il progetto cresce e oltre al coinvolgimento degli studenti è forte anche la componente operaia. Negli anni poi aumenta sempre più il numero di giovani che scelgono di venire a studiare a Padova proprio per vivere questo tipo di esperienza». Pratiche e idee si diffondono tanto che nascono collettivi in tutta Italia. Nel 1977 c’è l’omicidio di Francesco Lorusso, ucciso da un proiettile sparato da un carabiniere di leva: «E’ chiaro che a quel punto ci si chiede se è ancora giusto che a sparare sia solo lo Stato. E i giorni successivi a Bologna, e soprattutto la manifestazione nazionale di Roma, hanno mobilitato centinaia di migliaia di persone, armate, per le vie del centro della Capitale. Giacomo cita il brigatista Mario Moretti per puntualizzare un aspetto: «Lui dice che del “movimento del ’77” non ci ha mai capito un cazzo, io dico che si vede. Infatti loro non hanno saputo comprendere cosa stava accadendo fuori dalle fabbriche». Le BR in quell’anno rapiscono e uccidono. «Noi ci domandiamo cosa vuol dire usare la forza – interviene Piero che racconta un episodio accaduto a Padova – se penso a quanto successo al Portello nel maggio del 1977 dove abbiamo di fatto riprodotto situazioni che stavano accadendo a Milano e Roma. Quel giorno abbiamo messo in campo un sacco di iniziative, le più diverse. Abbiamo bloccato le strade, fatto espropri nei supermercati. Gli scontri a quel punto sono stati inevitabili e durissimi. Quattro compagni furono arrestati». Quell’anno comincia l’inchiesta del giudice Calogero che porterà agli arresti del 7 aprile 1979 e proseguirà con gli arresti dell’11 marzo 1980. Calogero e il suo teorema che descrive Padova come la centrale del terrorismo in Italia. Nella vicenda giudiziaria si incrociano anche le vite di due giudici, Calogero ovviamente ma anche Palombarini.
«La lettura di Palombarini, che è quello che ci manda a giudizio – racconta Piero – si differenza da quella di Calogero, proprio nell’impostazione. Calogero sostiene una serie di puttanate, cioè che ogni realtà rivoluzionaria agisce sotto una unica regia, che Toni Negri è capo delle Brigate Rosse. Cose che non stanno né in cielo né in terra». Tra gli Autonomi e le Br c’erano visioni assolutamente opposte. Già l’idea di clandestinità cozza con lo stile di vita, «noi vivevamo, ci divertivamo, non ci nascondevamo affatto. Non era sacrificio la lotta politica, tutt’altro». Pur non usando dei riferimenti diretti fanno intendere non solo una visione del mondo ma anche dell’intendere le battaglie sociali. La sparatoria di Ponte di Brenta ci dice che i militanti politici in quegli anni si conoscevano tutti anche se appartenenti ad altri gruppi. Erano ragazzi e ragazze molto giovani che avevano spesso condiviso gli studi, quindi incontrarsi non era insolito. «Noi nel libro raccontiamo anche delle gambizzazioni ma mai abbiamo accettato il concetto e la pratica dell’omicidio politico. Ovvio che pensato oggi sembra tutto assurdo. Ma non si può davvero paragonare i due periodi. Più che contestualizzare bisogna capire quello specifico momento del Novecento che aveva un certo tipo di caratteristiche. Se lo rapportiamo ad oggi facciamo una operazione davvero sbagliata»
Palombarini, giudice istruttore è contraltare di Calogero, sostiene che i collettivi, la loro struttura, sono sì banda armata ma che non c’era nessuna regia al di fuori del contesto territoriale in cui agivamo. Anche Palombarini fa una forzatura per far passare la sua tesi, sorvolando anche su limiti di tipo giuridico». L’arresto di un giovane, Andrea Mignone, fa precipitare le cose dal punto di vista della repressione. La sua casa viene perquisita e non viene trovato nulla. Mignone però sa che in casa sua ci sono delle armi, non dice nulla agli inquirenti ma avverte il padre che invece di farle sparire lo denuncia ai carabinieri. «Una vicenda che investe anche la moglie dell’arrestato Miriam, che è uno dei miei grandi dolori – racconta Piero visibilmente toccato – perché questa ragazza sarà dopo additata da tutti come una infame perché si pensa sia stata lei a mettere gli inquirenti sulle tracce delle armi. Mentre invece lei non ha nessuna responsabilità. Quello che subisce, ed è stata anche troppo forte a resistere a una situazione in cui non solo veniva isolata ma caricata di responsabilità che sicuramente non aveva, è tremendo, tanto da portarla a togliersi la vita. Una tragedia di cui siamo tutti responsabili e che si poteva cercare di evitare. Un peso che è difficile togliersi».
«Sono le nuovi generazioni che devono trovare la nuova via, ognuno ha la propria storia. basta che non siano i preti però la risposta. Non può essere Bergoglio il punto di riferimento. Questo è un po’ troppo. Una figura suggestiva, una brava persona ma è il Papa, rappresenta un potere con le sue contraddizioni interne che nascono dalla preoccupazione della sua sopravvivenza di fronte a cambiamenti epocali. Pensiamo al fenomeno dell’immigrazione, in una Europa a maggioranza laica se non atea, la Chiesa è chiaro che guarda a queste persone con interesse. È la forma missionaria attualizzata ai giorni d’oggi. Ovvio che di fronte a tanto razzismo la carità sembra rivoluzionaria». La fine della vostra esperienza coincide con la nascita della Lega, un caso? «Bisogna non dare il pesce, ma insegnare a pescare, è uno dei tanti slogan che fece suo Umberto Bossi trasformandolo però in una parola d’ordine razzista. Anche noi dicevamo che bisognava cambiare e costruire a casa propria, prendere in mano il proprio destino. Una volta erano concetti di sinistra mentre oggi si sono trasformati in parole d’ordine razziste e in slogan di destra. Questo mentre dall’altra parte quello che era per noi ciò che andava combattuto è diventato oggi il riferimento, il punto di vista. È proprio cambiato il mondo e adesso è chiaro che tutto è ancora più difficile». Una curiosità che mi è venuta subito dopo aver finito il libro è sapere perché non vi siete parlati per trent’anni. Come mai Giacomo? «Non sono affari tuoi». Interviene Piero che finalmente si è rilassato e cerca un contatto fisico con chi lo sta intervistando. Ridendo questa volta davvero divertito, batte sulla spalle del suo interlocutore e dice: «Sono cazzi nostri, certo».