Di SANDRO MEZZADRA.
Intervento al convegno internazionale “200 Marx. Il futuro di Karl”, Roma, 14 dicembre 2018
Intervenire a un convegno su Marx (o meglio sul suo “futuro”) in una sessione intitolata “Per la critica del capitalismo globale” comporta qualche esitazione. Di che cosa siamo chiamati a parlare? Della critica del nostro presente facendo tesoro della lezione di Karl? O piuttosto della critica che quest’ultimo ha articolato nel corso della sua vita, in un tempo ormai lontano, di un modo di produzione capitalistico fin dalla sua origine “globale”? Non è per me una domanda retorica. Trascorsa l’epoca della damnatio memoriae, quando la semplice menzione di Marx (in particolare in Italia) determinava commiserazione o alzate di ciglia, è bene resistere alla tentazione di applicare linearmente all’analisi del presente le categorie da lui elaborate. Profondamente “intempestivo”, secondo l’azzeccata definizione di Daniel Bensaïd, Marx ha intrattenuto un rapporto complesso – di adesione e di scarto, di appropriazione e di sottrazione – con il proprio tempo. Il suo pensiero ne è fortemente segnato: leggere (o rileggere) oggi le sue opere significa esporsi a questa intempestività.
Certo, alla fine del secondo decennio del XXI secolo così come negli anni Sessanta del Novecento vale la grande lezione dell’operaismo italiano: la nostra ricerca “deve mettere Marx a confronto non con il suo tempo, ma con il nostro tempo. Il Capitale deve essere giudicato sulla base del capitalismo di oggi”1. Ma sarà opportuno aggiungere una postilla: affinché questo sia possibile, è essenziale comprendere e apprezzare la storicità specifica delle categorie marxiane, non tanto per liberarle dalle incrostazioni di un’epoca ormai trascorsa quanto per riattivare quell’urto contro i limiti del suo tempo (e del suo stesso pensiero) che le costituisce. C’è qui per me un principio di metodo: l’“attualità di Marx” non coincide necessariamente con l’attualità del suo sistema; risiede nei vuoti oltre che nei pieni del suo pensiero, nei suoi scacchi così come nei suoi trionfi “scientifici” – nei problemi che ci aiuta a pensare e non soltanto nelle soluzioni che ci propone. La nostra interpretazione di Marx, in altri termini, deve essere da un lato filologicamente rigorosa, dall’altro “trasformativa”, come ha scritto di recente Étienne Balibar.
Una lettura di Marx oggi piuttosto diffusa, tanto in Germania quanto nel mondo anglofono, una lettura che si definisce “nuova”, afferma che la critica marxiana assume come proprio oggetto “le determinanti essenziali del capitalismo, quegli elementi che devono rimanere invarianti indipendentemente da ogni variazione storica, cosicché si possa parlare di ‘capitalismo’ in quanto tale’”2. Ora, che vi sia qualcosa di invariante nel capitalismo è evidente. Ma questa formulazione, qui ricordata per via della sua influenza, riduce la critica dell’economia politica al terreno della logica e azzera il rilievo di intere sezioni del Capitale – quella sulla “cosiddetta accumulazione originaria”, ad esempio, ma anche e soprattutto l’analisi della transizione dalla manifattura alla “grande industria”, che costituisce metodologicamente un modello per la messa a fuoco dei caratteri specifici assunti dal capitalismo in un’epoca storica (la metà dell’Ottocento) e in un luogo (l’Inghilterra) determinati. Più in generale, oscura un fatto per me cruciale, che Marx ha definito (fin dalle pagine dedicate alla borghesia nel Manifesto) con una chiarezza senza pari: ovvero il carattere rivoluzionario dell’oggetto della sua critica rivoluzionaria, il capitalismo.
