di TONI NEGRI.
«Partiamo da un dato impossibile da rifiutare: nella situazione attuale, caratterizzata da una trasformazione della globalizzazione e dall’emergenza di nuove linee di conflitto a livello mondiale, la questione degli spazi – o, se preferite, la questione geopolitica e geoeconomica – è divenuta decisiva per lo sviluppo della lotta di classe».
È evidente che con queste parole si allude al declino imperiale americano e ai nuovi processi di aggregazione multipolare cui partecipa l’Unione Europe. Nel recente editoriale Ripensare l’Europa Unita avevamo cominciato a proporre questo nuovo livello di analisi, concludendo con un «sì all’Unione» e proponendo un’approfondimento della battaglia per il federalismo europeo. Un federalismo – avevamo aggiunto – non delle nazioni ma delle metropoli, dei luoghi produttivi di un nuovo modo di vita, di sentire e di desiderare, nella nostra Europa – se si vuol dire con parole antiche, un federalismo delle lotte di classe.
Oggi è forse necessario – dopo le elezioni italiane e considerando che la deriva di entrambe le forze vincenti trova equilibrio nel sovranismo antieuropeo – ritornare su questo «sì» per riaffermarne il senso e la direzione. Tanto più che anche alcune forze di sinistra, emerse nell’ultimo periodo elettorale, appaiono adepte alla rinnovata illusione del sovranismo e del populismo ed incrociano (non mi sembra volentieri – tuttavia effettualmente) i loro desideri e quelli reazionari della Lega e del M5S.
Ora, nell’editoriale che abbiamo citato, sottolineavamo che alcune difficoltà (forse le principali) nella costruzione di un’Europa Unita stavano nella confusione del progetto europeo e delle politiche della superpotenza americana e nella sovrapposizione ad esso della NATO. Dopo aver sostenuto il processo di unificazione europea durante la Guerra Fredda (e ben si intende perchè), gli USA con sempre maggior nervosismo, hanno operato ad un indebolimento dell’Unione: ciò è reso evidente, per esempio, dalla maniera nella quale essi hanno sostenuto e sostengono i discorsi della destra più ribalda nei paesi dell’Est europeo, e fatto sì che la guerra sia ancora aperta sui bordi russofoni dell’Ucraina; e soprattutto per il modo in cui gli Stati Uniti corrompono le élites dell’Unione e, ancora, sempre più rigidamente sovrappongono la questione dell’allargamento della NATO a quello dell’Unione, forzando, da un punto di vista militare, l’Unione ad accettare le politiche di un Impero declinante.
Di contro, condizione fondamentale per la crescita dell’Unione sembra essere una rinnovata attenzione critica, e eventualmente l’espressione di un forte dissenso, a fronte del sovrapporsi della NATO allo sviluppo dell’Unione. L’assenza di questo tema dal dibattito degli europeisti di sinistra – ed alludiamo alle «liste trasnazionali» ora in formazione – è cosa scandalosa. Non ci si può considerare europeisti se non si prende coscienza (e non si assume la responsabilità) del fatto che le divisioni corazzate turche distruggono la «democrazia di Kobane» nei territori curdi o che i corpi speciali francesi, sotto la maschera dell’antiterrorismo, combattono forze popolari di resistenza al neocolonialismo nell’Africa subsahariana – ebbene, si tratta sempre di truppe NATO. Questa denuncia va portata all’interno dell’Unione, per configurare – oltre il senso infame delle politiche siglate dalla Mogherini – una nuova direzione di marcia.
Ciò riconduce a riflettere sulla dinamica materiale di un progetto per l’Unione Europea. Quali sono le possibilità di costruire un nuovo cammino federale fuori dalla tutela americana e come pervenirvi? Siamo così ricondotti al punto di partenza: che cosa può essere l’Unione Europea nel momento in cui l’egemonia americana è in declino e una sorta di multipolarismo continentale si afferma? Mentre, in ogni parte del mondo (in Asia attorno alla Cina e già in America Latina attorno al progetto bolivariano, ora in crisi, ma ancora attorno a Russia e India) così come succede in Europa, si moltiplica la ricerca di forti convergenze continentali, alla ricerca di uno spazio singolare e potente dentro un processo irreversibile di globalizzazione?
