Di ALBERTO MANCONI

Questo testo di Alberto Manconi ingaggia un dialogo con il libro La condizione ecologica (Edifir 2022) di Andrea Ghelfi, e discute alcuni concetti, temi ed esperienze importanti del presente. Qui, precipitano anche spunti che hanno attraversato la discussione del collettivo. In primis, insistiamo sulla partecipazione al corteo del 25 Marzo a Firenze e al crowdfunding per sostenere il progetto di reindustrializzazione proposto dal Collettivo di Fabbrica – GKN. #insorgiamo


La condizione ecologica (Edifir 2022) nella quale ci accoglie Andrea Ghelfi prende le mosse dal confronto diretto con il difficile presente della crisi climatica ed ecologica, ma ci invita a considerarne le determinazioni spaziali e temporali, nonché le possibilità politiche. Per questo La condizione ecologica “è prima di tutto un invito a sperimentare, con le parole e con le azioni, nuovi modi di abitare un territorio” (p. 7). L’interesse che muove l’autore è quello della ricerca di una politica materialista all’altezza della situazione critica nella quale si trovano il cosiddetto ambiente, le società e la stessa soggettività umana. Per tracciare una ecologia politica della materia, sempre più urgente nell’avanzare delle crisi ecologiche, l’autore ci invita a rompere le barriere tra ambiente, società e soggettività umana assemblando nuove alleanze inter-specie e nuovi attrezzi da lavoro. Gli strumenti attraverso cui Ghelfi traccia una simile politica in mondi più che umani sono di vario tipo: dai concetti più complessi della filosofia critica contemporanea agli strumenti per zappare, innaffiare o fermentare.

La condizione ecologica risulta dunque un vettore di traduzione o mediazione tra mondi e materie differenti. La stessa nozione di traduzione viene spiegata nel capitolo 1 a partire dal lavoro di Bruno Latour, da cui l’autore riprende l’idea di un’agency terrestre, che non si localizza nel solo corpo umano ma è «redistribuita in un campo costituito dalla presenza attiva di attori eterogenei». Ghelfi prende molto, dunque, dall’Actor Network Theory di Latour che si proietta sul campo del «terrestre», cioè dove si colloca la proposta di transizione ecologica ripresa nell’ultimo capitolo con lo scopo di rifuggire tanto i paradigmi universalistici, quanto il localismo regressivo. Tuttavia, l’autore critica la concezione politica che Latour propone nei suoi ultimi lavori: inserendo la politica terrestre nella tradizione della rappresentanza moderna, Latour ha tralasciato la potenza istituente delle pratiche e dunque la creazione materiale di mondi alternativi. Ghelfi pone un problema che emerge dall’osservazione di un vasto ventaglio di movimenti, dall’agroecologia alle fabbriche occupate, e ne trae un punto centrale dell’ecologia politica: la “sperimentazione di altri modi di relazionarsi tra esseri umani, animali e piane, oggetti e tecnologie” (p. 8).

La condizione ecologica si colloca così all’interno di un passaggio critico che permea i dibattiti dei movimenti ecologisti odierni: la necessità, pratica e quotidiana, di produrre mondi alternativi. Tale necessità diviene vitale e attuale per le giovani generazioni di attivisti climatici nel momento in cui si sono visti scippare la grande attenzione mediatica del 2018-19 dal sopraggiungere di altre crisi, lette come effetti di un mondo insostenibile. La forte proposta di Ghelfi (e Dimitris Papadopoulos, attivista e professore greco con cui ha strettamente collaborato nelle università inglesi) è quella dei «movimenti più che sociali». Movimenti, cioè, che subordinano la protesta del sistema vigente alla co-creazione di mondi dove l’essere umano si consideri dal principio alleato di altre forme di vita, ponendo al servizio, anziché usandole per il dominio, le sue tecnologie. Si tratta quindi di intensità che si fanno alternativa sistemica. Un piccolo esempio è Mondeggi, la fattoria senza padroni a cui è dedicata una parte del libro, oltre che la vita politica dell’autore. Intensità analoga, dall’altra parte di Firenze, è rappresentata dalla lotta incessante per una fabbrica socialmente integrata a produzione ecologica portata avanti dagli operai ex-Gkn.