Nei riguardi di quello che Marx chiama il “vecchio modo di vivere” (una formula in cui abbiamo imparato a ricomprendere configurazioni trascorse dello stesso rapporto di capitale) “il capitale opera distruttivamente”, si legge nei Grundrisse: esso “attua una rivoluzione permanente, abbatte tutti gli ostacoli che frenano lo sviluppo delle forze produttive, la dilatazione dei bisogni, la varietà della produzione e lo sfruttamento e lo scambio delle forze della natura e dello spirito”3. Pensare con Marx oggi significa pensare (da rivoluzionari) questa “rivoluzione permanente”, indagare le trasformazioni che investono gli stessi “elementi invarianti” del capitalismo, dislocandoli e costringendoci a ridefinire la portata e l’oggetto della critica. Ogni volta, del resto, occorre ripetere e aggiornare un gesto fondamentale di Marx, quella che si è tentati di definire il suo rifiuto ante litteram di ogni “nazionalismo metodologico”: pensare con Marx significa cioè dispiegare la critica sul “mercato mondiale”. Quella di Weltmarkt è una categoria che Marx definisce nel laboratorio filosofico giovanile a partire da un’originale riflessione sul suo nesso con la Weltgeschichte, la “storia del mondo” (nell’Ideologia tedesca, in particolare, e poi ancora nel Manifesto), per riempirla successivamente di determinazioni con il lavoro giornalistico degli anni Cinquanta per la New York Daily Tribune4. Nei Grundrisse il “mercato mondiale” appare come sintesi e condizione di possibilità (come “presupposto e risultato”) della “rivoluzione permanente” attuata dal capitale, della sua strutturale determinazione espansiva: “la tendenza a creare il mercato mondiale”, scrive qui Marx, “è data immediatamente nel concetto di capitale. Ogni limite si presenta qui come ostacolo da superare”5.
Ecco dunque un primo elemento “invariante” da inserire in una definizione di capitalismo coerente con la critica marxiana (non senza avvertire che il concetto di capitalismo non rientra nel lessico di Marx, che parlava piuttosto di “modo di produzione capitalistico” o di “formazione sociale” capitalistica). Il capitale come rivoluzione permanente costruisce la sua storia come “storia mondiale” e produce i propri spazi nell’orizzonte del “mercato mondiale”. Una volta posto quest’ultimo come “invariante” risalta immediatamente, tuttavia, il carattere astratto (che non significa “irreale”, evidentemente, considerata l’intensità della riflessione di Marx sugli effetti di realtà dell’astrazione) di questa invarianza. Il “mercato mondiale” cambia radicalmente nella storia, a partire dal momento della sua apertura attraverso la conquista, il colonialismo e il genocidio descritti nel capitolo 24 del primo libro del Capitale. L’organizzazione dei cicli egemonici, per riprendere un tema caro a Giovanni Arrighi, l’imperialismo, ma anche l’insorgenza anti-coloniale e i movimenti di liberazione ne modificano profondamente tanto la costituzione quanto l’impatto all’interno delle società dominate dal capitale (perché questo è un altro aspetto di formidabile originalità della riflessione marxiana sul mercato mondiale: all’interno del capitalismo la stessa esperienza dei singoli ne è condizionata). Certo un’invariante (poiché non è dato capitale nella sua accezione moderna senza di esso), il mercato mondiale – se è consentito il gioco di parole – si presenta come radicalmente variabile nella storia. E di questa variabilità dell’invariante la critica deve farsi carico.
Vorrei indicare due altri elementi “invarianti” che Marx ci propone per la definizione del capitalismo, due elementi fondamentali che condividono con il mercato mondiale, sia pure in modi diversi, il paradosso dalla variabilità dell’invariante. “Il movimento del capitale”, scrive notoriamente Marx, “è senza misura”6. “Soltanto il moto incessante del guadagnare” è il fine del capitalista7. Se ne potrebbero derivare considerazioni sulla soggettività di quest’ultimo, che come l’uomo di cui parla Hobbes negli Elementi di legge naturale e politica appare impegnato in una corsa che non ha “altra meta, né altro premio che l’essere davanti”8. Più rilevante in questa sede è sottolineare come la valorizzazione e l’accumulazione senza limiti di capitale siano certamente un tratto costitutivo del capitalismo, di cui definiscono in termini molto generali la norma (nel doppio significato di “normalità” e di “regola” fondamentale, da imporre su e attraverso altre regole). Il valore, scrive ancora Marx, “si trasforma in un soggetto automatico” passando attraverso “le forme fenomeniche particolari assunte alternativamente nel ciclo della sua vita”9. Ma queste forme fenomeniche (il denaro, la merce) rimandano a processi specifici di produzione, storicamente mutevoli tanto quanto l’alternanza delle “forme fenomeniche” attraverso cui si dispiega la valorizzazione. L’accumulazione senza limiti di capitale muta dunque di qualità e significato al ritmo di queste mutazioni storiche.
