di  MARCO BASCETTA

Scri­vere di un libro non letto può senz’altro con­si­de­rarsi una ope­ra­zione scor­retta. Non­di­meno, talvolta e prov­vi­so­ria­mente, quando l’uscita di un’opera suscita pronte rea­zioni e vivaci pole­mi­che, o con­tri­bui­sce a illu­mi­nare qual­che ten­denza in atto, arri­schiarsi a par­larne può risul­tare utile. Confes­sato il pec­cato, dun­que, relata refero. Il libro in que­stione, cin­que­cento pagine pub­bli­cate qual­che set­ti­mana fa in Ger­ma­nia dalla pre­sti­giosa casa edi­trice Suhr­kamp si inti­tola Die schrecklichen Kin­der der Neu­zeit, ossia gli orridi (o ter­ri­fi­canti) figli della Moder­nità. Ne è autore Peter Sloter­dijk, filosofo-scrittore assai noto, non nuovo ad aspre pole­mi­che e accese con­tro­ver­sie, poco amato dall’accademia. Affetto da una buona dose di nar­ci­si­smo il personag­gio non nasconde l’ambizione di con­se­guire un certo seguito popo­lare, e sovente lo con­se­gue.
Le bor­date, soprat­tutto da sini­stra, non si sono fatte atten­dere. Pesan­tis­sima la recen­sione di Georg Diez su Der Spie­gel, che defi­ni­sce il libro «man­gime per una bor­ghe­sia imbar­ba­rita», un’opera ultra­rea­zio­na­ria che gronda risen­ti­mento e nutre nostalgia per le gerar­chie che hanno gover­nato la società prima della Rivo­lu­zione fran­cese e della frat­tura (lo «iato») che essa ha deter­mi­nato nella sto­ria dell’umanità. Dun­que una cri­tica com­ples­siva e senza sconti, dei diritti, delle forme e delle cate­go­rie poli­ti­che su cui pog­gia la Moder­nità, secondo la quale – così scrive Diez — «il grande crimine dell’Europa e della sua discendenza cul­tu­rale ame­ri­cana, sarebbe stato quello di inven­tare l’individuo, l’uomo libero, per poi togliere ogni vin­colo a que­sto “mostro”, come lo bolla Sloterdijk, desti­nato a recare al mondo milioni di morti e indi­ci­bile disgrazia».

Illu­mi­ni­smo alla sbarra

L’autore si col­lo­che­rebbe così como­da­mente in quella tra­di­zione rea­zio­na­ria del pen­siero tede­sco che imputa all’illuminismo, non l’eterogenesi di una nuova effi­ciente e spie­tata ver­sione del dominio sotto il segno del capi­tale (come met­teva in guar­dia la teo­ria cri­tica), ma l’aver minato la sta­bi­lità di un Ordine che garan­tiva l’equilibrio del mondo e la tra­smis­sione, senza rot­ture, dei suoi valori e delle sue gerar­chie. Sono posi­zioni clas­si­che del pen­siero con­ser­va­tore, ma non è indif­ferente, come vedremo, il tempo e il con­te­sto nei quali ven­gono ripro­po­ste. Sulla Tageszei­tung, Rudolf Wal­ther imputa al testo una serie infi­nita di contrad­di­zioni interne, una reci­ta­zione in stile guru e l’aver spac­ciato per grande affre­sco storico-teologico un discu­ti­bile collage di epi­sodi, aneddoti, dice­rie e leg­gende.
C’è però una for­mu­la­zione che tutti i recen­sori, senza ecce­zione, ripren­dono in posi­zione cen­trale, con­si­de­ran­dola in qual­che modo il cuore dell’argomentazione di Slo­ter­dijk: «nel pro­cesso mondiale, dopo lo iato (la rot­tura rivo­lu­zio­na­ria della tradizione), ven­gono costan­te­mente libe­rate più ener­gie di quante pos­sano essere rac­chiuse nelle forme di una civi­liz­za­zione tra­smis­si­bile». La Moder­nità è dun­que informe, sle­gata dal pas­sato e dun­que sem­pre sul punto di pre­ci­pi­tare verso un futuro privo di ogni senso. Senza la tra­smis­sione con­trol­lata di quella tra­di­zione che dai padri ai figli garan­ti­rebbe la con­ti­nuità del mondo civile non reste­rebbe che un arbi­trio votato al caos. Ma non si tratta di un pro­blema di kate­chon, del «trat­te­ni­mento» e dell’indirizzo di ener­gie prorompenti, né di etica della respon­sa­bi­lità o di governo del cam­bia­mento. Si trat­te­rebbe invece di resti­tuire legit­ti­mità all’antico regime, alle sue genea­lo­gie, alle sue gerar­chie ina­mo­vi­bili. L’uscita illu­mi­ni­sta dallo «stato di mino­rità» si con­fi­gu­re­rebbe, nella visione di Slo­ter­dijk, come lo strappo desti­nato a inau­gu­rare una con­di­zione di perenne esilio. Il man­cato rispetto del padre, dei suoi insegna­menti e delle sue «dispo­si­zioni testa­men­ta­rie» si rispec­chia nella per­dita di quella patria, e dun­que di quella appar­te­nenza a un sistema con­so­li­dato di valori, di cui non saremmo più degni.