Ben oltre Latour, questo libro prende spunto dalla permacultura per tradurre alcune pratiche concrete di produzione e ricerca in possibilità di politica ecologista permanente. Per farlo, La condizione ecologica salda il debito intellettuale dell’autore con Felix Guattari, Donna Haraway e Isabelle Stengers. Alcune delle opere più visionarie e criptiche dell’ecologismo contemporaneo vengono rimesse a terra. Non per seppellirle, ma per farle germinare. Nelle pratiche e, dunque, nella materia viva.

Ecosofia

Il punto di partenza teorico del libro e di questa recensione che identifica ambiente, società e soggettività umana come i tre campi dell’azione, è l’ultima parte dell’opera di Felix Guattari; quella dedicata all’ecosofia[1]. La lettura di Ghelfi della proposta guattariana è semplice, l’ecosofia come azione etico-estetica nei tre campi, ma anche parziale: nel testo di Ghelfi l’ecosofia e gli ultimi anni di lavoro (schizo)politico di Guattari mi sembrano letti in controluce all’ecologia delle pratiche di Stengers[2]. In questo modo, l’ecosofia diventa una vera e propria politica minore: “Queste tre tendenze storiche – progressione tecnoscientifica, crisi ecologica, ripiegamento della soggettività – definiscono il territorio psico-materiale a partire dal quale Guattari pensa e sperimenta una politica minore chiamata ecosofia. Rileggere Guattari, e riattivare la sua proposta ecosofica ora, nella nuova condizione ecologica, significa porre la questione del come si vive, ovvero di come sia possibile sperimentare forme di esistenza alternative in nuovi contesti storici”[3]

Quello di Stengers su Guattari è certamente uno sguardo privilegiato. Si pensi al riferimento contenuto ne “Le Tre Ecologie” (1989) dove Guattari lodava l’intramontabile “La Nuova Alleanza. Metamorfosi della scienza” (1984, con il titolo originale di Order out of Chaos: Man’s new dialogue with nature), il libro di critica scientifica che Stengers scrisse insieme al premio Nobel Ilya Prigogine, per aver «invocato la necessità d’introdurre un “elemento narrativo” nella fisica»[4]. Tuttavia, lo sguardo di Stengers, rivolto alla capacità delle “pratiche” di rimarcare l’accento sul “minore” della politica, non esaurisce certo la proposta ecosofica di Guattari. Pur restando ai titoli, spesso fraintesi, l’ecosofia non è (solo) una Rivoluzione Molecolare (1978) – essa emerge un decennio più tardi e si muove da una questione quanto più generale e che risuona oggi ovunque. Il filosofo camerunense Achille Mbembe, meglio di altr3, ha recentemente evidenziato l’onnipresenza di un “doppio della Terra”[5] nelle macchine. Da cui, consegue ciò che era già presente nelle prime pagine de Le Tre Ecologie: la necessità vitale, terrestre, di cambiare drasticamente la direzione della sempre più impressionante innovazione tecnologica. Per salvarCI, con molt3 altr3 abitanti terrestri.

Sull’alternativa tra un Guattari “delle pratiche” e uno “dell’immaginario” vorrei proporre non una critica al libro di Ghelfi, ma un dialogo per forzare l’allargamento ulteriore dell’azione di mediazione e traduzione concettuale che La condizione ecologica propone. Ghelfi arriva infatti a formulare una proposta di transizione ecologica che considera – seppur rapidamente, nell’ultimo capitolo di un libro ricco quanto conciso – il piano politico. Nell’alternativa tra fascismo fossile e discorso eco-modernista liberale, fuori tempo massimo e dalla realtà concreta, l’autore non prende giustamente campo. Ma la domanda che risuona ossessiva nella mia testa, rimane: È possibile accedere alle nuove pratiche e ai nuovi mondi che con fatica costruiscono i movimenti-più-che-sociali senza ingaggiare un grado equivalente di scontro diretto con la politica maggiore? In termini più retrò la domanda può essere riformulata come: è possibile fare politica materialista, o meglio produrre comunismo dentro la crisi ecologica, senza sabotare le strutture fossili, senza confliggere con lo Stato e senza ingaggiare sfide all’altezza del collasso nelle strutture sovranazionali esistenti?