Non si tratta del resto di una trasformazione inerente soltanto al movimento “automatico” del valore, come è evidente laddove si consideri il terzo elemento “invariante” del capitalismo nella prospettiva marxiana: il capitale, si legge nelle ultime pagine del Capitale, “non è una cosa, ma un rapporto sociale tra persone mediato da cose”10. In questione sono qui le figure soggettive il cui rapporto costituisce il capitale, e la convinzione di Marx (da saggiare nel nostro presente) è che l’“autovalorizzazione” del capitale non sia altro che un’apparenza – e che le fonti del valore risiedano al di fuori di esso, nel suo “incontro” con l’altro da sé, ovvero con il lavoro. È quasi inutile aggiungere come da questo punto di vista siano ancora più intense e drammatiche (nel senso che incidono corpi e “anime”) le trasformazioni del “rapporto”, ben oltre la definizione che ne diede lo stesso Marx nella terza sezione del quarto capitolo del Capitale, dedicato alla “compera e vendita della forza-lavoro” (ovvero all’analisi del contratto di lavoro salariato “libero”).
Mettere a confronto Marx “con il nostro tempo” significa per me estrapolare dal suo tempo queste tre “invarianti” profondamente variabili e porre domande essenziali rispetto alla forma che oggi assumono. Che cos’è il “mercato mondiale”, come si organizza, attraverso quali tensioni e squilibri di potere si articola nel tempo della globalizzazione e delle sue periodiche crisi? Come si determinano la valorizzazione e l’accumulazione del capitale in un’epoca caratterizzata da processi di finanziarizzazione che sembrano riproporre ed esaltare l’immagine del valore come “soggetto automatico”? E a fronte di questi processi il capitale continua a essere un rapporto sociale? Come si trasformano, in particolare le figure soggettive di questo rapporto, che – nella prospettiva marxiana – non può che essere segnato dallo sfruttamento e dall’antagonismo?
Sono domande fondamentali, attorno a cui molte compagne e molti compagni lavorano da tempo, ma che devono essere rilanciate, di volta in volta riformulate fino a diventare gli assi portanti di una grande inchiesta collettiva. Al cuore di questa inchiesta, come suo motore, non può del resto che trovarsi quella che vorrei chiamare la politica di Marx, i cui termini devono anch’essi essere continuamente messi alla prova e creativamente ridefiniti. Quali sono i termini di questa politica? Li enuncio in modo secco ed essenziale: la politica di Marx si fonda su una critica che, al contrario della “critica critica” di Bruno Bauer “e consorti”, non ha un carattere meramente “negativo” ma è piuttosto incardinata nella scoperta della potenza costitutiva di una specifica figura soggettiva, il cui nome oscilla tra proletariato e classe operaia; è una politica che riconosce come principio fondamentale di movimento la materialità della lotta di classe e che spiazza radicalmente lo Stato e l’ordine dal centro della sua problematica per installarvi il rompicapo della liberazione (di quella che nella Questione ebraica è chiamata “emancipazione umana” per distinguerla da quella puramente “politica”) – di una “autoliberazione” degli sfruttati, considerato che “la liberazione (Befreiung) della classe operaia deve essere opera della classe operaia stessa”11. Comunismo è il nome di questo processo di liberazione.
