Di SANDRO CHIGNOLA

Fu, quel giorno, un incontro del tutto casuale. Era una fredda mattina, mi pare di ricordare, nella quale ero arrivato molto presto al mio studio in dipartimento. Era, allora, ancora nel vecchio Istituto di Filosofia dell’Università. Avevo sentito qualcuno aggirarsi nel corridoio e sporgersi nella sala della biblioteca. La biblioteca che da tempo era stata svuotata, perché si stava traslocando al Palazzo del Capitanio. Ero, da pochissimo, professore. E che fossi in Istituto di prima mattina, dipendeva dallo scomodo orario dei treni e dal pendolariato ferroviario al quale ero costretto. Aprii la porta dello studio, che dava sul corridoio deserto. A quell’ora, nessuno ancora sentiva il bisogno di essere presente. In fondo al corridoio, sulla porta della Biblioteca, c’era Toni. Guardava la sala dove da giovanissimo aveva studiato e nella quale non era più entrato negli ultimi trent’anni.

Il suo sguardo vagava sulle ragnatele e sugli scaffali spogli. Mi disse: “vedi? qui lavoravo moltissimo da ragazzo”. Un’ombra passava sui suoi occhi e sui miei. Nel pensare non al tempo che passa, ma alla miseria morale dell’Università che lo aveva avuto giovanissimo ordinario e ingombrante personalità da rimuovere. Era lì per tenere una lezione invitato da un collega, ma, questa volta sì, da clandestino, dato che mai le autorità accademiche, se di questo informate, avrebbero concesso il permesso. Ed erano i primi anni duemila.

Padova, intesa come università e come città, si riproduce sulla rimozione di una storia importante e su di una ridicola damnatio memoriae, amministrata, con feroce ostinazione, da personaggi piccolissimi. Toni è stato, giovanissimo, uno dei professori più illustri di questa Università. L’università della resistenza e dell’impegno, in Toni, ostinatissimo, di andare alla radice delle cose.

Con me, più di una volta gli è capitato di rivendicare i suoi primi grandi libri. Quelli di quando l’Università gli apriva le porte. Era contento che alcuni tra di noi li conoscessero benissimo. Tornato anni dopo a Padova, in un evento pubblico che, di nuovo, mi coinvolgeva, e dopo il quale calò su di me l’occhiuta minaccia delle autorità accademiche (quelle stesse autorità rappresentate da chi, del giovane Toni, era invidioso collega…), sentii per un momento la sua voce incrinarsi, mentre rivendicava come Università e città avrebbero dovuto “chiedergli scusa”.

Scusa di che, tenero compagno mio? Tu che hai saputo vivere, come pochissimi hanno fatto, consonando con il demone della politica, della ricerca e della libertà? Ti ho visto al gelo di stanze occupate, imbacuccato in cappelli e sciarpe in prima fila, prendere appunti dalle parole di giovanissimi, per elaborare, modificare, registrare le tue posizioni. E avevi già ottant’anni. Ti ho visto annotare meticolosamente scritti e articoli che ti venivano mandati. Sollecitare interventi e progettare ricerche e occasioni di discussione, anche quando il tempo si incurvava.

Certo, questa città, questa Università dovrebbero chiederti scusa, se ne fossero capaci e se l’Università, in particolare, non fosse diventata un’altra cosa. Dovrebbero farlo se avessero il coraggio di guardare in faccia le cose e la loro stessa storia. Ma chi se ne frega, amico mio. Nulla c’è da risarcire, perché risarcire il debito con te, piaccia loro o meno, è del tutto impossibile.

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