La risposta è ovviamente complessa anche se, per Ghelfi, credo partirebbe con un giusto e scontato “No, ma..”. Per immaginare una risposta dotata di senso a queste questioni, naturalmente troppo ampie, è ancora utile rivolgersi a Guattari, alle molte letture che lo stanno riscoprendo ed arrivare alle pratiche materiali del presente a cui lo stesso Ghelfi fa riferimento. In questo senso, è utile incrociare La condizione ecologica con il terzo capitolo del libro di Raul Sanchez Cedillo Esta guerra no termina en Ucrania (2022). La trans-ecologia di classe che va cercando Raul rende ancora una volta operativo il metodo d’indagine guattariano, proponendo una via uscita dalla morsa in cui si trova il movimento ecologista europeo oggi. Stretto tra riformismo verde e collassismo, esso non trova apparentemente un immaginario in grado di offrire una via d’uscita. Guardando all’esperienza di GKN su cui tornerò più sotto, Raul suggerisce nella convergenza tra operai e giovan3 attivist3 un esempio concreto su cui rompere il binomio – immaginario ma potente – tra attivismo ecologista e classe media[6]. In effetti, da quando il libro di Raul è uscito, la piega dell’immaginario ecologista in una direzione più marcatamente di classe, è qualcosa che ha trainato lotte importantissime in vari paesi europei ben oltre l’Italia, in primis il Regno Unito. Persino sul Manifesto (sul cui inserto ecologista “Extraterrestre” è stata pubblicata la prima parte di questo testo) si nota un interesse inedito per il Guattari ecosofico, soprattutto grazie all’equilibrio precario tra filosofia e giornalismo di Roberto Ciccarelli. Come si spiega tale interesse, oggi, per un autore morto più di 30 anni fa, a lungo scarsamente tradotto, mai entrato in accademia per la porta principale e ancora considerato “oscuro” dai più?

La capacità di lavorare sull’immaginario come una materia viva a mio avviso è il tratto distintivo della proposta schizo-eco-sofica di Guattari, insieme o ancor prima del pensare a partire dalle pratiche concrete che raccoglie Ghelfi (e che sicuramente riguardano il Guattari militante e “terapeuta”). È per questa capacità di lavoro materiale sull’immaginario che, io credo, oggi assistiamo ad una grande riscoperta del militante francese in diversi domini accademici e politici: dalla geografia anglo-americana agli studi su scienza e tecnologia, dalle nuove macchine politiche di produzione mediatica ai gruppi di sostegno mentale e agro-ecologico. Aver “messo le mani” nell’immaginario dei gruppi politici francesi ed europei degli anni ’60, ’70 e ‘80, e al contempo, in quello dei singoli che si trovavano e aggruppavano per le più svariate ragioni all’interno della clinica La Borde, negli stessi anni, ha permesso a Guattari di lavorare con una materia talmente viva – allorché impalpabile – da infiltrare anche le nostre esperienze e pratiche odierne. Contribuisce così all’inchiesta sui nostri stessi immaginari dopo ben 3 decine di anni di inquinamento neoliberale della soggettività.

