di BEPPE CACCIA, SANDRO MEZZADRA.

 

 

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Note preliminari sul metodo politico della trasformazione oggi

 

 

È ormai alle nostre spalle il luglio greco, con l’entusiasmante vittoria dell’OXI al referendum del 5 luglio e con il famigerato “accordo” di una settimana dopo. La Grecia resta comunque al centro dell’attenzione, non solo per quel che riguarda il dibattito all’interno della “sinistra” internazionale ma anche per gli scenari aperti dalle dimissioni di Tsipras, dalla scissione di Syriza e dall’annuncio di nuove elezioni a fine settembre. Sono scenari complessi, in cui in gioco sono tra l’altro la natura di Syriza e la democrazia interna al partito dopo la nascita di “Unità popolare”, le prospettive politiche ed elettorali di quest’ultima formazione, il rapporto che i movimenti intratterranno con le istituzioni nella nuova congiuntura. Nessuna scorciatoia auto-consolatoria, nessuna ricetta ideologica derivata dalle categorie e dagli schemi del passato può funzionare di fronte alle contraddizioni del reale, che qui si manifestano con inedita violenza. In questo intervento, non ci proponiamo tuttavia di affrontare direttamente questi temi e queste contraddizioni. Quel che vorremmo tentare, piuttosto, è di formulare alcuni criteri di metodo che possano orientare in questa fase, dal punto di vista di una politica che punta alla trasformazione radicale dell’esistente, il giudizio su una situazione come quella greca, e inevitabilmente su quella europea che in essa si rispecchia. 

In questa fase, abbiamo detto: in una fase che continua a essere segnata dalla crisi e da una transizione dall’esito incerto, tanto in Europa quanto su scala globale. La categoria gramsciana di “interregno” è parsa a molti, negli ultimi tempi, particolarmente calzante per descrivere alcuni tratti del nostro presente. I “fenomeni morbosi più svariati”, scriveva notoriamente Gramsci, si verificano nell’Interregno, ovvero in quelle condizioni di “crisi organica” in cui “il vecchio muore e il nuovo non può nascere”. Molti aspetti di questa definizione, formulata all’indomani della crisi del ’29, rimangono in effetti validi: la crisi organica, nella prospettiva di Gramsci, era essenzialmente una “crisi di egemonia”, caratterizzata dal distacco delle “grandi masse” dalle “ideologie tradizionali” e dall’incapacità della “classe dominante” di esercitare una funzione “dirigente”, sostituita dal puro esercizio della coercizione e appunto del “dominio”. Non v’è qui un parallelo con la clamorosa crisi di legittimità del “neoliberalismo”, tanto in Europa quanto altrove, e con l’arroganza con cui la sua “razionalità” viene riaffermata dalle “classi dominanti”? Gramsci non escludeva certo che l’Interregno si risolvesse “a favore di una restaurazione del vecchio” – e tuttavia, nella solitudine del carcere di Turi, sottolineava in primo luogo i caratteri di imprevedibilità, apertura e sospensione della “crisi organica”.

Se certo non mancano gli echi sinistri degli anni Trenta nella situazione di oggi in Europa (basti pensare alla “crisi dei rifugiati”), è d’altronde evidente quanto siano grandi le differenze. È in primo luogo il contesto globale al cui interno si distendono i processi di valorizzazione e accumulazione del capitale a essere profondamente mutato – con un effetto di moltiplicazione e amplificazione dei caratteri di imprevedibilità, apertura e sospensione della crisi. Ricordate quando dopo la crisi del 2008 dicevano in molti che l’ultimo grande Paese “socialista”, la Cina, stava salvando il capitalismo (quello statunitense in particolare) dalla catastrofe? Il terremoto finanziario innescato nei giorni scorsi dal crollo della borsa di Shanghai, ma più in generale la circolazione globale – sia pure con tempi e modi profondamente eterogenei – della crisi cominciata con l’esplosione della bolla dei mutui subprime, mostra una realtà ben diversa. Da una parte getta ancora una volta luce sul carattere strutturale dell’interdipendenza e sugli elementi di fragilità e vulnerabilità che ne conseguono per le stesse economie dei Paesi di volta in volta presentati come più forti (la “locomotiva americana”, la Germania “campione mondiale delle esportazioni”, l’“irresistibile ascesa” dei Brics e via discorrendo). Dall’altra parte segnala, pur nella luce sinistra di una crisi che investe il principale dei “Paesi emergenti”, le profonde modificazioni che si sono determinate in questi anni nei rapporti tra quelli che un tempo potevano essere individuati a colpo sicuro come i “centri” e le “periferie” del capitalismo mondiale.

