di GIROLAMO DE MICHELE.

Mio padre la rivoluzione (minimum fax, 2017, pp. 314, € 18), scritto così, senza segni d’interpunzione: a comunicare al lettore una doppia genealogia, nella quale i due corni si ripiegano l’uno sull’altro.
La rivoluzione è quella del 1917, della quale è figlio l’autore, e della quale siamo figli tutti noi. Ma l’autore è figlio di un padre, come tutti noi che abbiamo un padre biologico, come Robert Zimmerman che è figlio di Abe e Beatrice, figli di Zigman e Anna, e Florence e Ben, figli e figlie di un mondo «non sempre governato da uno spirito di muri e fili spinati» che «a volte consentiva la fuga»:

E se non puoi viaggiare o il viaggio ti uccide, tu sei il padre o la madre di non sapremo mai chi,e da questo spirito odierno del mondo fatto di muri e fili spinati tuo figlio non nascerà, i tuoi nipoti non nasceranno, non nasceranno altri Zimmer Man figli del viaggio, nasceranno invece cloni perfetti e mediocri al di qua del muro, e l’uomo nuovo ripeterà il vecchio.

Ma abbiamo anche padri elettivi o inventati, come Robert Zimmerman che si sceglie Woody Guthrie che non lo designa come suo erede, e poi si sceglie un profeta prima armato, poi disarmato e in esilio letto nella trilogia di un comunista polacco,e sarà la percezione di questo respiro e di questa volontà a fare di lui un musicista che, in un’altra vita, vincerà il Nobel e lo dedicherà a Lev Bronsteijn, in arte Trockij.
E il rapporto col padre, con buona pace degli Edipo for dummies e degli Edipo-baubau del lacaniani da televisione, è complicato tanto quanto quello con la rivoluzione: talmente complicato da non riuscire a risolverlo in una lettera al padre, e di doverci scrivere un libro per spiegare perché non si è scritta quella lettera, e di spiegare il perché no di quella lettera con altre lettere, come capsule del tempo che viaggiano dal passato al presente – come quella di Bucharin alla moglie Anna per raccomandarle di tendere, ma non spezzare, le corde dell’anima, o di Victor Serge a Togliatti per denunciare l’infamia della carcerazione del rivoluzionario Francesco Ghezzi (alla quale Togliatti risponde con un infame “non è compito mio”); o dal presente al passato, come quella di Anna al marito Bucharin scritta nel 1992.
E complicato è il rapporto con la Rivoluzione, con i suoi sviluppi, i suoi esiti: con la moltiplicazione dei piani che ruotano attorno all’interrogativo sull’uso della violenza per creare una società senza violenza, sull’uso del terrore (il terrore della guerra rivoluzionaria è già quello staliniano, o no? può esserci rivoluzione senza terrore?), sulle alternative mancate, sulla figura di Lenin e l’ombra di Stalin. E l’ombra del padre dell’autore, nato nel fascismo e approdato durante la guerra, dopo il viaggio attraverso il fascismo, al comunismo, alla lotta contro la mafia che gli americani insediano al governo della Sicilia.