Nel mio tentativo di lettura di Guattari, do insomma per scontato che quello che immaginiamo sul presente e sul futuro abbia un ruolo del tutto decisivo nella stessa produzione del presente e, ancor di più, del futuro. È in questo senso che ho interpretato un aneddoto che mi ha raccontato Toni Negri e che ha contribuito molto alla mia immaginazione di una politica ecosofica nell’ultimo anno e mezzo: “André Gorz ci diceva spesso [a Toni Negri e Felix Guattari] andate troppo veloci”. Dopo un anno circa di ragionamento in merito, ho chiesto a Toni se non Gorz avesse ragione. La sua risposta è stata: “Quanto alla critica di Gorz – andate troppo in fretta – aveva ragione: anticipavamo..ma su una tendenza dove tutto si giocava sull’anticipazione (vinsero i padroni perché più avevano anticipato). »

La pratica sull’immaginario di Guattari era così una pratica della tendenza. Con tutti i limiti politici, eventuali e contestuali, l’indagine sulla produzione di soggettività nel primo decennio di aggressione neoliberale che Guattari condusse insieme a Toni, a cui offrì asilo politico, documenti e amicizia, è oggi più che mai preziosa. Lo è perché parla con vigore ai nostri tempi in cui, come noto, si parla di fine del neoliberismo (e del capitalismo) ma non si riesce ad immaginarla senza schiacciarla sulla “fine del mondo”. Non sembra oggi possibile immaginare niente fuori dal collasso ecologico che Guattari considerava già come prossimo nel 1989 e che, insieme a Negri nel 1985 indicavano dentro un unico piano di consistenza tra armamenti nucleari e illusione di energia infinita, contro cui le lotte anti-nucleare si battevano, rifondando già nuove possibilità di movimento europeo. Difficile non vedere l’inedita attualità di tale “visione” in questi giorni, mentre i media occidentali ammettono candidamente che la NATO sta inviando proiettili all’uranio impoverito in Ucraina e mentre le distinte “sensazioni di catastrofe”, atomica e climatica, dividono le forme di soggettivazione tra generazioni, impedendo quel movimento “eco-pacifista” e intergenerazionale che tanto ci manca oggi.

Se ci concentriamo, dunque, sull’incapacità di produrre immaginario di un futuro alternativo, si innestano i movimenti-più-che-sociali de La condizione ecologica, le pratiche materiali e alternative checi servono come il pane. O meglio, pensando alle esperienze concrete quali Mondeggi Bene Comune da cui muove il suo pensiero materialista Ghelfi, esse ci servono letteralmente a tavola tutto il pane, l’acqua, il vino, le verdure (e talvolta persino il cinghiale!) possibili e immaginabili, esse diventano persino necessarie per godersi dei momenti di piacere dentro tempi di catastrofe (ecologica, epidemica, bellica, energetica, finanziaria, idrica..). Tuttavia, al tempo stesso non si può nascondere che questi esperimenti radicali e territoriali risultino sempre (soprattutto per chi di noi è abituato ad andare di fretta) “non abbastanza” per la scala a cui necessariamente si collocano i problemi affrontati da Mondeggi e da altre esperienze analoghe di produzione alternativa, per quanto avanzate.

Scala e esperimenti organizzativi

Il concetto di “scala” è probabilmente il più prezioso contributo della geografia critica. Esso ci aiuta a collocare i movimenti, anche quelli più-che-sociali, e a collegarli con le crisi più generali del presente, nonché con le scommesse organizzative che possiamo immaginare dentro di esse. La scala dove si colloca un progetto come Mondeggi Bene Comune può sembrare estremamente piccola o, al contrario, estremamente ampia. Si tratta infatti, in fin dei conti, di alcuni ettari abbandonati nel Comune di Bagno a Ripoli, con qualche casa colonica ed una villa storica “intoccabile”. Si tratta anche, però, di re-immaginare la produzione e la distribuzione del cibo e della terra. Sviluppo cioè di alternativa concreta, e connessa su scala nazionale tramite Genuino Clandestino, in un settore economico a dir poco essenziale, quello della produzione di cibo; la cui crisi, è indicata da decenni (tanto dall’eco-marxismo che arriva fino al chiarissimo Jason Moore quanto dall’eco-femminismo spiritualista di Vandana Shiva) come insanabile dentro i meccanismi del sistema produttivo capitalistico. E, in effetti, da materialisti capiamo che non è la pura cattiveria del grande capitale schiavistico brasiliano a distruggere l’Amazzonia…