È in questo contesto di crisi permanente delle forme del dominio capitalistico su scala globale che devono essere collocate anche l’analisi e l’iniziativa all’interno dello spazio europeo. L’epocale questione delle migrazioni e i focolai di guerra alle frontiere d’Europa sono qui a ricordarcelo in ogni momento. Così come la continua, e continuamente disattesa, promessa di una chimerica “ripresa economica” continentale. Ma è una crisi evidente anche laddove continuano a registrarsi tassi di “crescita” e “sviluppo” e che, forse, può essere ormai interpretata come forma par excellence della stessa accumulazione di capitale, nel tempo della sua compiuta finanziarizzazione.  Un alto grado di incertezza e imprevedibilità, tanto delle dinamiche economiche e sociali quanto della loro articolazione con le forme istituzionali, appare come un carattere distintivo del nostro tempo. Nell’Interregno, in ogni caso, servono a poco le bussole ereditate da epoche trascorse, e ancor più corrosiva risulta l’ironia di Marx su chi si attarda a “prescrivere ricette per l’osteria dell’avvenire”. Partiamo dal presente, dalla necessità di costruire potere nella crisi, un (contro)potere di parte degli sfruttati che possa agire con efficacia per la trasformazione delle nostre vite nel segno della libertà e dell’uguaglianza. Proprio perché, nella loro brutalità, i passaggi estivi della crisi europea hanno chiarito come al centro della scena siano lo squilibrio nei rapporti sociali di forza, il crudo punto di vista di classe che dalla loro dialettica emerge, il carattere cruciale della grande questione delle disuguaglianze e delle illiberalità che ne conseguono.

Tenendo fermo lo sguardo su questi squilibri e sulla violenza dello scontro di classe in atto, disponiamoci dunque collettivamente alla definizione di un metodo che (ce lo ricorda l’etimo greco metà odòs, “attraverso/strada”) non può che coincidere con l’individuazione (se necessario con la violenta apertura) di una via laddove apparentemente non ne esistono – o dove non se ne vedono con le vecchie mappe. “Rigettare la terra mobile e la sabbia per trovare la roccia o l’argilla”, scriveva Descartes nel pieno di un altro Interregno: quel che conta è la via che conduce dalle une alle altre. Il metodo che consente di individuarla è oggi, a tutti gli effetti, un metodo rivoluzionario.

Questa via non può essere lineare, come ben si vede da una pur rapida descrizione di quelle che possiamo definire oggi le coordinate temporali e spaziali dell’azione politica. Sotto il profilo della temporalità, le tendenze di lungo periodo nella trasformazione e riorganizzazione del capitalismo, a lungo analizzate, si confermano nella loro distensione globale, ma si realizzano all’interno di contesti profondamente eterogenei, modificandosi di volta in volta e adattandosi tanto alle “turbolenze” globali quanto alle variabilità “locali”. Le trasformazioni nella composizione e nella natura del lavoro, la maturità della cooperazione sociale, il carattere pervasivo della finanziarizzazione, il rilievo dei dispositivi individuali e collettivi dell’indebitamento, le forme nuove in cui si presenta l’articolazione tra comando capitalistico e dominio politico, il ruolo politico della moneta: queste tendenze, per non citarne che alcune, si sono ulteriormente approfondite negli anni della crisi. Ma, prese nel loro insieme, non disegnano alcun tracciato lineare di “sviluppo” – tra l’altro per via dell’intreccio strutturale tra sviluppo e crisi che abbiamo precedentemente sottolineato. Vano sarebbe, dunque, attendere il “pieno dispiegamento” di queste stesse tendenze e lo scaturire da esse, novella Minerva, del soggetto (della composizione di classe) capace di rovesciarle in termini rivoluzionari. Non è del resto neppure sul registro messianico dell’“evento” che possiamo fare affidamento: il capitale ha dimostrato di essere una formidabile macchina per la metabolizzazione di “eventi” e per la loro trasformazione in carburante per la sua valorizzazione. È piuttosto disponendosi a lavorare all’interno di una essenziale sconnessione temporale, combinando cioè costruzione e accumulo di forza da un lato e apertura verso l’imprevisto, l’“inattuale” dall’altro, che il problema della costruzione di potere nella crisi può essere definito dal punto di vista del metodo. Qui, se si vuole parlare di “politica dell’evento”, ciò che si deve intendere è l’attitudine a “cogliere l’occasione”, inserendosi in quelle aperture temporali che, nel conflitto e nella rottura, consentono il salto in avanti e l’affermazione di un rapporto di forza più favorevole.

