Di MIMMO SERSANTE e WILLER MONTEFUSCO.
Tumulto versus rivoluzione. Il nostro racconto ha cercato di mostrare che l’opposizione è stata pensata in quanto tale proprio dai partiti della Seconda e Terza internazionale alla luce di quel materialismo storico assurto a rango di scienza. Non che le cose prima fossero andate diversamente: se i tumulti hanno sempre preparato, accompagnato, alimentato il grande evento della rivoluzione fino a confondersi con essa, raramente i suoi storici l’hanno evidenziato[1]. Non solo; sempre i tumulti hanno rivelato i connotati dei soggetti scesi in campo, mentre gli stessi storici si sono affrettati il più delle volte a nasconderli sotto le mentite spoglie di un Soggetto a tutto tondo, con una forte identità, fosse il “terzo stato” o la “classe operaia”. Il trattamento riservato dai dirigenti del nascente movimento operaio alla “plebe” tumultuosa non è stato molto diverso da quello predisposto dalle classi dominanti fin dagli albori della modernità per combattere “la marmaglia”[2] dei Calibano, Stephano e Trinculo che, “come una mostruosa idra, drizzando le sue teste enormi, cominciò a sibilare contro i poteri regali e l’autorità dei suoi sovrani”[3]. I livellatori e zappatori inglesi, la combriccola eterogenea della motley crew americana[4], i sanculotti parigini e i marinai di Kronštadt sono stati le resistenze mostruose, i soggetti irrappresentabili delle Rivoluzioni tra il Seicento e il Novecento. Sempre nella nostra ricostruzione li abbiamo tenuti a mente. Non solo; se non siamo riusciti a sottrarci all’enfasi del tumulto davanti alla rivoluzione, è perché siamo convinti che sono i mostri con la loro resistenza e la loro cooperazione a produrre il reale della storia. ‘Guardarsi’ dalla rivoluzione ha significato anche recuperare il terreno dell’ontologia che il paradigma del materialismo storico ha invece allegramente aggirato; esso infatti “ondeggia fra soggetto (capitalista) ed oggetto (proletario) dello sfruttamento”[5], riduce l’antagonismo tra soggetto e soggetto all’opposizione categoriale tra forze produttive e rapporti di produzione, nasconde sotto il tappeto tutto quanto stride col nitore della scienza e con i dettami della sua razionalità. Cos’è che non va nell’agitarsi, ieri dei commoners espropriati, oggi dei casseurs delle nostre periferie urbane? Bacone, il filosofo della sperimentazione scientifica ed esponente di spicco della modernità, non aveva dubbi in proposito: il loro essere sciame, branco, torma, in una parola moltitudine, irriducibile alla costruzione dello stato nazionale come unità fondamentale della vita economica e politica[6]. Hobbes, caposcuola del contratto sociale, non si era fatto scrupolo a chiamarla Behemoth, il mostro capace di scatenare il maremoto della guerra civile e aprire con le sue “corna ricurve uno squarcio nel Leviathan mentre le pinne aguzze del Leviathan feriranno Behemoth”[7]. È su questa resistenza al potere costituito che abbiamo insistito. Laddove la resistenza non sia considerata come momento puramente reattivo.[8] Il segreto della sua longevità è certamente nella cooperazione antagonista che ha caratterizzato il suo agire. Grazie ad essa, la moltitudine è risorta dalle sue ceneri a ogni sconfitta, “prendendo tempo, quindi rialzando la testa all’improvviso in ammutinamenti, scioperi, sommosse, insurrezioni urbane, rivolte di schiavi e rivoluzioni”[9]. È così che “la resistenza non è già più solo una forma di lotta, ma una figura dell’esistenza”[10]; lo è nella misura in cui a promuoverla è sempre qualcosa di reale, di vissuto e sofferto.
È il tumulto a guidarci lungo i sentieri dell’ontologia e ce ne accorgiamo al primo tentativo di raccontarlo perché in questo caso è difficile schivare il confronto diretto col cumulo rappreso delle passioni dei suoi improvvisati attori. Cosa colpisce maggiormente dello sciame? Il suo farsi e disfarsi nelle forme più mutevoli, il ronzio sordo e minaccioso che l’accompagna, il sospetto che in esso possa annidarsi “un’intelligenza complessa”, addirittura “di alto livello”[11]. Parliamo ovviamente di forme di soggettività ogni volta diverse eppure similari quanto al comportamento pratico e alla linea di condotta assunti sul fronte del combattimento. A guidarli, “principi egualitari, collettivisti, rivoluzionari”[12], avvisaglie della dittatura dei molti, di una democrazia a venire terrificante per le aristocrazie al potere. Perché non scorgervi anche scopi determinati, propri, finanche un progetto circoscritto nel tempo e nello spazio, insomma un telos non teleologico? È la storia dell’altra modernità, appena abbozzata nei momenti magici delle rivolte “intraprese dai diseredati per creare il paradiso qui in terra”[13]. A disfarne l’ordito, le rivoluzioni vittoriose che hanno scandito il tempo del Moderno – questo sì teleologico – indirizzato al meglio da un popolo ipotetico che avrebbe dovuto assicurare una continua ascesa.