Si dirà, giustamente: certo, ma esperimenti analoghi sono in corso in Occidente fin dagli anni ’60 (a cui va aggiunto il bricolage composto tramite il recupero delle pratiche di agroecologia ancestrali ed indigene. Cosa avrebbe dunque Mondeggi di speciale, di inedito, di futuro? Il fatto nuovo, ci spiega Ghelfi nel suo ultimo capitolo sulla transizione, sta nella crescente trans-località di queste esperienze. Esperienze locali sempre più diffuse e, soprattutto, sempre più connesse in reti logistiche alternative in grado di perdurare nel tempo. Da parte mia, come frequentatore saltuario con accento toscano, la particolarità di Mondeggi la vedo in primo luogo spaziale e in secondo luogo organizzativa. I poderi di Mondeggi (oggi di proprietà pubblica e chiara tradizione aristocratica) sono “al centro” della campagna toscana, dove il concatenamento tra monoculture vinicole e nomi di luoghi diventati brand come “Chianti classico” ha prodotto una finanziarizzazione pari o superiore a quella dei principali centri urbani italiani iper-turistificati. Il suolo, i saperi e il valore d’uso di prodotti storicamente determinati sono espropriati e trasformati in tossica rendita nei mercati internazionali del lusso. O, quando va bene, in prestigiose “Università del Vino” e truffe vecchio stile sulla provenienza dei prodotti. Produrre proprio lì un’agricoltura che invece di intossicare suolo e menti contribuisce alla riparazione non vuol dire stare “fuori dall’urbano” divenuto società complessiva. Ma, anzi, significa in molti sensi stare al centro del problema, seppur nella scomodità delle stradine di campagna che per 15-20 minuti separano Mondeggi dal “provinciale” centro storico fiorentino.

Questa scala, sia piccola che grande, è quella a cui l’esperienza di Mondeggi è riuscita a collocare la sua enorme sfida. Le formule organizzative adottate ne sono la conseguenza. Non senza difficoltà, infatti, sin dall’inizio degli ormai 8 anni di occupazione è stata costruita una grande comunità di resistenza tramite la redistribuzione delle terre e a saperi ibridi di “nuova contadinanza”. Grazie alla capacità di rapida riparazione degli ulivi, nonché alla loro nota generosità in quanto piante che necessitano di pochi momenti di attenzione durante l’anno (non a caso immaginario di pace ben prima di diventare simbolo di disastri del centro-sinistra..), è stato subito possibile distribuire il lavoro e la cura di enormi poderi a persone che abitano ben fuori dalla provincia fiorentina, su scala regionale o addirittura nazionale. Questo concatenamento “più che umano” ha permesso di innestare un esperimento organizzativo dentro l’esperimento produttivo: pur non prescindendo dalle poche decine di persone che hanno abitato quotidianamente i casolari recuperati di Mondeggi, l’organizzazione di Mondeggi Bene Comune si nutre del concatenamento degli abitanti con singolarità, gruppi, reti che sono “periferiche” rispetto alla localizzazione del progetto, ma che apportano energie, saperi, tecniche e persino “abbrutite” – ma fondamentali – competenze. Tale peculiarità organizzativa – del tutto armonica con l’impostazione che Guattari imprime all’ecologia sociale – suonerà come un ritornello per molt3. Di certo, lo è per chi, come me e Ghelfi, ha provato con fatica, entusiasmo (e dunque ovvio attrito), a star dentro i processi di convergenza socio-ecologista che si sono dati a livello globale, nazionale, e particolarmente nella regione toscana, nell’ultimo anno. Il contributo guattariano di Ghelfi è stato pratico – e prezioso per tali processi – esattamente su questo punto: richiamare alla necessità di costruire macchine politiche che non si attestino sulla sufficienza della costruzione e dell’allargamento di gruppi omogenei e centrali, ma che includano nel black box gruppi “periferici” e singolarità (schizo?).

