di JÓNATHAM F. MORICHE.*
A nessuno possono sfuggire le differenze cruciali che distinguono il Podemos che affrontò, ormai più di due anni fa, il suo primo Congresso statale, dal Podemos che tra pochi giorni arriverà al secondo. Quel primo Podemos era un partito appena nato e poco strutturato, che aveva inaugurato il suo percorso con più di un milione di voti sorprendentemente strappati al bipartitismo nelle elezioni europee di Maggio 2014, ed affrontava il resto del ciclo elettorale con irrefrenabile entusiasmo e crescenti aspettative. Il Podemos attuale è un partito solidamente presente nelle istituzioni statali, autonomiche (regionali) e municipali, che insieme ai suoi alleati di Unidos Podemos conta più di cinque milioni di voti, ma è anche un partito traumatizzato dalla sua prima battuta d’arresto elettorale nelle elezioni generali di Giugno 2016, ed oscurato da un confronto prolungato tra le due principali fazioni del suo gruppo dirigente, vincolate rispettivamente al Segretario Generale Pablo Iglesias (o “pablisti”) e al Segretario Politico Íñigo Errejón (o “errejonisti”).
Spesso si riduce l’origine di questo scontro alle differenti visioni di Iglesias ed Errejón sulla relazione tra Podemos ed Izquierda Unida e alle cause della sconfitta del 26 Giugno, sono però in realtà due diagnosi decisamente diverse, e a tratti incompatibili, sulla nostra società e le possibilità della sua trasformazione a separare i due candidati alla leadership. Per Errejón e i suoi, nelle società capitaliste avanzate come la nostra, dopo decenni di individualismo e de-politicizzazione neoliberale, una breccia incolmabile separa le ambiziose aspettative di rottura delle minoranza più informate, organizzate e mobilitate dalle grandi maggioranze sociali molto più passive e conservatrici, irrimediabilmente più spaventate dal disordine che dalla ingiustizia. Non c’è quindi, nel diario di bordo errejonista, alternativa diversa per la trasformazione sociale dalla lotta nel terreno dello Stato con le sue norme, guidata da un partito e da leader che rappresentano carismaticamente i desideri di una cittadinanza, la cui mobilitazione politica di massa e diretta sarebbe già storicamente impossibile, e che mantiene alcune caratteristiche più conservatrici a cui ci sarà da rassegnarsi per ottenere qualche possibilità di vittoria.
Da questa concezione errejonista, inizialmente assunta da tutta la direzione di Podemos nel primo Vistalegre, sembra separarsi Iglesias dopo le elezioni generali del 20 Dicembre. Tra il 20-D e il 26-J, Iglesias promuove l’alleanza elettorale con Izquierda Unida e assume buona parte delle critiche provenienti dai settori di attivisti duramente accantonati dopo il primo Vistalegre, riconciliandosi e cercando l’appoggio degli Anticapitalistas (unica corrente formalmente istituita del partito) guidati dall’eurodeputato Miguel Urban, e recuperando il critico Pablo Echenique come Segretario dell’Organizzazione, in sostituzione dell’errejonista Sergio Pascual.
Ha ragione Iglesias a segnalare le incongruenze e i rischi dell’ipotesi errejonista. Il neoliberalismo non è solo una maniera di governare dalle istituzioni, ma un insieme di dispositivi e abitudini economiche, sociali e culturali che permeano l’insieme della nostra esperienza individuale e collettiva. Gli stessi intellettuali che sono sacri per Errejón, come il boliviano Alvaro Garcia Linera o l’argentino Ricardo Foster, segnalano oggi, in piena crisi del populismo progressista latino-americano, la manifesta insufficienza dei cambiamenti indotti dallo Stato per ribaltare il neoliberalismo senza la complicità attiva di una società civile mobilitata che, nelle occasioni giuste, può e deve assumere in prima persona la leadership dell’azione politica trasformativa, anche di fronte a governi amici di ampia basa popolare. Sono certe, come avverte Errejón, le enormi difficoltà che affrontano questi processi di azione e mobilitazione collettiva in società così atomizzate e de-politicizzate come le nostre, ma la proposta di evitare questi processi sostituendoli con una aggregazione sociale diffusa, ed in generale passiva, attorno alla leadership carismatica e al gioco retorico, risulta semplicemente assurda come via per una trasformazione sociale sostanziale e duratura, e inoltre pericolosa come potenziale alibi conformista per un mero ricambio delle élites, o addirittura per potenziali riappropriazioni reazionarie o autoritarie.
Che Iglesias abbia preso atto e si sia distanziato da questi errori dell’errejonismo risulta lodevole, ma il suo progetto politico alternativo sta comunque risultando confuso e insufficiente, come evidenzia il modesto risultato delle sue iniziative di mobilitazione di questi ultimi mesi, ancora troppo identitarie e partito-centriche. Se la capacità trasformativa di Podemos dipende tanto dalla sua capacità di vincere posizioni di potere istituzionale quanto dalla sua capacità di stabilire dinamiche di mutuo riconoscimento, cooperazione e codecisione con la eterogenea pluralità di soggetti sociali, politici e culturali volti al cambiamento presenti nella nostra società, è nel documento politico e nella candidatura di Podemos En Movimiento, promossa da Anticapitalistas, intellettuali critici e attivisti sociali, dove incontriamo meglio orientata questa alternativa. La sua accertata autocritica e rettifica, oltre al proverbiale virtuosismo come comunicatore e la specialissima connessione emozionale che ha saputo stabilire con ampi settori sociali, abilitano Iglesias a rinnovare il suo ruolo di portavoce di Podemos, ma è la linea politica aperta da Podemos En Movimiento quella che permetterebbe all’organizzazione di affrontare con possibilità di successo le sfide gigantesche dei prossimi anni e decenni.
*traduzione di Alberto Manconi, articolo uscito su www.hoy.es.