Di GIROLAMO DE MICHELE
C’è un personaggio di un bel film, un leader nero di nome Jeriko One (oggi sarebbe di Black Lives Matters) che nell’ultimo discorso che fa, prima di essere assassinato da un poliziotto la notte del capodanno del 2000, esclama: stanno riordinando le sdraio sulla tolda del Titanic! (These people are rearranging deck chairs on the Titanic). È la sensazione che si prova in questo momento in questa strana scuola che è scuola senza esserlo, parte dentro parte fuori – non avevamo bisogno di questo per capire che la “modalità blended”, così come la DaD, non funziona. Facciamo scuola senza farla, rispettando norme e principi che appartengono a un’altra era geologica. I profili di licei e istituti tecnici e professionali, i cosiddetti PECUP, sono di dieci anni fa. Anche fingendo di non sapere che furono scritti in allegato alla controriforma Gelmini, che di fatto negava gli strumenti minimi per raggiungere gli obiettivi lì trascritti, resta che quei profili, quei curricoli, quella ripartizione delle discipline sembrano scaturire da un carotaggio geologico: quando non si aveva consapevolezza (e quindi ci si comportava come se non esistessero) della crisi ambientale, delle pandemie (che pure già c’erano), della crisi economica globale, dei processi migratori in atto da anni. Dentro i contenitori di una scuola scritta con lo sguardo rivolto al passato, dovremmo versare le risposte a una generazione che chiede di sapere dei nodi che intrecciano le diverse crisi, perché quello è l’orizzonte futuro nel quale dovrà orientarsi nella vita: come andare alla 24 ore di Le Mans con la vecchia SEAT del professore della Casa di Carta, e pretendere di essere competitivi.
L’emblema di questo paradosso è la nuova materia di Educazione Civica, che riunisce al proprio interno tre curricoli: cittadinanza e costituzione, cioè l’educazione civica vera e propria; educazione digitale; e Agenda 2030, cioè 17 obiettivi (Sconfiggere la povertà; Sconfiggere la fame; Salute e benessere; Istruzione di qualità; Parità di genere; Acqua pulita e servizi igienico-sanitari; Energia pulita e accessibile; Lavoro dignitoso e crescita economica; Imprese, innovazione e infrastrutture; Ridurre le disuguaglianze; Città e comunità sostenibili; Consumo e produzione responsabili; Lotta contro il cambiamento climatico; Vita sott’acqua; Vita sulla Terra; Pace, giustizia e istituzioni solide; Partnership per gli obiettivi). Senza un’ora in più e senza un docente in più, dovremmo fornire gli strumenti minimi per la comprensione di quei 19 temi, che sono non solo importanti, ma imprescindibili. Come è possibile pensare una tale ampiezza di orizzonte scolastico all’interno della vecchia struttura scolastica, che è il prodotto di un continuo restyling di un edificio a voler essere buoni gentiliano, se non ottocentesco?
Basterebbe chiedersi di cosa ha bisogno, in termini di curricoli, personale, ambienti, strumenti la scuola per svolgere quel programma, e avremmo già disegnato lo schema di una vera riforma della scuola: e invece ci tocca compilare l’ennesimo quaderno di lagnanze.
Reload: esame di Stato 2020. È giugno, e in un ambiente surreale, un po’ come girare 2001 Odissea nello spazio all’interno dei consueti spazi scolastici nei quali non entravamo da 4 mesi, gli studenti sono convocati per un altrettanto surreale colloquio onnicomprensivo, che consentirà a qualcuno, col senno di poi, di dire che non s’è ammalato nessuno, dunque si poteva fare (dunque, si potrà fare l’altrettanto surreale concorsone: che infatti non s’è fatto perché il virus pandemico si fa beffe di queste estemporanee esternazioni). In un contesto nel quale il meno che si potesse dire è che nessuno sapeva che cosa ci aspettava, è andato in onda un gigantesco riordino delle sdraio, cioè un colloquio su argomenti studiati alla meno peggio, che alla luce della strage pandemica apparivano quasi comici.
Qualcuno avrà parlato di un “approfondimento”, tacendo delle condizioni didattiche in cui è stato fatto, sul presente; qualcun altro si sarà sentito chiedere la Lettera sul romanticismo del Berchet, o quella poesia di Tennyson che parla di natura, o Benedetto Croce. E i docenti, a discutere, alzare la mano per un punto in più o in meno, valutando che nella seconda parte dell’anno la/lo student* ha recuperato le lacune del primo periodo o meno, e se non le ha recuperate pazienza (e pazienza se in quel secondo periodo la/lo student* ha avuto un congiunto malato in quarantena, un genitore nei servizi infermieristici, un anziano della cui vita c’era da temere a ogni colpo di tosse: ma mi dica, mi dica la differenza fra il Berchet e il Manzoni, e la divisione dello Spirito in quattro spicchi, e quel poeta inglese tornato dalla prima guerra mondiale con una poesia sul taccuino, e insomma, di che colore erano queste benedette sdraio sulla tolda del Titanic, e cosa suonava l’orchestra quella notte…).