GKN – Il salto obbligato

Il salto di scala è stato sicuramente l’esperienza del presidio permanente che il Collettivo di Fabbrica GKN, con il supporto di Insorgiamo, porta avanti nell’occupazione di fabbrica più lunga della storia italiana (quasi 21 mesi, chi l’avrebbe detto?). L’esperienza è stata ripercorsa nel dettaglio dall’importante testo di Moresco ripreso in questi giorni sul nostro sito, il quale rilancia la fondamentale biforcazione che abbiamo di fronte: da un lato l’ennesima, scontata, sconfitta. Non una sconfitta qualsiasi però, si parla della creazione di un pericoloso precedente degno di questi tempi autoritari, in cui padroni e istituzioni puniscono l’impegno operaio alla lotta generale negando per mesi salario e cassa integrazione quand’anche si resti ancora nel pieno diritto legale ad essi, ribadito dalla vittoria di procedimenti giudiziari. Non parlo qui, per mancanza di spazio e di parole morigerate, di una nota confederazione sindacale che ha impedito la generalizzazione (che nei fatti si è data, ma solo fuori dai perimetri sindacali e salariali) di questa incredibile lotta nonostante i lavoratori abbiano la sua tessera in tasca. Dall’altro lato c’è però ancora un lumicino di immaginario, di possibile. L’unico progetto in campo ad oggi è quello del movimento Insorgiamo, degli operai della fabbrica, delle rsu, de3 compagn3, dei ricercatori solidali, degli artisti a sostegno, del crowdfunding attivo “GKN for Future”. Un progetto per produrre quello che serve e a modo nostro. Non per noi, ma per tutt3, abitanti più che umani di questo pianeta compresi.. La lotta della GKN non è stata solo lotta per il salario a lavoratori considerati “garantiti” che erano già attivi nel sindacalismo radicale della “calda” area industriale tra Prato e Firenze, non ha solo reso solidale, territoriale e persino nazionale una lotta di fabbrica, non si è solo alleata con le giovani generazioni e le esperienze ecologiste che lottano per spiragli di futuro. Con Insorgiamo si è costruito un modello di organizzazione dove chiunque, singolo e collettivo, può trovare un appiglio per prendersi un pezzo di futuro e provare a restituirlo nella lotta, costruendo relazioni. Soggettivazione, si diceva, insomma. Solo così io mi spiego non solo la mia voglia di andare in quella fabbrica, ma anche il fatto di aver incontrato in quella schifosa area industriale, a Campi Bisenzio, ragazz3 di 16,18 o 20 anni, di un’intelligenza travolgente, e venut3 da centinaia di km di distanza, in pausa da vite invivibili di scuola/università o lavoro, o meglio entrambi. Il modello organizzativo che ha incluso qualsiasi appoggio era impregnato di priorità fin dal principio: prima assemblea del collettivo di fabbrica (“gruppo omogeneo” dal punto di vista del lavoro politico degli anni precedenti e della necessità contestuale di non perdere lavoro/salario) e poi assemblea del movimento Insorgiamo (“gruppo schizo”, macchina trans-mediatica senza precedenti nell’Italia di movimento a cui io ho guardato ossessivamente negli ultimi 10-12 anni), con indirizzo chiaro dal primo sul secondo. Per il primo anno abbondante, non si è parlato di reindustrializzazione o produzione dal basso. La legittimità in questo senso va insieme alla necessità. Solo la strenua lotta per il “lavoro” (che rende tristemente comunicabile la vera lotta, per il salario) ha permesso, o costretto, ad una comunità diventata territorio, di dover lanciare la partita ancora più in alto.
Il concetto di scala, in questo caso, vacilla. Un’esperienza del genere ha influenzato se non segnato ogni movimento nello spazio linguistico e politico italiano. Per dirne una che sembrava inimmaginabile, il tavolo lavoro di Stati Genderali aprirà un Festival internazionale di Letteratura Working Class che si terrà nella fabbrica, il prossimo fine settimana. Su scala provinciale e regionale ha influenzato e mobilitato le opinioni di una “sinistra senza organi”, nonché scosso fin nelle più solide e corrotte basi le strutture di un fu centro-sinistra che ha governato da sempre. A Campi Bisenzio, con concerti, assemblee e cortei “da rotonda a rotonda” ha dato un senso, ha prodotto un luogo, proprio laddove i potentati locali hanno piazzato il non-luogo per eccellenza: il centro commerciale “I Gigli”, il più grande della Toscana. Infine, se questa scommessa su reindustrializzazione dal basso e fabbrica socialmente integrata, se la produzione di cargobike e pannelli solari non dipendenti dai monopoli cinesi delle terre rare, dovesse in qualche modo non essere sconfitta del tutto… sarebbe un precedente fondamentale a livello globale. Che nessuno si può permettere. Meno che mai nell’Italia post-fascista di oggi.