Sono così definite le coordinate (tanto teoriche quanto politiche) di una critica del capitalismo globale contemporaneo che sia all’altezza della sfida posta da Marx. Si può chiamare questa critica una critica marxiana senza ignorare l’esigenza di allargare il suo orizzonte fino a ricomprendervi eterogenei contributi, tanto per superare quelli che sono stati variamente definiti i “punti di stress” (D. Harvey) o i “punti di eresia” e le “biforcazioni” (É. Balibar) nell’edificio teorico del Capitale quanto per valorizzare una storia secolare di lotte sociali che hanno inventato nuovi linguaggi di liberazione e stabilito nuovi parametri per la critica. È certo un progetto ambizioso, a cui lavorare “senza garanzie” a partire dal tentativo di definire la peculiarità del capitalismo contemporaneo: la sua differenza specifica nei confronti non solo di quello “di Marx” ma anche di quello – pur estremamente variegato nelle sue forme e manifestazioni a livello mondiale – che nel corso del XX secolo si è sviluppato sotto l’ipoteca della Rivoluzione d’Ottobre.
È ovviamente un tema centrale nella discussione critica, attorno a cui sono state formulate innumerevoli ipotesi. Étienne Balibar, ad esempio, ha lavorato con grande rigore negli ultimi anni attorno a un programma di rinnovamento della critica dell’economia politica, soffermandosi in particolare sul ruolo della finanza nell’intensificare quella che Marx chiamava “astrazione in actu”, ovvero “il movimento del capitale autonomizzato, operante con la violenza di un processo elementare di natura”12. E ha proposto in diversi scritti la formula di “capitalismo assoluto” per porre l’accento sulla cesura con il “capitalismo storico” per via del “carattere autoreferenziale di un sistema in cui non c’è più alcuna reale eccezione alla ‘produzione di merci a mezzo di merci’ (P. Sraffa)”13.
Comprendo il rilievo e la radicalità della formula “capitalismo assoluto”. E tuttavia fatico ad accettarla come esito ultimo della ricerca sulla natura del capitalismo contemporaneo. A me pare semmai che tale definizione ci ponga di fronte a quella che, con un termine caro a Balibar, si potrebbe definire una “biforcazione”. Nella mia prospettiva, la nozione di “capitalismo assoluto” comporta una sfida, segnalando al contempo il rischio di una confessione di impotenza. Solutus dalle briglie della politica e del mondo degli Stati, e in particolare sciolto da ogni vincolo con il suo essenziale “altro” – il lavoro, comunque lo si voglia e lo si possa definire –, il capitale costruirebbe il suo mondo, la sua società, la sua “cultura” senza ostacoli di sorta, o meglio dovendo fronteggiare soltanto contraccolpi di natura essenzialmente reazionaria. Non si tratta certo di contestare la fenomenologia presentata da Balibar (la “preferenza per la mobilità” del capitale e la moltiplicazione di “merci fittizie”, il carattere pervasivo della finanza nel compenetrare l’organizzazione di produzione e consumo, l’indebitamento generalizzato dei poveri, per citarne alcuni aspetti). Il punto è piuttosto impegnarsi nel difficile e arrischiato compito di mostrare l’“assolutezza” del capitalismo contemporaneo come apparenza (pur caratterizzata da specifici effetti di realtà, secondo modalità familiari a Marx) e di fare emergere la trama della sua sostanziale dipendenza dallo sfruttamento di un bacino eterogeneo e molteplice di attività che costituisce la metamorfosi odierna di quello che nei Grundrisse è indicato come “il vero non-capitale”: il lavoro vivo14.