Analogo discorso può essere fatto sotto il profilo della spazialità. La “geometria variabile” dell’azione politica che punta alla trasformazione radicale dell’esistente è oggi imposta dalle forme stesse in cui si è riorganizzato il capitalismo – anche in Europa, dove negli anni della crisi abbiamo assistito a una vera e propria rivoluzione degli spazi economici e politici. La combinazione di elementi di “omogeneità” ed “eterogeneità” tra scala globale, continentale, nazionale e locale è un aspetto che abbiamo altre volte analizzato in profondità – sottolineando la dialettica e le tensioni tra processi di standardizzazione e/o omologazione, da una lato, e la messa in gioco di “differenze” economiche e politiche, sociali e culturali, finanche “antropologiche” tra luoghi e aree diverse, dall’altro. E ciascuna delle scale che abbiamo nominato, lungi dal presentarsi come fissa e stabile, è investita da specifici fattori di crisi: identificare questi fattori, investire gli spazi di confine e le giunture tra le diverse scale con un’azione politica di rottura e di alternativa costituisce una essenziale priorità di metodo nell’Interregno. Non vi è, a questo proposito, nessun possibile ritorno indietro alle dimensioni, apparentemente più rassicuranti, della sovranità nazionale o del “territorio”, né per via di un mitologico recupero di “sovranità monetaria” né attraverso l’esaltazione di presunte alternative “micro-comunitarie”: l’una e l’altra “soluzione” appaiono destinate a essere travolte dalla violenza di processi che attraversano, lacerano e sincronizzano ogni “scala” spaziale. La nostra opzione per l’Europa (ed è un po’ umiliante, ma forse sempre necessario ribadire che essa non coincide per noi con la dimensione istituzionale dell’Unione né con un qualsivoglia “eurocentrismo”), da questo punto di vista, è un’opzione per il tentativo di costruire uno spazio politico in cui questi processi possano essere efficacemente contrastati: è questa la condizione per rendere espansive e durature le stesse esperienze di lotta e di costruzione di alternativa che si sviluppano nelle dimensioni “locali”. Lo sappiamo – e lo abbiamo dolorosamente verificato negli scorsi mesi: il rapporto di forza è duramente sfavorevole. Occorre lavorare per cambiarlo.

All’interno di queste coordinate temporali e spaziali, si tratta di sviluppare un rinnovato approccio realistico e materialistico alle dinamiche e alle lotte sociali reali, dismettendo ogni feticismo delle identità. E cruciale, da questo punto di vista, diviene la relazione, mai univoca, con i processi politici che le dinamiche e le lotte sociali concorrono a determinare e orientare, essendone al contempo condizionate. Tanto la Grecia quanto la Spagna sono da questo punto di vista laboratori di grande importanza. Proprio una realistica valutazione dei rapporti di forza in Europa dovrebbe del resto indurre alla cautela rispetto all’adozione della coppia binaria “vittoria / sconfitta”, e delle retoriche della “capitolazione” o del “tradimento” a essa correlate, per valutare un’esperienza come quella greca degli ultimi mesi. A noi pare che il criterio fondamentale debba essere piuttosto, coerentemente con quanto abbiamo scritto sulle coordinate temporali e spaziali del metodo politico nell’Interregno, quello dell’accumulazione di forza per costruire processi di governo “contro-egemonico” dentro e contro quel “neoliberalismo reale” di cui non è certo possibile liberarsi per decreto, per costruire magari la caricatura di quello che un tempo fu definito il “socialismo in un Paese solo”. La natura meramente ideologica (e spesso insopportabilmente settaria) delle posizioni che, all’interno della sinistra più o meno “estrema” e sedicente “marxista”, individuano nel “Grexit” la soluzione emerge qui con chiarezza: e si compendia nella mancata comprensione dei caratteri fondamentali del capitalismo contemporaneo (della “verità effettuale della cosa”, per dirla con Machiavelli), nell’inseguire l’“immaginazione” di uno Stato nazionale che – una volta “conquistato” – possa essere la base e il soggetto fondamentale per la sua trasformazione. Una posizione politicamente radicale, oggi, non può che partire – una volta di più – dal primato delle lotte, da una realistica assunzione dei limiti con cui si scontra l’azione di qualsiasi governo e dal tentativo di pensare e praticare in forme nuove e originali la dialettica tra lotte sociali e azione di governo.