Per evitare che la speranza sull’esperienza sia eccessiva la RSU del collettivo di fabbrica ripete spesso, tra i vari mantra: “Perderemo, perché noi perdiamo sempre, ma dovremo almeno poter dire che ce l’abbiamo messa tutta. E dovremo almeno poter spiegare perché e come abbiamo perso”. Non abbiamo ancora perso. Ma non vogliamo né sperare né avere paura. Ci servono “nuove armi”[7]. E ci siamo ritrovati, grazie a una diritta iniziativa operaia, una fabbrica piena di macchine ferme..

Per tutte queste ragioni mi sono trovato a cantare, insieme a Ghelfi e moltissim3 altr3, un adagio per rivendicare una fabbrica – io che dentro una fabbrica prima non ci ero molto fortunatamente mai stato e che non aspiro certo ad entrare in fabbriche “non nostre”. Il coro recita: “è la mia fabbrica / e la difenderò / e Mario Draghi /e la Meloni / son servi di Melrose[8]”. Canteremo ancora questo coro Sabato 25 Marzo 2023, di nuovo in migliaia nelle strade della insopportabile città-vetrina-museo fiorentina. E, proviamo a immaginarlo, lo canteremo ancora per anni ed anni. “Fino a che ce ne sarà”.


[1] Essa non comprende solo Le Tre Ecologie, ma almeno anche Caosmosi (1992). Per certi versi, per me questa fase comincia con un testo molto particolare che scrisse insieme a Toni Negri appena esiliato nel 1985, che ha 3 nomi diversi nelle tre lingue in cui è disponibile : Les nouveaux espace de liberté in francese ; Communists Like Us in inglese ; Le Verità Nomadi in italiano. Molto significativamente, solo la traduzione inglese (con il titolo più infelice/criptico) è di facile reperimento.

[2] Isabelle Stengers, Introductory Notes on an Ecology of Practices, Cultural Studies Review : 11,1 (2005)

[3] Andrea Ghelfi, La Condizione Ecologica, Edifir, Firenze 2022, p. 15

[4] Felix Guattari, Les Trois Ecologies, éditions Galilée, 1989 p. 31

[5] Achille Mbembe, La communauté terrestre, Le Decouvert, Paris 2023.

[6] Il suggerimento di Raul in questa direzione non è calato « dall’alto », viene piuttosto da un’indagine sul concetto di « classe media » all’opera nei movimenti del 2011 e particolarmente nel 15M, lunga ormai un decennio e che coinvolge vari compagn3 della Fundación de los Comunes, tra cui Emmanuel Rodriguez.

[7] Gilles Deleuze, Poscritto sulla Società del Controllo

[8] Enorme fondo di investimento, proprietario della fabbrica GKN di Campi Bisenzio

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