Dopo il diluvio

Del resto, se la Rivo­lu­zione fran­cese e i movi­menti di eman­ci­pa­zione che ne sono seguiti hanno fatto il grosso del lavoro, ci aveva già pen­sato Gesù di Naza­reth – ricorda Slo­ter­dijk – a sobil­lare i figli con­tro i padri spar­gendo il seme di quella discor­dia di cui noi saremmo gli «uti­liz­za­tori finali». Tut­ta­via l’autorità della Chiesa e della corona è riu­scita per secoli, a dire il vero con mezzi tutt’altro che uma­ni­tari, a tenere cia­scuno al pro­prio posto. Fin­ché, a un certo punto, Madame de Pom­pa­dour, la potente amante di Luigi XV, che l’autore col­loca in una posi­zione d’onore nel suo apo­ca­lit­tico affre­sco, avverte tutti, secondo il cele­bre aned­doto, che «dopo di noi il dilu­vio»: si sente nell’aria che i pri­vi­legi di un mondo immo­bile vol­gono defi­ni­ti­va­mente al tramonto. Magnifica­zione del pas­sato, demo­niz­za­zione del futuro.
Volendo descri­vere il disa­gio della moder­nità e la vacuità del pro­cesso di accu­mu­la­zione che la carat­te­rizza, tenen­dosi però al riparo da ogni nostal­gia rea­zio­na­ria, si sareb­bero dovuti sce­gliere piut­to­sto i versi amari di uno dei suoi più «ter­ri­bili figli», Berthold Bre­cht: «Sap­piamo di essere effimeri/ E dopo di noi verrà/ Nulla degno di nota». Ma non è que­sto lo scopo di Sloterdijk intento a sal­va­guar­dare la «stra­te­gia genea­lo­gica» e quella supe­riore qua­lità morale dei migliori che, come ha spiegato in un recente pam­phlet, esen­tati dalla pres­sione fiscale dello stato, elar­gi­reb­bero spon­ta­nea­mente e di buon grado in cam­bio del «pre­sti­gio» e della «gra­ti­tu­dine sociale» (La mano che prende e la mano che da, Raf­faello Cor­tina). Fatto sta che il dilu­vio è arri­vato senza che nes­suno potesse impe­dir­gli di irri­gare i campi, non­ché di tra­vol­gerli con deva­stanti inon­da­zioni.
Un romanzo, uscito in Ger­ma­nia una decina di anni fa, descrive, nello svol­gersi di una trama fitta e appas­sio­nante, un ten­ta­tivo poli­tico per­fet­ta­mente in linea con le posi­zioni di Slo­ter­dijk. E il suo fia­sco. Mi accingo a com­piere la seconda scor­ret­tezza rive­lan­done il finale a sor­presa. Il libro di Wol­fram Flei­sch­hauer si inti­tola nella edi­zione ita­liana (Lon­ga­nesi) Il libro che cam­biò il mondo, ma la tra­du­zione più cor­retta del titolo ori­gi­nale sarebbe stata Il libro in cui sparì il mondo. Nella Ger­ma­nia del 1780 un medico è alle prese con miste­riosi omi­cidi che seguono uno schema epidemico, men­tre ripe­tu­ta­mente le car­rozze postali ven­gono assa­lite e date alle fiamme senza appa­rente ragione. Que­sti eventi sem­brano privi di senso e di dise­gno. Ma, alla fine, in quel di Koe­nig­sberg, si svela la chiave del mistero. Una setta di ante­si­gnani del nostro Slo­ter­dijk cerca di impedire con ogni mezzo che il mano­scritto della Cri­tica della ragion pura per­venga all’editore, non­ché di met­terne a tacere l’incauto autore. Come non capirli? Come non vedere il ter­rore indotto da un simile tur­ba­mento dell’Ordine immu­ta­bile? Da una così radi­cale demo­li­zione delle cer­tezze e dei fon­da­menti? Dallo spri­gio­na­mento di forze incon­trol­la­bili? Qual­cuno pre­tende addi­rit­tura di far scom­pa­rire il mondo reale! E i difen­sori della sua sta­bi­lità cer­cano, ieri come oggi, di impedirglielo.
Dal 1780 ad oggi molte cose «degne di nota» sono acca­dute. Com­preso lo «iato» che avrebbe condotto al «disa­stro della Modernità». L’impresa di Slo­ter­dijk dovrebbe allora appa­rire ancora più ardua, eroica e con­tro­cor­rente, per­fino dispe­rata. Ma le cose non stanno affatto così. La crisi di questi ultimi anni ha ali­men­tato gran­de­mente il filone della cri­tica rea­zio­na­ria della contemporaneità. Il patriot­ti­smo gode di ottima salute (chie­de­telo pure a Le Pen e Farage) e la diffidenza nei con­fronti della demo­cra­zia, in ter­mini di apa­tia e disin­canto, o nei ter­mini del suo depo­ten­zia­mento a favore di un governo senza impe­di­menti, ha ormai inve­stito pie­na­mente le società avan­zate. Tanto che dell’accoppiata di libertà ed esi­lio, stig­ma­tiz­zata da Slo­ter­dijk, converebbe farne una nostra ban­diera. L’idea di un ordine immu­ta­bile, tanto solido da con­te­nere ed esau­rire ogni dina­mica di cam­bia­mento, è tor­nata ad affer­marsi deci­sa­mente dopo il 1989 (che forse potremmo con­si­de­rare un altro «iato»). La «fine della sto­ria» e il «non ci sono alter­na­tive» si impon­gono con altret­tanta indi­scu­ti­bile e uni­ver­sale auto­rità del «diritto divino». Il capi­ta­li­smo di ini­zio mil­len­nio, a dispetto di crisi e oscil­la­zioni, si pre­tende più eterno e con­vin­cente del sistema tole­maico. Ed è dav­vero sin­go­lare pren­der­sela con le idee di libertà ed egua­glianza nel tempo in cui sono state ridotte a poco più di un orpello reto­rico o un pre­te­sto. Quanto alla genea­lo­gia, alla trasmis­sione del potere e delle sue forme, (la que­stione stuc­che­vole e fuor­viante dei padri e dei figli infe­sta il dibat­tito poli­tico anche dalle nostre parti) non è dato vedere che cosa le minacci. La riorga­niz­za­zione in senso oli­gar­chico delle società avan­zate ha ripri­sti­nato la pira­mide sociale in tutta la sua gra­ni­tica inviolabilità. Le regole ci sono e i con­torni della «civi­liz­za­zione ammis­si­bile» sono trac­ciati con una net­tezza che non pre­vede dero­ghe. Risa­lire alle spalle delle norme per vagliarne l’equità è seve­ra­mente proibito.