Così, l’unico modo per narrare ciò che non può essere scritto in una sola lettera è moltiplicare i piani, trasformare la Storia con la maiuscola in una molteplicità di ucronie che a volte si incontrano e altre no. In un diverso tempo, Trockij sopravvive all’attentato e, nel ’56, assiste alla rivoluzione ungherese e cerca di scrivere l’ultimo messaggio politico della sua vita; in un altro, Stalin è il robot positronico Koba, che Lenin costruisce per i figli della rivoluzione in attesa dell’avvento dell’uomo nuovo e Koba infrange la prima legge della robotica, quella che vieta al robot di recare danno a un essere umano, e per questo viene cacciato e si rifugia nel sarcofago del reattore numero 4 di Cernobyl; ma in un altro ancora, Julij Martov ha dissuaso Lenin dal coup d’état e preso il potere e imposto la pace assieme a Torckij e Bucharin (mentre Koba, il robot positronico, fuggito in Finlandia instaura una feroce dittatura), e grazie alla rivoluzione tedesca del ’21 Berlino divenne sovietica, e nello sprawl tra Berlino e Mosca la presidente della repubblica socialista Rosa Luxemburg può scrivere una lettera nell’anniversario della rivoluzione ai cittadini sovietici che si sentono «moderatamente felici, ossia quanto basta felici, cioè com’è giusto che sia»; ma in un altro ancora apprendiamo dell’avvento, nello sprawl tra Mosca e Berlino, del Führer Iosif Adolf Vissarionovic, chaotic evil astuto e concettoso, che «infettò il suo odio alle oligarchie dell’impero e ne contaminò il popolo, e sterminò il popolo, e a ogni sterminio acquistava punti carisma». E ci sono altri piani ancora, attraversati da eventi talmente reali da sembrare inventati: come il poetico reportage dalla Russia che Gianni Rodari scrisse nel 1969, per il centenario della nascita di Lenin; e la biografia del partigiano Kim, cioè Ivar Oddone, che il suo amico Calvino narrò nel Sentiero dei nidi di ragno e del quale vide il futuro, e che passò una vita intera a combattere da partigiano da medico contro la “monetizzazione del rischio” in fabbrica, «e la battaglia di Ivar che fu Kim il partigiano sta tutta nell’idea che la salute non si vende», e combatte il fascismo «con gli uomini nuovi della catena delle presse delle carrozzerie», inventando nuovi linguaggi e nuovi codici per quella cosa nuova che è la psicologia del lavoro, per comunicare la comunità scientifica allargata che va dagli operai e studenti ai medici e magistrati, così come aveva combattuto «coi compagni di lotta tra le colline le valli i sentieri»: e anche questo è Ottobre ’17

Romanzo in forma di racconti scritto per riempire il vuoto di una lettera che non può essere scritta al padre la rivoluzione, il libro di Orecchio ripete a ogni pagina che ciò su cui non si può tacere, si deve narrare. E narrando se stesso, ci dà le chiavi, o almeno alcune, per aprire le porte di una Rivoluzione che non è passata perché sta ancora passando. La prima, fra le molte, è quella che tiene insieme il discorso del padre e il discorso della rivoluzione: “Contro nessuno”, dove Odisseo, il padre dall’ingombrante eredità dei vecchi libri che cominciano con lo scaffale di Togliatti e Lenin, e poi si affastellano, scaffale dopo scaffale, da Gramsci a Lukács e Sartre e Foucault e Barthes fino a Djilas e Queneau, e «persino Brodskij e Cioran», torna a Itaca per compiere la sua vendetta contro i Proci – per esercitare la legittima violenza contro loro e contro le ancelle fedifraghe – e si confronta contro il figlio Telemaco che ne ha ereditato la biblioteca e gli racconta di una società senza socialismo di Stato e senza pianificazione, senza mercato e senza capitalismo,

senza necessità, guarda queste braci, guarda la cenere, vedi com’è diffusa ai piedi del fuoco?, così sarà il patrimonio dell’isola, nessuno sarà più povero, chiuderemo il petrolchimico e il maglificio, apriremo un’economia nuova.

Ma può esistere un uomo nuovo all’ombra del ritorno del padre, può esistere un tempo a-venire che non si liberi dal ritorno dell’uguale, nell’inconscio come nella Rivoluzione, insomma a Itaca?

La seconda chiave, fra le altre, “Cast”, non a caso al centro esatto del libro, è una straordinaria sarabanda di voci, testimonianze, fonti storiche che leggono la Rivoluzione, e il loro turbinìo sta a dirci che la rivoluzione la leggiamo sempre dal presente in cui siamo – «c’è il problema che voi mi giudicate dal vostro secolo comodo, dalle vostre poltrone borghesi, dalle vostre case ben riscaldate, ma io qui sono un bambino, sono al freddo e nel ghiaccio», dice altrove Koba, il robot bambino. E da queste voci ne emerge una che dice che

La rivoluzione bolscevica fu più “autentica” e popolare di quanto oggi siamo disposti ad ammettere; giudicare la storia sovietica come una catena di omicidi è solo una scusa per non riflettere su di essa. Se e quando tornerà un clima oggi inimmaginabile di rivoluzione, i giovani uomini e le giovani donne leggeranno e comprenderanno Trockij e Deutscher in un modo che a noi non è più consentito.

questa recensione è stata pubblicata in versione più breve sul manifesto del 21 novembre 2017, col titolo “Una doppia genealogia che è anche una ingombrante eredità”

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