Come procedere in questo senso, con la modestia imposta dalla consapevolezza della difficoltà del compito indicato? Nel mio lavoro con Brett Neilson ho cercato di cogliere la “differenza specifica” del capitalismo contemporaneo sottolineando come oggi siano preminenti (nella stessa composizione del “capitale complessivo”, nell’orientamento di quelle che Marx chiamava le “rivoluzioni di valore”) operazioni di carattere essenzialmente estrattivo15. Abbiamo cercato di sostanziare questa tesi (che in modi diversi è condivisa da altri autori, da Michael Hardt e Toni Negri a Saskia Sassen per esempio) con un’analisi delle operazioni del capitale nel settore estrattivo in senso stretto, nella logistica e nella finanza. Parliamo di specifiche operazioni del capitale, per indicare che il capitalismo oggi non si riduce alle sue determinazioni estrattive, per quanto queste ultime esercitino una funzione di comando e di sincronizzazione sull’insieme dei processi di valorizzazione e di accumulazione. E in particolare cerchiamo di dimostrare che il capitalismo contemporaneo non è caratterizzato (al contrario di una tesi ampiamente diffusa ad esempio nei dibattiti latinoamericani sul cosiddetto “neo-estrattivismo”) da un assoluto primato dello “spossessamento”, impiegando il termine nel senso attribuitogli da David Harvey. Quel che ci sembra piuttosto importante analizzare e comprendere è la combinazione di “spossessamento” e “sfruttamento” in quella che oggi occorre tornare a definire, con tutte le sue differenze, la condizione e l’esperienza proletaria globale.
Non ho qui il tempo per diffondermi sulle formidabili tensioni, sulle vere e proprie torsioni che un simile lavoro comporta rispetto allo statuto del concetto marxiano di sfruttamento16. Vorrei dare piuttosto un esempio del modo in cui il nostro lavoro si riferisce a Marx proprio a proposito della finanza. È quasi inutile sottolineare come oggi il mondo della finanza, nel tempo dell’High Frequency Trading per fare un solo esempio, sia completamente diverso da quello in cui si muoveva il “capitale produttivo di interesse” analizzato da Marx nel terzo libro del Capitale. C’è tuttavia in questa analisi un punto che mi pare molto interessante, anche indipendentemente del significato che deve essere attribuito alla categoria di “capitale fittizio” da lui impiegata in questo contesto: per Marx, la finanza è sostanzialmente una gigantesca “accumulazione di diritti, titoli giuridici, sulla produzione futura”17. Questa determinazione in ultima istanza politica della finanza, il suo essere caratterizzata da una pretesa (Ansprüche è il termine utilizzato da Marx e tradotto con “titoli giuridici”) sulla produzione futura, rimane decisamente attuale. E mostra, in particolare laddove si analizzino le forme dell’indebitamento di massa – tanto pubblico quanto privato – che coinvolgono popolazioni povere e lavoratrici, come il contenuto del debito contratto nel rapporto con il capitale finanziario sia l’obbligo a partecipare alla “produzione futura”, la coazione a un lavoro quale che sia.
Il capitale finanziario estrae, preleva valore attraverso la diffusione molecolare nel tessuto della cooperazione sociale di questa coazione – che corrisponde indubbiamente a specifici processi di “spossessamento”. Ma nel momento in cui la coazione si traduce in pratica (in altre parole: nel momento in cui, per ripagare il debito, la singola proletaria mette all’opera la propria forza lavoro), si entra necessariamente in rapporto con diverse figure del capitale le cui operazioni sono caratterizzate da specifici processi di “sfruttamento”. Ecco dunque la combinazione di spossessamento e sfruttamento di cui ho parlato prima. E occorrerà aggiungere, restando a questo esempio molto semplificato, che la nostra proletaria ha di fronte a sé uno spettro molto ampio e profondamente eterogeneo di prestazioni lavorative (di modalità attraverso cui mettere in opera la propria forza lavoro) tra cui scegliere: potrà andare a lavorare in una fabbrica o in uno sweatshop, in un supermercato o in una casa, potrà fare la massaggiatrice o vedere droga per strada. È un punto fondamentale, che andrebbe argomentato con ben altra ampiezza, inseguendo le metamorfosi e le infinite combinazioni di spossessamento e sfruttamento che si presentano: mi limito qui a dire che ai processi di finanziarizzazione, e più in generale al primato delle operazioni estrattive del capitale, corrisponde quella che io e Brett Neilson abbiamo chiamato moltiplicazione del lavoro.