Prima osservazione: l’Europa è aperta sull’Oceano atlantico. Il rapporto atlantico con la superpotenza americana (perchè, pur essendo in declino, gli USA continuano ad essere una superpotenza) è evidentemente una questione essenziale. Ci vuole un rapporto – ma quale tipo di rapporto? Quello che si era costituito durante la Guerra Fredda, e che il trattato nordatlantico continua a far esistere, sottomettendo ogni strumento di sicurezza europeo alle scelte americane? Quel rapporto, nelle forme che gli sono proprie, non può permettere la ricostruzione dell’Unione. Si dimentica troppo spesso che l’Europa è una penisola del continente asiatico; che l’Europa si apre al Medioriente e all’Africa attraverso il suo mare interno, il Mediterraneo. Dopo la fine della guerra fredda, l’Europa si è integrata ai paesi euroasiatici – dal punto di vista del rifornimento energetico, e almeno parzialmente ma in maniera determinante, dal punto di vista commerciale. Questa integrazione si svilupperà molto probabilmente in maniera ulteriore. È un fatto positivo: l’attrazione (politica, commerciale, culturale) dell’Europa è particolarmente forte su paesi euroasiatici come Russia o Turchia. Nella «lunga durata» le rotture che si danno fra Europa e questi paesi sono episodiche; nella tarda modernità esse sono sempre state provocate dall’alleato americano. Altrettanto (meglio, ancor più) queste riflessioni valgono a caratterizzare il rapporto che stringe l’Europa ai paesi dell’Africa mediterranea e a quelli del Medio Oriente. In questo caso, la liberazione di questi rapporti dal fardello coloniale che li ha spesso caratterizzati nel passato, passa dallo sganciamento delle politiche imperiali USA. Sono osservazioni generiche – è evidente. Ma, ciò malgrado, esse dicono qualcosa di importante: l’Europa e la sua unione non possono nascere senza un equilibrio tra dimensione atlantica e apertura asiatica. Da questo punto di vista, il Brexit è alla fin fine una cosa buona, perchè ha permesso di restringere le possibilità di sovrapposizione dell’interesse europeo e dell’interesse atlantico. Le «relazioni speciali» tra Gran Bretagna e USA non interferiranno più nelle politiche europee – o in ogni caso, meno di quanto esse lo facessero fin’ora.
È in questa direzione che dobbiamo muoverci. Ma ancora una volta sottolineando che non è possibile farlo se si assumono posizioni nazionaliste o si promuovono populismi sovranisti. Vi sono, certo, dei filosofi e degli «esperti», senza parlare dell’opportunismo dei politici, che sostengono che non si possa fare in nessun caso l’economia del tema della sovranità nazionale e che, «se non si passa attraverso il quadro dello Stato», la lotta per l’Unione «non avrà alcuna possibilità di pervenire ad un livello continentale e neppure di aspirare a un nuovo equilibrio nelle relazioni internazionali» – ecco il parere del politologo che si annovera fra gli ultimi schmittiani. Non è tuttavia servendosi dello Stato nazione, utilizzando questa «leva di potere», che si potrà pensare la costruzione di una «Europa differente». Questa posizione (sostenuta dai populisti di sinistra – bisogna aggiungere: spesso con onesta ingenuità) riposa su una falsa affermazione. Essa infatti non comprende l’enorme declinazione negativa delle sovranità nazionali che la globalizzazione ha provocato. Essa nutre l’illusione di sufficienza dell’istanza sovrana «in sé e per sé» – come se paradossalmente lo Stato nazione potesse rappresentare una sorta di «fuori» in rapporto alla mondializzazione, un luogo neutro nella «sussunzione reale» del pianeta sotto il comando capitalista. E anche se certi ammettono che gli Stati nazione hanno finito per essere degli intermediari disciplinari necessari alla realizzazione dei programmi neoliberali (scoprendo così – un po’ tardivamente – quella vocazione sempre più statalista della governance neoliberale, che sfiora il fascismo), bisognerà che essi comprendano che la governance europea è divenuta determinante e che è solo a partire da essa che si può incidere sul livello globale del potere – e lottare efficacemente contro il neoliberismo.
Una nuova stagione di insubordinazione che sollevi la protesta contro le politiche atlantiche dell’Unione (politiche che sempre più prefigurano la guerra) e che solleciti i movimenti a convergere su questo terreno – questo è un terreno sul quale ricomporre una spinta costituente per l’Unione. Va qui sottolineato che la democrazia costituzionale, costruita alla fine della seconda Guerra Mondiale sullo specchio delle urgenze della Guerra Fredda, non è riuscita a trasformarsi e vive l’agonia delle forme politiche di quel tempo. Bisogna uscire da quell’epoca. Introdurre nel dibattito il tema della soggezione atlantica dell’Europa, e quindi l’incombente possibilità di guerra – vale a dire riprendere l’agitazione contro le spinte alla guerra che l’amministrazione americana sempre più ossesivamente produce ed esprimere un radicale rifiuto di questa minaccia che si organizza sulla paura per produrre terrore, significa proporre finalmente un’Europa senza guerra, un mondo senza guerra.
Per tutti coloro che hanno immaginato un’Europa Unita, oltre le guerre che per secoli l’avevano traversata, era il principio di sovranità nazionale che doveva essere distrutto. A questo feticcio, sopravvissuto alla storia del suo sviluppo unitario ed ora utilizzato come riaffermazione di limiti e frontiere, contro il diritto a sottrarsi e fuggire dalla miseria, dalla guerra e dall’oppressione, l’Unione Europea, quale essa è oggi, presta il suo concorso. Un secondo feticcio accompagna il primo feticcio della frontiera, indissociabile dalla sovranità nazionale: è quello della proprietà privata e del suo potere assoluto. Il limite sovrano e il limite proprietario, indissolubilmente uniti, sono la trama del comando neoliberale, costruito, mantenuto e trasfigurato dall’Unione. Con la guerra quei feticci sono definitivamente difesi e resi indistruttibili. Proprio mentre, all’interno dell’Unione, essi non fanno altro che produrre miseria per i proletari e impoverimento della società; a livello internazionale producono guerra e giocano con armi che possono condurre alla distruzione del pianeta.