Il neoliberalismo non è né semplicemente un’“ideologia” né un “pacchetto” di politiche macro-economiche: è una “razionalità” che ha trasformato profondamente le forme e i soggetti dell’azione economica e sociale, nonché le stesse istituzioni “pubbliche”, nella misura in cui interpreta alcuni caratteri di fondo del capitalismo contemporaneo. Lottare contro il neoliberalismo – che lo si faccia da un punto di vista “riformista” o “rivoluzionario”, categorie la cui validità va comunque verificata e aggiornata all’interno delle coordinate temporali descritte in precedenza – comporta l’assunzione di una prospettiva quanto meno di medio periodo. E impone di pensare e agire politicamente oltre l’esaurimento della tradizionale politica rappresentativa. Certo, specifiche elezioni possono giocare un ruolo estremamente importante: ma quel che è definitivamente tramontato è appunto lo schema temporale della rappresentanza, quella delega al governo che svuota di politica il tempo compreso tra un’elezione e l’altra. Lo si è visto benissimo proprio nel caso greco, dove l’azione di governo è risultata dinamica e “potente” quando ha saputo agganciarsi alla proliferazione del tessuto mutualistico e ha sollecitato – senza poterla rappresentare – l’irruzione dell’evento referendario. È un punto fondamentale, da tenere a mente anche per il futuro.

Porre questo problema, evidentemente, significa porre il problema di un profondo rinnovamento della nozione stessa di governo – e in particolare, come si è detto, del rapporto tra governo e lotte, movimenti, processi di mobilitazione, istituti autonomi di contropotere. Significa cioè domandarsi quale sia il livello di esercizio del potere adeguato per riuscire a mettere in discussione le politiche neoliberiste e il paradigma dominante dell’austerity, che si sono tradotti in forma permanente di gestione della crisi in Europa. Qui le coppie binarie “partiti/movimenti” e “istituzionale/anti-istituzionale”, da declinare a seconda dei contesti in termini di “alleanze” o di “antagonismi”, davvero non funzionano più. Né sotto il profilo teorico, né sotto quello pratico. La dimensione globale e inafferrabile, fluida e pervasiva del capitalismo finanziario, la drammatica sproporzione nei rapporti sociali di forza dati, la complessità multifattoriale di ogni processo di decisione politica, tanto più se orientato al cambiamento, interrogano radicalmente sia la condizione dei movimenti sia quella istituzionale.  Impongono una riflessione, urgente e immediatamente operativa, sull’“inefficacia” dell’azione dei movimenti sociali quando essa resta auto-referenziale e sui “limiti” dell’azione di governo se rimane esclusivamente circoscritta all’interno delle istituzioni costituite. Sono questioni cruciali, che occorre affrontare con urgenza e al di fuori di ogni tatticismo.

Quel che è certo è che, anche nella valutazione delle formidabili ed essenziali esperienze di mutualismo e auto-organizzazione sociale che si sono diffuse in Grecia come altrove, risulta per noi essenziale un’attitudine maggioritaria, la riformulazione del problema classico del rapporto tra conflitto e consenso: cruciale, qui, non è tanto la misurazione (magari attraverso sondaggi e rilevazioni statistiche) dell’impatto dei conflitti sociali sulla produzione di “opinione pubblica”, che è di per se stessa terreno di scontro permanente, quanto la determinazione politica di costruire maggioranze sociali che possano rendere realistica la costruzione di alternative all’esistente.

