Étienne Balibar ha perfettamente ragione: dobbiamo “porre da subito il problema di una rifondazione dell’Unione, in vista della costruzione di un’altra Europa”. Dovremmo essergli grati per aver messo in corsivo sia “da subito” sia “rifondazione”. Si deve agire ora, e quest’azione non può dare per scontata né l’esistenza delle forze politiche da mobilitare, né le coalizioni sociali capaci di sostenere una simile mobilitazione, né le energie intellettuali da attivare, né i canali e le strutture istituzionali da assumere come riferimento.
Serve, su ciascuno di questi livelli, una campagna costituente, che sappia trasformare forze e istituzioni esistenti, crearne di nuove, incanalare lotte e “indignazione” sociali verso l’obiettivo di “costruire un’altra Europa”, producendo al tempo stesso nuovi linguaggi politici e immaginari culturali. Una campagna costituente, dicevo: non una campagna per un’“assemblea costituente”, per la quale mancano attualmente tutte le condizioni. Penso a un progetto di durata decennale, in grado di reinventare radicalmente lo spazio europeo, la sua posizione in un mondo tumultuosamente in trasformazione, le sue istituzioni e la sua cittadinanza sulla base di una nuova coniugazione di libertà e uguaglianza. E’ necessario aggiungere che una simile reinvenzione non può che essere allo stesso tempo una reinvenzione della sinistra in Europa? Se la sinistra ha un futuro in questa parte del mondo, sono convinto che questo futuro non possa che essere costruito su scala continentale.
Dovremmo essere consapevoli della dimensione globale delle sfide di fronte a cui ci troviamo oggi in Europa. E’ evidente che la messa in discussione di consolidate gerarchie spaziali e l’affermazione di nuove geografie dello sviluppo e dell’accumulazione capitalistica figurano in primo piano tra le tendenze che sottendono l’attuale crisi economica globale. Nuovi regionalismi e nuovi modelli di multilateralismo stanno prendendo forma in molte parti del pianeta, una sorta di “deriva dei continenti” (per riprendere l’immagine geologica impiegata da Russell Banks nel famoso romanzo omonimo del 1985) sta ridisegnando il mondo. All’interno di questi processi, l’Europa è sempre più “provincializzata”, anche se non necessariamente nel senso suggerito da Dipesh Chakrabarty nel suo importante libro del 2000.
Di per sé, non è un male. Tutt’altro. Ma per cogliere e interpretare politicamente le opportunità connesse a questa provincializzazione dell’Europa abbiamo bisogno di una scala continentale di azione politica e di governo. Abbiamo bisogno di un’Europa politica. Al di fuori di quest’ultima, la prospettiva è quella di un’Europa ridotta a qualche isola di benessere e ricchezza in un mare di povertà e privazione: cosa che abbiamo già iniziato a sperimentare nel Sud del nostro continente. Inoltre solo su scala continentale è possibile immaginare la costruzione di un rapporto di forza favorevole con il capitale finanziario, il cui dominio all’interno del capitalismo contemporaneo è alla radice della crisi di ogni mediazione politica (ovvero della democrazia) oggi così evidente in Europa.
Non è questo il luogo per analizzare a fondo le implicazioni dello sguardo “geopolitico” sulla questione europea (il che significherebbe in particolare discutere su basi completamente nuove il problema delle relazioni tra Europa e Stati Uniti). Ma è importante tenere a mente la pertinenza degli argomenti qui appena evocati per qualsiasi indagine critica sull’attuale situazione europea. Nel seguito di questo breve intervento, in ogni caso, voglio concentrarmi su qualcos’altro. Parlare di una campagna costituente significa prendere in considerazione la necessità di una rottura allo scopo di aprire la via a un’“altra Europa”.
Penso sia importante essere consapevoli, in questo senso di quanto profonda sia la rottura che è già stata prodotta all’interno della stessa struttura delle istituzioni europee nel contesto della crisi globale. Faccio parte di coloro che a partire dalla metà degli anni Novanta hanno cercato di lavorare “dentro e contro” la cittadinanza europea in formazione, soprattutto per quel che riguarda i movimenti e le lotte dei migranti. Non si tratta certamente di liquidare in modo sbrigativo quell’esperienza, che è stata anche accompagnata da importanti dibattiti teorici, nel tentativo di sfidare i limiti e i confini della concezione tradizionale della cittadinanza. Al tempo stesso, non si può evitare di fare un bilancio delle radicali trasformazioni che negli ultimi anni hanno investito la cittadinanza europea. Sia dal punto di vista dell’“appartenenza” che dal punto di vista dell’architettura istituzionale – per richiamare i due punti di vista prevalenti negli studi sull’argomento – ci troviamo di fronte a con una profonda crisi della cittadinanza europea.
Per dirla brutalmente, questo concetto è stato spogliato di qualsiasi significato “positivo” e “progressivo” agli occhi di una vasta maggioranza della popolazione europea, e in particolare in Paesi come la Grecia, la Spagna, l’Italia essa ha finito per essere ampiamente identificata con la continuità delle politiche di austerity e con il loro carattere “punitivo”. Allo stesso tempo, come molti giuristi hanno notato, l’intero progetto di “integrazione attraverso il diritto”, tratto distintivo dell’integrazione europea nel suo complesso, si è trovato di fronte ai propri limiti e alle proprie contraddizioni degli ultimi anni. L’equilibrio tra un sovra-nazionalismo giuridico e i processi politici di negoziazione, alla base di quel progetto, è stato destabilizzato: la processualità giuridica è stata sempre più nettamente caratterizzata da una dinamica autonoma, collegandosi in modi inediti con gli apparati burocratici europei e con una molteplicità di gruppi d’interesse.