Torniamo al presente. Qualcuno potrebbe dire, e non avrebbe torto: se quella è la scuola che doveva riaprire, tanto vale tenerla chiusa. Tanto vale strofinare la lampada della didattica digitale, e lasciar fare allo spirito che ne fuoriesce; tanto vale lasciare aperta la porta di casa, per consentire all’Impresa, al Terzo Settore, a Confindustria, alle piattaforme Google & Co., di accedere senza neanche la fatica dello scasso alla cassa dei fondi europei, del Recovery Found, di NextGenerationEU: non li sentite grattare sul legno della porta, come in un b-movie horror nel quale il serial killer con la sega a nastro e la maglietta con su scritto “Milano (o Bergamo, o Lombardia) Riparte” entra nella casa e i presenti vengono uccisi tutti, tranne la studentessa carina, l’unica ad essere rimasta vergine che vincerà uno stage a titolo gratuito da inserire nel proprio curricolo?
Qualcun altro potrebbe invece dire (“Priorità alla Scuola”, ad esempio) che le condizioni per riaprire le scuole in presenza e in relazione erano altre: classi non affollate, quindi più docenti, quindi stabilizzazione dei precari, quindi requisizione degli edifici sfitti (ex caserme e ospedali, ex mercati, palazzi disabitati); mezzi pubblici adeguati, quindi acquisto/affitto di mezzi e assunzione di personale, senza i quali non si possono variare gli orari e i giorni di scuola (sono cose utili da sapere a chi volesse fare la ministra dei trasporti senza recitare gag in pubblico, che Gigi Proietti era di un altro livello); presìdi sanitari nelle scuole, quindi ricostituzione delle infermerie scolastiche e assunzione di personale medico, in un quadro di mantenimento e potenziamento degli organici nella sanità. Che sono, per inciso, le condizioni minime per una scuola degna anche in assenza di pandemia. Cos’altro significava dire, in estate, che “dobbiamo imparare a convivere col virus fino al vaccino”, se non predisporre tutto questo? E invece: mezzi di trasporto pieni all’80%, niente personale, niente presidio sanitario (che avrebbero, eccome, alleviato le code per i tamponi nel drive in), niente di niente. Quattro spiccioli, che nelle parole della ministra si moltiplicano ad ogni apparizione televisiva come i pani e pesci a Betsaida, salvo rivelarsi alle fine cinque piade e due scatolette di tonno.
A chi scrive è stato risposto, da un “alto loco”, che quello che chiedevamo costava troppo. Quello che chiedevamo era, è il minimo per mettere in sicurezza un sesto della popolazione italiana per una parte importante della giornata (poi quel tale se n’è andato sbattendo la porta, ma non ho capito se lo Slam! della porta era del ministero da cui usciva, o di quello in cui entrava).
Però è vero: quello che la scuola chiede costa. Ed è forse vero che non c’è un governo né un’opposizione che ha il coraggio di dire (per poi essere conseguente) che i soldi, quando servono, si prendono là dove sono, come fece la Serenissima Repubblica quando, con una tassazione proporzionale dura e senza sconti, costruì il sistema di scaloni in pietra d’Istria che ha di fatto spinto indietro l’Adriatico e salvato Venezia. E se non ci sono soldi per tutto e tutti, bisogna fare delle scelte, fissare criteri, stabilire gerarchie.
E dunque: perché la scuola dovrebbe avere priorità, rispetto ad altri settori? In altri termini, a cosa serve la scuola? Perché la risposta alla prima domanda dipende da quello che si risponde alla seconda. Si può tenere chiusa per qualche mese qualsiasi cosa: scuole, fabbriche, stadi, discoteche, bar, ristoranti, reparti di pronto soccorso, piste da sci, chiese, saloni di massaggi e manicure, parchi pubblici… Perché la scuola no?
Se la scuola è solo trasferimento di pacchetti di informazioni ed elaborazione di riassunti a partire dalla rete (come pensavano Gelmini, Tremonti e Renzi), allora la si può fare a distanza. Se insegnare significa accendere una passione, creare relazioni fra soggetti che imparano l’arte della cooperazione, imparare dai propri errori tanto quanto dai propri successi, sviluppare il pensiero divergente, scartare di lato invece che seguire la strada segnata, pensare differente, imparare a imparare: allora la scuola deve svolgersi in presenza e in relazione, oltre che in sicurezza.
Nella società della conoscenza e del capitalismo cognitivo l’intelletto è messo al lavoro: l’esaltazione tecnocratica bypartisan (vogliamo dire: da Assolombarda a Giorgio Gori, solo per citare quel che s’è sentito agli Stati Generali della Scuola Digitale de 27 novembre scorso?) per i nuovi orari inconsueti in cui si è svolta la DaD “da cui non si potrà tornare indietro”, il superamento della scansione “dello scorso secolo” istruzione/lavoro/pensione in favore di una “istruzione digitale lunga tutta una vita”, a cos’altro alludono, se non all’intelletto messo al lavoro h 7/24?
Ma è anche vero che questa forza lavoro che è la capacità intellettuale, anche quando viene venduta per un salario, non viene persa da chi la possiede. Nella qualità dell’intelletto, nella sua capacità di riflessione, resistenza, innovazione, creatività sta la differenza fra l’asservimento e il farsi da sé, fra l’obbedienza e l’autonomia dei processi di soggettivazione: se questo è vero, allora nella qualità della scuola (senza pretesa di esclusività) è messa in gioco la possibilità di una vita futura da suddit* piuttosto che da cittadin*. La priorità di una scuola di qualità, in presenza, relazione e sicurezza dipende e discende da tutto questo: le gerarchie fra cosa si deve riaprire e cosa no fanno segno non ai banchi a rotelle e alle ciaspole, ma quale futuro vogliamo abitare.
Questo articolo è stato pubblicato su doppiozero l’1 dicembre 2020. Immagine di copertina dal gruppo Facebook Priorità alla Scuola.