Di MICHELE SPANÒ.
In molte e in molti ricorderanno la famigerata legge 189/2002, che, come spesso accade ai grandi capolavori legislativi, è passata alla storia sotto il nome dei due lungimiranti nomoteti. Si tratta di quella legge Bossi-Fini, al cuore del cui dispositivo stava il nesso – lo scambio, la confusione – tra permesso di soggiorno e contratto di lavoro.
IN UN QUADRO squisitamente repressivo si dispiegava una volta di più quello che è a tutti gli effetti un mitologema della modernità, una delle sue «promesse» direbbero alcuni: la consumazione integrale della cittadinanza nel lavoro. È alla ricostruzione del momento in cui questa saldatura si è operata e l’inclusione nel contratto sociale è avvenuta in forza dell’istituzione discorsiva e materiale del lavoro come soglia di accesso ai diritti di città che è dedicato l’ultimo volume di Federico Tomasello, L’inizio del lavoro. Teoria politica e questione sociale nella Francia di prima metà Ottocento (Carocci, pp. 161, euro 18). Un libro singolare, il cui passo metodologico è certamente foucaultiano: al centro c’è l’analisi di un’emergenza, di un cominciamento.
QUAND’È infatti che inizia a esistere qualcosa come il concetto moderno di «lavoro»? E quali sono le determinazioni speciali, logiche ma pure materiali e contestuali, che ne fanno un segnavia della modernità? La storia dei concetti si bagna quindi al mare degli eventi e per dire qualcosa attorno a quella che è la vera e propria architrave morale della cittadinanza moderna c’è da selezionare un evento, un inizio, che funzioni come archivio di positività e di virtualità. E allora, contrariamente forse alle attese, non è il ’48 a funzionare da prisma della reimpaginazione di status e diritti sotto il segno dell’eguaglianza formale dei prestatori d’opera, ma il 1831 della rivolta dei «canuts» lionesi. Siamo nel bel mezzo di quel «tempo rovesciato», a cui Sandro Chignola ha dedicato tanti e decisivi lavori; un tempo spurio in cui intelligentissimi reazionari spiegano e dispiegano la Rivoluzione e istituiscono discorsivamente la «società».
ALL’INCROCIO di preoccupazioni «scientifiche», cura governamentale e insorgenza «popolare», si mette in moto una «scena» che vede debuttare la sociologia – tra inchiesta, pedagogia e tassonomia – come sapere eminente del sociale e un’azione politica il cui soggetto aspetta di essere battezzato: è, sarà, la classe operaia. Qui il metodo di Tomasello confessa il suo debito operaista (ma forse anche di un Thompson senza romanticismo): epoca e soggetti urtano sempre, per anticipazione e anacronismo. La tesi è perciò politica: l’istituzione della «classe» è un processo materiale e discorsivo conflittuale che è anche dell’ordine del bricolage e della composizione. Il «lavoro» è la posta in palio di un affrontamento: bisogna che qualcuno lo soggettivizzi. Questo sarebbe accaduto nel 1831: per stare dentro, e contro, la «società» – concorrendo a istituirla – si scelse il lavoro come sito di politicizzazione; così e soltanto così soggetti e azioni avrebbero potuto guadagnare la soglia della politicità.
LA LONGEVITÀ di questo dispositivo è fin troppo evidente perché metta conto ricordarla. E tuttavia è proprio di questa continuità che è questione nel libro di Tomasello, fin dal titolo (e da alcune spie paratestuali): l’«inizio» del lavoro – il sofisticato montaggio dei pezzi del conflitto sociale – trova infatti l’ora della sua leggibilità nell’epoca del suo tramonto, della sua fine. Ma il tono non è malinconico e l’assenza di autocompiacimento è esemplare. Il libro non è quindi soltanto un eccellente, rigoroso e documentato volume di storia del pensiero politico. È anche un meditato esercizio sulle ragioni e le condizioni dello scrivere di politica oggi. La ricostruzione di una «politica»
che si era istituita allacciando conflittualmente la cittadinanza al lavoro impone l’analisi degli effetti che oggi ha – sulle azioni, sui pensieri, sulle aspettative e i desideri – la sua memoria e la sua nostalgia. Si tratta, in uno stesso gesto, di «salvare» la memoria dei «canuts» e di deporre quell’impalcatura di intuizioni morali che impediscono di riconoscere e «fare» politica altrimenti e altrove da come fu pre-scritto in quella congiuntura. Le imprese edificanti dei cardatori lionesi non ci rimandano l’immagine della miseria e dell’indegnità che sarebbe la nostra ma la certezza che qualcosa – cambiati materiali, terreni, tecniche e affetti – è sempre e ancora, nonostante tutto edificabile. Disfare il nodo lavoro-cittadinanza nella teoria impone di fare nuovi nodi nella pratica.
Questo articolo è stato pubblicato su il manifesto del 5 gennaio 2019