Ne è emersa la cristallizzazione di un nuovo “assemblaggio” di potere capace di dettare standard e norme che restringono sempre di più il campo d’azione di qualsivoglia politica ( “europea” non meno che “nazionale”). Con il Fiscal Compact e con il Meccanismo Europeo di Stabilità, la camicia di forza della stabilità monetaria, i programmi di disciplina fiscale e la continuità dell’austerity si sono ulteriormente rafforzati, consolidando la posizione (e l’indipendenza) della Banca Centrale Europea al centro di questo “assemblaggio” di potere.
È difficile immaginare un’altra Europa politica senza porre l’accento sulla necessità di strappare questa camicia di forza e di spezzare questo “assemblaggio” di potere. “Default democratico” (Giandomenico Majone), “crisi di legittimità” (Fritz Scharpf), ulteriore rafforzamento della natura “elitaria” e “post-democratica” dell’UE (Wofgang Streeck) sono alcune delle formule che circolano nei dibattiti sulla crisi europea nel tentativo di cogliere le implicazioni della rottura a cui si è fatto cenno – della soluzione di continuità che si è prodotta all’interno del processo di integrazione.
Se nel concetto moderno di democrazia, per riprendere i termini proposti in un celebre saggio di Étienne Balibar, è iscritta una dialettica tra la dimensione “insurrezionale” e la dimensione “costituzionale” della politica, si deve riconoscere che oggi in Europa (sia a livello nazionale sia a livello di UE) questa dialettica sembra essere interrotta. Quel che ne consegue è una divisione che attraversa gli stessi concetti di politica e democrazia. I loro momenti conflittuali e “insurrezionali” continuano a riprodursi all’interno delle lotte e dei movimenti sociali, ma essi non trovano nessun tipo di feedback all’interno delle istanze governative e “costituzionali”. Quello che rimane a livello nazionale della “democrazia conflittuale” (citando nuovamente una formula di Balibar) su cui si è fondato lo sviluppo dello Stato sociale democratico è al momento in fase di smantellamento o comunque sotto attacco, mentre a livello europeo non c’è nessun tentativo di compensare questa “perdita” con l’edificazione di nuovi sistemi di welfare su scala continentale. Anche quanti avevano che il Trattato di Maastrticht avrebbe posto le basi per uno “scambio” di questo genere sono oggi costretti a ricredersi.
Inutile dire che questo tema dovrebbe essere prioritario nella “campagna costituente” che si tratta di avviare. E non è possibile immaginare una ricostruzione dei sistemi di welfare a livello europeo secondo il modello del welfare state “storico”, quale lo abbiamo conosciuto in Europa occidentale dopo la seconda guerra mondiale. Troppe cose sono cambiate, e radicalmente, nella struttura del capitalismo e nella composizione di ciò che, con un concetto marixnao, possiamo chiamare il “lavoro vivo” contemporaneo. Basti pensare ai dibattiti sulla precarietà, sulle nuove caratteristiche delle migrazioni o, per limitarci a un unico ulteriore esempio, sulle trasformazioni della struttura famigliare e dei rapporti tra i generi. Attorno a queste e altre questioni si sono sviluppati con straordinaria continuità movimenti e lotte sociali in tutto il continente: nessuna campagna per un’“altra Europa” è immaginabile senza un’intensificazione e un sempre maggiore coordinamento di queste lotte e di questi movimenti.
“Non essere stata in grado di definire e di promuovere una solidarietà europea è la ragione del fallimento della sinistra in Europa”, scrive Bo Strath commentando l’articolo di Balibar (cfr. http://www.opendemocracy.net/). Non potrei essere più d’accordo. Vorrei tuttavia aggiungere che questo “fallimento” è a sua volta legato alla miopia della sinistra di fronte alle profonde trasformazioni subite dal lavoro, nonché alle rivendicazioni emergenti da una composizione sociale anch’essa profondamente innovata. L’Europa può avere un senso solo se la si costruisce come uno spazio all’interno del quale queste rivendicazioni possano essere articolate in un progetto politico capace di essere al contempo radicale ed efficace. Solo se diviene uno spazio in cui la lotta contro la povertà, lo sfruttamento e la discriminazione ha più possibilità di successo, in cui è più facile distruggere la paura inoculata e disseminata dalla crisi all’interno del tessuto sociale. Lottare contro il “ritorno dei nazionalismi” e l’ascesa di nuove forme di fascismo in Europa significa prima di tutto lottare per sradicare questa paura.
Quando parlo di una “campagna costituente” non penso a un’unica campagna organizzata centralmente. Ciò di cui abbiamo bisogno è in primo luogo forgiare uno “spirito costituente” attraverso una molteplicità d’iniziative, articolate su diversi livelli e capaci di investire diversi luoghi e forum (dalla mobilitazione di piazza al Parlamento europeo). Ecco perché, ottimisticamente forse, scrivevo di un progetto di durata decennale. Mi rendo perfettamente conto che le prospettive per un progetto del genere in questo preciso momento non appaiono particolarmente incoraggianti. Esso dipende, per citare ancora l’articolo di Balibar da cui ho preso le mosse, da “molte condizioni, tutte difficili e il cui adempimento è improbabile”. E’ un monito essenziale rispetto alla difficoltà del compito che ci spetta: ma nulla dice (e Balibar lo sottolinea) contro la realistica necessità di farsene collettivamente carico. In fin dei conti potremmo concludere ricordando, con un po’ di necessaria ironia, le parole di Max Weber, uno che di “realismo politico” se ne intendeva: “è senz’altro vero che non si raggiungerebbe il possibile se nel mondo non si tentasse sempre di nuovo l’impossibile”.