A cominciare da quella inglese di Cromwell, con la prigione, la forca e l’esilio per i levellers; quella americana di Adams, con il Riot Act[14] pensato per chiudere i conti con la motley crew, e la francese di Robespierre, con il terrore rivolto contro i sanculotti di Saint Antoine. La motivazione è sempre stata la stessa, in linea col più generale processo di razionalizzazione che ha caratterizzato il Moderno: i tumulti esprimerebbero ciò che di più antimoderno si possa immaginare. Inconcludenti rispetto allo scopo, ogni volta svaniscono nel nulla. Anche l’agire di chi vi partecipa vi appare indecifrabile perché non terrebbe conto degli effetti sul lungo periodo e perché non si è mai compreso quali fossero i suoi valori ispiratori. Stilare l’elenco delle sue manchevolezze è ancor oggi lo sport preferito della sinistra: senso comune contro pensiero razionale, particolare contro universale, pratiche di democrazia diretta, enfasi dell’azione spontanea…[15]
Soprattutto, riprovevole è la sua intempestività, laddove chi è capace di “proporre visioni di un futuro nuovo”[16] ha bisogno di tempi lunghi e soprattutto di pazienza. È la stessa sfida affrontata a suo tempo da Kant: saper organizzare il futuro consapevoli che il mondo nel suo insieme procede verso il meglio. Il futuro è lì davanti e sa aspettare. Il finalismo etico di Kant, non a caso centrale nel dibattito socialista tra Otto e Novecento per i suoi due aspetti progressista e volontarista, è tutto qui.
La rivolta, di contro, ha epurato il materialismo storico dal suo determinismo naturalistico e dal suo finalismo etico. Essa è tornata a bussare impaziente, sempre, alla porta del Termidoro[17], restituendo all’azione, di volta in volta, senso e prospettiva non più semplicemente teleologica ma, per l’appunto, ontologica. Il che ci riporta ai molti della rivolta contro l’uno del soggetto ipotetico della rivoluzione: la “ moltitudine non è l’unità, la totalità, l’assoluta identità a sé; non è nemmeno la solitudine della dispersione, l’isolamento, il ripiego. Non è il popolo, non è una popolazione piuttosto che un’altra, non è una classe, non è la forma statica e ambigua del contropotere. La moltitudine non deve scegliere tra l’identità e l’alterità: la moltitudine è allo stesso tempo singolare e comune: di tutti perché di tutti, non di tutti perché di nessuno”[18]. Un comune orizzontale, moltitudinario, come dispositivo di ricomposizione…
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[1] A. Taylor, Rivoluzioni americane. Una storia continentale, 1750-1804, Einaudi editore, Torino 2017.
[2] Così il duca Prospero definisce Calibano, Stephano e Trinculo, i tre personaggi de La tempesta di Shakespeare che tentano una congiura – poi fallita – contro di lui (W. Shakespeare, La tempesta, Atto IV, scena 1, v. 37). Nel momento in cui il terzetto si costituisce tutto il dialogo ruota sulla parola “mostro” (Atto III, scena 2, vv. 1- 48).
[3] Cit. in P. Linebaugh, M. Rediker, I ribelli dell’Atlantico, Feltrinelli Editore, Milano 2004, p. 38.
[4] Ivi pp. 216-241.
[5] T. Negri, Il mostro politico. Nuda vita e potenza in (a cura di) U. Fadini, A. Negri, C.T. Wolfe), Desiderio del mostro, manifestolibri, Roma 2001, p. 184.
[6] R. Bendix, Re o popolo, Feltrinelli Editore, Milano 1980.
[7] R. Graves, R. Patai, I miti ebraici, Longanesi, Milano 1980, p. 57.
[8] J. Revel, Foucault, une pensée du discontinu, Mille et une nuits, Clamecy 2010, p. 275: “… mentre il potere reagisce alla pratica della libertà che ha contribuito a suscitare modificandosi per rafforzarsi, la resistenza inventa sul solo terreno che sia nello stesso tempo il prodotto dei rapporti di potere e la materia stessa delle pratiche di libertà: quello del rapporto a sé”.
[9] I ribelli dell’Atlantico, cit., p. 179.
[10] Il mostro politico, cit., p. 199.
[11] M. Hardt/A. Negri, Moltitudine, Rizzoli, Milano 2004, p. 116.
[12] I ribelli dell’Atlantico, cit., p. 238.
[13] Ivi p. 91.
[14] Ivi pp. 243-244: “Quando nel 1786 Samuel Adams contribuì a formulare il Riot Act del Massachusetts, che doveva essere usato per disperdere e controllare gli insorti della Ribellione di Shays, smise di credere che la folla “incarnava i diritti fondamentali dell’uomo in base ai quali il governo stesso poteva essere giudicato” e si staccò dalla forza democratica che anni prima gli aveva fatto nascere la migliore idea della sua vita”.
[15] Ultima a scendere in campo a difesa della modernità e contro il tumulto è la scuola accelerazionista di A. Williams e N. Srniceck, Manifesto per una politica accelerazionista in (a cura di M. Pasquinelli) Gli algoritmi del capitale, ombre corte, Verona 2014 e Inventare il futuro. Per un mondo senza lavoro, Nero, Roma 2018.
[16] Ivi p. 129.
[17] Come nel giugno ’48 e nel marzo del ’71 a Parigi o a Kronštadt nel 1921. In proposito Marx, Le lotte di classe in Francia, Editori Riuniti, Roma 1962, pp. 90-145 e La guerra civile in Francia, cit.; L. Michel, La Comune, M&B Publishing, Milano 2014; P. Avrich, Kronstadt 1921, Edizioni Res Gestae, Milano 2012.
[18] J. Revel, Fare moltitudine, Rubbettino Editore, Catanzaro 2004, p. 77.