È su questo punto che vorrei concludere, con qualche considerazione su un concetto tanto importante nell’opera di Marx quanto in fondo elusivo: il concetto di classe. Nel Manifesto, Marx ed Engels indicano come “scopo immediato dei comunisti” la “formazione del proletariato in classe”18. Già leggendo le pagine dello stesso Manifesto si vede bene come questo processo di formazione (di soggettivazione politica del proletariato, potremmo dire oggi) fosse immaginato dagli autori come una sorta di rovesciamento delle dinamiche di livellamento e omologazione della condizione proletaria determinate dalla meccanizzazione del lavoro e della produzione di fabbrica. Nel Capitale, nella già ricordata analisi della transizione dalla manifattura alla “grande industria”, Marx avrebbe ulteriormente approfondito questa ipotesi, destinata a esercitare una grande influenza nei decenni successivi. In particolare in Europa e in Occidente, la classe (operaia) sarebbe stata pensata nel segno di una essenziale omogeneità (mentre altrove nel mondo la traduzione politica di questo modello si sarebbe scontrata con una molteplicità di attriti e di resistenze, ciò che rende appassionante una lettura “contropelo” dell’archivio dei marxismi non occidentali19).
Si tratta oggi di riprendere il problema della “formazione del proletariato in classe” al di fuori di questo paradigma – il che significa anche, sviluppando una essenziale indicazione di Balibar, tornare a valorizzare la tensione tra “proletariato” e “classe operaia”. Facendo i conti fino in fondo con la sfida della moltiplicazione del lavoro, quel problema si presenta oggi nei termini della formazione della moltitudine in classe. Una “variopinta folla di lavoratori di tutte le professioni, di tutte le età, di entrambi i sessi, che ci si serrano attorno, con più impazienza delle anime degli uccisi intorno a Ulisse”20: questa straordinaria immagine, impiegata da Marx per rappresentare il “materiale umano” su cui la “grande industria” esercita la sua opera di livellamento, è in fondo una buona approssimazione della composizione del lavoro vivo contemporaneo. La differenza attraversa oggi la classe, ne segna la composizione e ne organizza la gestione da parte del capitale (secondo modalità certo non nuove, come in particolare ci hanno insegnato quanti lavorano negli Stati Uniti e altrove sul rapporto tra classe e razza e sulla “produzione sociale della differenza”21).
Il “grado di separazione tra i lavoratori”, per riprendere la formula di Michael E. Lebowitz22, è certo una variabile essenziale da questo punto di vista. La differenza, tuttavia, non si presenta soltanto in questa forma – e per coglierne le molteplici manifestazioni non sempre Marx ci è di aiuto. Si pensi all’analisi da lui svolta del lavoro delle donne nella “grande industria”, reso possibile da macchine impiegate come “mezzo per adoperare operai senza forza muscolare” e dunque leva essenziale per l’aumento del numero degli operai e per l’irreggimentazione “sotto l’imperio immediato del capitale di tutti i membri della famiglia operaia”23. Lavoro letteralmente senza qualità, quello delle donne (al pari di quello dei fanciulli) è per Marx al tempo stesso sintomo e motore di un ulteriore livellamento del lavoro complessivo, specchio dell’omogeneità di classe. Si potrebbe oggi sostenere qualcosa di simile a proposito del lavoro delle donne? Oggi, nel tempo dello sciopero transnazionale femminista che restituisce nell’insubordinazione la profonda eterogeneità di quel lavoro, la formidabile ricchezza di “abilità” e “cura” che ne tessono la trama? Marx prosegue la sua analisi scrivendo che “il lavoro coatto a vantaggio del capitalista ha usurpato non solo il posto dei giochi fanciulleschi, ma anche quello del libero lavoro nella cerchia domestica, entro limiti morali, a vantaggio della famiglia stessa”24. “Libero lavoro”? “Limiti morali”? “A vantaggio della famiglia”? Qui davvero la critica femminista ha già detto tutto25. E ha indicato una “differenza” che costituisce oggi – oltre Marx – un terreno decisivo di lotta su cui tornare a pensare la classe. Se saremo in grado di farlo all’interno delle coordinate del progetto marxiano che ho indicato in precedenza è una domanda che vorrei lasciare per il momento aperta.
