del COLLETTIVO EURONOMADE.
Sono bastate poche ore a Gentiloni e Mogherini per indossare l’elmetto e acquattarsi ai piedi di Donald Trump: per calcolo politico – un governo in cerca di voti sa di poter mettere in difficoltà una parte dell’opposizione sull’appoggio al bombardamento americano –, ma anche per l’inesistenza dello spessore politico – una qualità necessaria per dire qualche no e assumere qualche posizione critica – di questa classe dirigente. All’indomani dell’eccidio di Idlib sarebbe stato necessario fermarsi, riflettere, accertare, e soprattutto pesare ogni gesto: che Trump non l’abbia fatto è nell’ordine delle cose, che non l’abbia né fatto né auspicato il governo italiano è un dato che fornisce la misura di quanto, per miopia e calcolo politico, ci si stia avvicinando a un pericoloso punto di non ritorno. L’incrociarsi di comunicati dai toni minacciosi fra Washington, Mosca, Damasco e Pyongyang parla da sé: e l’apparizione sulla scena delle bombe e degli attentati in Egitto e in Europa sorprende solo per la lugubre, ragionieristica puntualità.
Il gesto muscolare di Trump ha risvegliato da sogni beati quanti si erano figurati fantasmagorici atti di rottura dell’ordine costituito da parte del nuovo presidente USA, e avevano favoleggiato di ragioni politiche per volare come mosche sulla criniera del cavallo vincente. Non si fossero già coperti di ridicolo taluni “comunisti per Trump” nel dare ieri lezioni di comunismo ad Angela Davis e Bill Ayers, dovrebbero seppellirsi da soli nel ritrovarsi ancora una volta solidali con CasaPound, dalle cui finestre sventola la “libera bandiera siriana”: benvenuti nel mondo reale, verrebbe da dire loro, se ci fosse voglia di scherzare. E se non fosse già ripartito l’osceno derby fra le tifoserie rimescolate di un fascista con l’aviazione e l’atomica, un macellaio genocida poco disposto a recitare la parte del docile burattino, e il suo boss, che quanto a mani sporche di sangue non ha alcunché da invidiare e molto da insegnare.
Davanti a questo scenario, che fa compiere un ulteriore scatto alla lancetta sul quadrante della prossima guerra su larga scala – quella a bassa intensità dura da anni – è necessario piantare, ancora una volta, dei paletti.
Il primo: che il punto di vista da cui comprendere le guerre non è quello di una delle fazioni specularmente impegnate nella guerra, ma quello delle vittime, delle loro vite e dei loro corpi. In questo caso, delle vittime dell’eccidio di Idlib (ma non dimentichiamo altre vittime, in particolare quelle degli attacchi su Mosul della coalizione a guida statunitense delle scorse settimane). Lasciamo l’infame giochino del calcolo geopolitico ai maghi Othelma de noantri, ai Maurizio Mosca di turno che col loro pendolino stanno già dicendoci chi vincerà la prossima guerra: non abbiamo bisogno del pendolino o del metereologo per sapere in partenza che la guerra la vince sempre il fabbricante di armi, il rentier che profitta delle azioni belliche, i padroni del petrolio, i signori delle borse, non importa se nordamericani o sauditi, russi o cinesi, di Wall Street o della City: il capitale, finanziario o meno, non conosce i confini geopolitici.
Il secondo: che la guerra è guerra. La guerra è la più disumana delle opzioni: su questo non possono esserci tentennamenti. Il conflitto, l’antagonismo, le lotte – sociali, di classe, trasversali che siano – sono altra cosa: la guerra è il mezzo che il comando da sempre usa per sovradeterminare i conflitti, deterritorializzarli dalle dure e crude ragioni del loro insorgere e riterritorializzarli sulle divisioni fra popoli, nazioni, esseri umani. Chi non ha chiara questa linea di demarcazione fa il gioco dei signori della guerra, e dietro ipotetiche distinzioni amico/nemico finisce col confondere il significato dei due termini, e perdere per strada la stessa possibilità di costruire sull’amicizia fra sfruttati e ribelli forme di vita sottratte al nemico.
Terzo: la guerra non è l’orizzonte dei rivoluzionari, degli insorgenti, dei sovversivi. Oggi come ieri, chi combatte l’ordine costituito pratica la diserzione, non l’interventismo. E dunque sono forme di diserzione attiva che vanno messe in atto. Se questa guerra ha moltiplicato la fuga dalle bombe di donne, uomini, bambini, ha anche moltiplicato le opportunità di sfruttamento e di vampirizzazione della vita ridotta a merce: le fabbriche di abbigliamento low cost planate come rondini ai bordi dei campi profughi in Turchia ne sono il più infame degli esempi. Aprire le frontiere, consentire e praticare il diritto di fuga, rivendicare non un mero jus soli, ma uno ius migrandi indistinto per le vittime di guerra – di ogni guerra, senza distinzione fra guerre “materiali”, cioè belliche, e guerre “immateriali”, cioè finanziarie –, per ogni profugo, è una forma di diserzione da praticare. Così come sottrarre risorse alla guerra rivendicando reddito per tutti, per una vita degna di essere vissuta.
Queste sono le bandiere che sentiamo di dover sventolare. Quelle delle nazioni, quali che siano, le lasciamo ai neofiti delle sovranità nazionali: non le conosciamo, non fanno parte della nostra storia, men che meno del nostro futuro.
La marea femminista dello sciopero globale contro violenza e sfruttamento, il fortissimo sciopero dei migranti contro Macri in Argentina, il rafforzamento negli USA delle mobilitazioni di protesta sempre più nel segno dell’intersezionalità contro la violenza economica e razziale, le lotte in Europa su reddito e salario che provano a darsi dimensione transnazionale: da diverse parti, si allude già a questo orizzonte di diserzione, su cui può concretamente impiantarsi la lotta per la pace