È in fondo questa la lezione che ricaviamo dalla riformulazione della categoria di “populismo” da parte di Podemos: se continuiamo a criticarne alcuni presupposti teorici, se riteniamo che un’interpretazione eccessivamente rigida di questa categoria possa facilmente sfociare nel “sovranismo” nazionale, se siamo convinti che la chiusura attorno al partito che il “populismo” agevola possa creare non pochi problemi anche dal punto di vista delle prospettive elettorali, nondimeno riconosciamo l’importanza della riapertura di una prospettiva dichiaratamente maggioritaria. Ed è sul terreno della soggettività politica, della sua costruzione e della sua potenza, che una metodologia politica sovversiva nel tempo dell’Interregno dovrà necessariamente esercitarsi: quel che è certo è che il nostro “popolo” non può che essere “a venire”, prima di tutto nel senso che il soggetto politico della trasformazione ancora non c’è. È nella sua costruzione, nella lotta necessaria contro i processi di corporativizzazione, frammentazione sociale, individualizzazione estrema che il neoliberalismo reale ha indotto e non cessa di alimentare, che dobbiamo recuperare e aggiornare i caratteri di apertura e innovazione che abbiamo individuato nei dibattiti degli scorsi anni attorno alla categoria di “moltitudine”, a partire dall’inedita e ambivalente  relazione che si determina (che può determinarsi) tra singolarità e collettività. In ogni caso, lo ripetiamo, la costruzione di un soggetto politico capace di essere al tempo stesso radicale e maggioritario è oggi una essenziale priorità – a cui lavorare con ogni strumento efficace, sia esso culturale, di opinione, sociale o elettorale.

Questo processo non può che essere, sotto il profilo del metodo, complesso e articolato fin da principio su una molteplicità di livelli. Deve necessariamente coinvolgere attori eterogenei e impegnati in ruoli diversi, facendosi carico del problema della “sincronizzazione” di tempi, linguaggi, comportamenti, “culture”, forme di azione sociale e politica che non possono che essere anch’essi altrettanto eterogenei. Il tema delle coalizioni emerge qui come strategico, ben al di là delle cronache politiche quotidiane e delle prospettive di questa o quella specifica “coalizione”. In gioco non è la riedizione di una politica “frontista” o delle “alleanze”, ma piuttosto la scoperta e la costruzione della forma politica, dello strumento progettuale e organizzativo adeguato alla pratica della rottura e dell’alternativa nelle coordinate temporali e spaziali che abbiamo tentato di definire. La coalizione, in questo senso, non può che essere essa stessa una pratica, da verificare e reinventare continuamente al di là di quelle opposizioni binarie (tra partito e sindacato, tra movimenti e istituzioni, ad esempio) che appaiono oggi un ostacolo dal punto di vista dell’innovazione necessaria per rilanciare una politica della trasformazione radicale. È rispetto a questo orizzonte della coalizione, al suo carattere per natura ibrido, giocato sul confine tra sociale e politico, tra lotta e sperimentazione istituzionale, mutualismo e integrale approccio federativo, che misureremo l’azione degli stessi partiti della sinistra nei prossimi mesi – in Grecia come in Spagna, ma anche in Italia, o in Germania e in Gran Bretagna.

Si capisce bene come la posta in gioco, nei mesi che ci attendono, non sia tanto il proprio posizionamento solipsistico e autocompiaciuto in una diatriba, tutta ideologica e in gran parte sottratta alla nostra disponibilità, sintetizzabile in slogan quali ”Euro sì / Euro no” (senza ovviamente negare che la questione della moneta è e resta fondamentale!) o “uscita a sinistra dall’Unione Europea” (e quella su come lottare a livello transnazionale contro i suoi dispositivi autoritari di governance è una domanda altrettanto cruciale!). La posta in gioco è piuttosto la decisione se stare, insieme a tante e tanti altri nel vivo delle lotte sociali, dentro possibili processi di trasformazione reale che arrivino a investire politicamente, tra l’altro, proprio il terreno della moneta e quello della governance europea. Cominciamo ad affinare le armi, a forgiare gli strumenti necessari a combattere queste battaglie: sotto il cielo dell’Interregno, l’orizzonte rimane aperto.

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