Sovra­nità della buona finanza

the_wolf_of_wall_streetThe Wolf of Wall street, il barocco film di Mar­tin Scor­sese ci ricorda che anche la pira­te­ria anarchica, nei suoi eccessi e nelle sue dero­ghe grot­te­sche dai più rico­no­sciuti prin­cipi di «civiltà», non può che essere una breve paren­tesi, una raz­zia dispe­rata in corsa con il tempo. Poi, il sistema di «valori» e di potere della finanza sovrana torna a rista­bi­lire la sua «legge» e il suo Ordine. I padri in dop­pio­petto tirano le orec­chie ai figli discoli. La sta­bi­lità del mondo, il prin­ci­pio di auto­rità e la sua tra­smis­sione si affer­mano indi­stur­bati, nono­stante le lamen­ta­zioni e le nostal­gie dei con­ser­va­tori inca­paci di rico­no­scerne il volto contemporaneo, nell’improbo sforzo di sepa­rare le «qua­lità morali» dell’antico regime dalla sua intrin­seca fero­cia.
Ma in fondo tutto era già scritto da sem­pre. Parec­chi secoli prima della pre­di­ca­zione sov­ver­siva di Gesù, stando al gio­vane Nietzsche della Nascita della tra­ge­dia, ci aveva già pen­sato Euri­pide a minare le forme apo­li­nee della civiltà por­tando il pubblico, il demos, sulla scena. La civiltà, insomma, muore prima ancora di comin­ciare e tanto var­rebbe lasciar per­dere. L’autorità patriar­cale ovvia­mente soprav­vive anche nelle forme tec­ni­ciz­zate e tran­sgen­der del capi­ta­li­smo finan­zia­riz­zato e i figli, cioè i gover­nati, restano a testa bassa anche quando capita che a qual­che ram­pollo più brillante sia con­sen­tito di dime­narsi sul pro­sce­nio. La crisi e il suo governo ci ricor­dano ogni giorno che non viviamo in un car­ne­vale sca­pe­strato, ma in una permanente qua­re­sima atten­ta­mente sorvegliata dal clero e dal credo del libe­ri­smo. Non penso si tratti della «seco­la­riz­za­zione del peccato ori­gi­nale» di cui scrive Slo­ter­dijk, ma di un noto pro­dotto della «civiltà»: il domi­nio di classe. L’antico regime e il suo potere di cor­rom­pere sono ancora qui.

pubblicato sul “manifesto” il 12.7.2014

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