Version en castellano
M. Tronti, “Marx ieri e oggi” (1962), in Id., Operai e capitale, Torino, Einaudi, 1971, p. 31. ↩
M. Heinrich, An Introduction to the Three Volumes of Karl Marx’s Capital, New York: Monthly Review Press, 2012, p. 31. ↩
K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, 2 voll., Firenze, La Nuova Italia, 1978, vol. II, p. 12 ↩
Cfr. S. Mezzadra e M. Espinoza Pino, Cartografie globali. Il concetto di mercato mondiale in Marx tra giornalismo e teoria, in S. Petrucciani (a cura di), Il pensiero di Karl Marx. Filosofia, politica, economia, Roma, Carocci, 2018, pp. 177-208. ↩
K. Marx, Lineamenti fondamentali, cit., vol. II, p. 9. ↩
K. Marx, Il capitale. Critica dell’economia politica, Libro primo, Il processo di produzione del capitale, Torino, Einaudi, 1975, p. 184. ↩
Ivi, p. 185. ↩
Th. Hobbes, Elementi di legge naturale e politica, Firenze, La Nuova Italia, 1985, p. 75. ↩
K. Marx, Il capitale, Libro primo, cit., p. 186. ↩
Ivi, p. 941. ↩
K. Marx e F. Engels, “Zirkularbrief an Bebel, Liebknecht, Bracke u.a.”, 17/18.09.1879, in Werke, Bd. 19, Berlin, Dietz, 1987, p. 165. ↩
K. Marx, Il capitale. Critica dell’economia politica, Libro secondo, Il processo di circolazione del capitale, Torino, Einaudi, 1975, p. 122. ↩
É. Balibar, Critique in the 21st Century, in “Radical Philosophy”, 200, Nov/Dec 2016. ↩
K. Marx, Lineamenti fondamentali, cit., vol. I, p. 254. ↩
Cfr. in particolare S. Mezzadra e B. Neilson, The Politics of Operations. Excavating Contemporary Capitalism, Durham, NC, Duke University Press, 2019. ↩
Si veda comunque S. Mezzadra e B. Neilson, Entre extraction et exploitation: des mutations en cours dans l’organisation de la coopération sociale, in «Actuel Marx», 2018/1, 63. ↩
K. Marx, Il capitale. Critica dell’economia politica, Libro terzo, Il processo complessivo della produzione capitalistica, Torino, Einaudi, 1975, p. 648; cfr. anche p. 701. ↩
K. Marx – F. Engels, Manifesto del partito comunista, Torino, Einaudi, 1979, p. 147. ↩
Si veda ad esempio in questo senso, al di là di alcuni limiti teorici, il libro di H.D. Harootunian, Marx after Marx. New York, Columbia University Press, 2014. ↩
K. Marx, Il capitale, Libro primo, cit., p. 307. ↩
Si vedano ad esempio L. Lowe, Immigrant Acts: On Asian American Cultural Politics, Durham, NC, Duke University Press, 1996 e D. Roediger, Race, Class, and Marxism, London – New York, Verso, 2017. ↩
Cfr. M.E: Lebowitz, The Politics of Assumption, the Assumption of Politics, in “Historical Materialism”, 14, 2006, 2. ↩
K. Marx, Il capitale, Libro primo, cit., pp. 482-483. ↩
Ivi, p. 483. ↩
Va comunque riconosciuta l’intensità della riflessione critica di Marx sulla famiglia, negli ultimi anni della sua vita. Discutendo Ancient Society, di Lewis H. Morgan, annotò ad esempio nei suoi taccuini etnologici a proposito della “famiglia patriarcale” romana: “la famiglia moderna porta in nuce non soltanto servitus (schiavitù) ma anche servitù, dato che ha fin dal principio un rapporto con la prestazione di servizi nell’agricoltura. Essa contiene in sé in miniatura tutti gli antagonismi che più tardi si dispiegheranno nella società e nel suo Stato” (K. Marx, Die ethnologischen Exzerpthefte, hg. von L. Krader, Frankfurt a.M., Suhrkamp, 1976, p. 160). Si veda a questo proposito H. Brown, Marx on Gender & the Family. A Critical Study, Leiden – Boston, Brill, 2012 (in particolare i capitoli 5 e 6). ↩