di RICARDO NORONHA*.
Prendere la pillola blu
Relegata nella punta occidentale dell’Europa, come un cugino di cui occasionalmente si sente parlare, la “P” che apre i “PIGS” è stata soggetta ad una complessiva operazione di marketing che ha spostato la sua posizione nell’immaginario Europeo, dall’essere “i prossimi a seguire la Grecia” a diventare una storia di successo dell’assestamento sotto la Troika e “bravi studenti” delle politiche di austerity nell’eurozona. Nonostante i recenti ammonimenti da parte del FMI, secondo il quale la magra ripresa economica dell’anno scorso si regge su un terreno instabile e può crollare al minimo innalzamento dei prezzi del petrolio o dei tassi di interesse sui mercati mondiali, il Portogallo molto spesso è incensato dal governo tedesco e dagli eurocrati di tutte le specie come “il caso andato bene nel Sud Europa”. Un lieve incremento delle esportazioni (compresi i ricavi del boom turistico di Lisbona e Porto), un equilibro precario (che va tramontando) dei bilanci commerciali raggiunto attraverso massicci tagli alla spesa pubblica e ai salari, introiti extra da un piano di privatizzazioni che ha attratto investimenti da parte di compagnie statali cinesi e da parte delle elite plutocratiche dell’Angola (anche gli acquisti di immobili sono aumentati in maniera significante dopo la semplificazione di alcune norme di licenza e la concessione di visti speciali ai grandi investitori), sono indicate come le prove che un’austerity espansiva è possibile e che il fallimento delle politiche prescritte dalla Troika in Grecia è dovuto a cause endogene, oltre i margini di azione della Banca Centrale Europea, della Commissione Europea e del Fondo Monetario Internazionale. Semplificazioni come queste sono legate per avere una spinta sui media internazionali, come è avvenuto quando nel 2011 è stato firmato il memorandum, quando i portoghesi, così come i greci, erano dipinti come “pigri spendaccioni” ai quali si sarebbero presto aggiunti gli altri paesi del Sud Europa.
La favola del Portogallo come una “storia di successo” – anche se ne ignoriamo l’enorme costo sociale, con il 20% della popolazione in condizioni di povertà (sono sempre più frequenti i casi di bambini affamati svenuti a scuola) e il tasso di disoccupazione al massimo storico del 17% (nonostante i successivi tentativi da parte del governo di mascherare le cifre con programmi di tirocini finanziati pubblicamente), risultando nell’emigrazione di massa di oltre cinquecento mila persone (il numero preciso è difficile da determinare, ma è verosimile corrisponda al 5% della popolazione) – è basata sul continuo tentativo di dimenticare che nessuno degli obiettivi contenuti nel memorandum (ossia la riduzione del deficit pubblico e della spesa pubblica) sono stati raggiunti e che la svolta fondamentale si è avuta quando la Banca Centrale Europea ha iniziato a comprare il debito pubblico portoghese senza limitazioni, abbassando quindi i tassi di interesse e fermando il duro attacco portato dagli investitori finanziari contro il debito sovrano dei paesi del sud Europa dal 2010. Una grande trasformazione delle leggi sul lavoro, una tassazione straordinaria imposta a pensionati e lavoratori dipendenti, in parallelo a tagli ciechi riguardanti i settori del pubblico (in particolare sul servizio sanitario nazionale e i servizi di educazione pubblica, mentre i finanziamenti alle forze dell’ordine sono aumentati) sono state attuate senza alcun effetto riconoscibile sulla competitività del paese, sul suo recupero economico o sulla disciplina fiscale, ma la Commissione Europea, la BCE e l’Eurogruppo, che hanno ripetutamente espresso duri giudizi sulla Grecia e sulla necessità di ulteriori “riforme”, sono stati più che lieti di poter usare qualsivoglia statistica che si adattasse alla loro agenda politica, per creare lo “studente diligente” dell’austerity.
La natura politica di questa operazione di marketing diventa sempre più chiara se pensiamo alla sua tempistica: la rapida ascesa elettorale di SYRIZA in Grecia e PODEMOS in Spagna, che sottolineavano entrambe l’immenso fallimento delle politiche di svalutazione interna, hanno reso necessaria l’affermazione di un caso di successo per tenere in vita la narrazione con la quale l’austerity del sud è servita all’opinione pubblica e agli elettori del nord Europa.
La postura particolarmente servile del governo portoghese ha contribuito al successo dell’operazione, con un accordo che ha favorito entrambe le parti, visto che la sua impopolarità e l’isolamento politico interno (solo un anno e mezzo fa è stato al centro di durissime critiche persino da parte di neoliberisti convinti, e nessun ministro si poteva permettere di camminare per strada senza essere circondato da un muro di polizia) potevano essere compensati solo attraverso una narrazione altrettanto ingannevole ad uso domestico, dipingendone le azioni come “rimedi dolorosi ma necessari” che avrebbero mostrato dei segni di ripresa sul medio periodo, come stavano iniziando a far notare anche le istituzioni europee e i mercati.
Per qualche strana coincidenza, questo medio periodo coincide sia con il calendario elettorale portoghese (le elezioni generali per il parlamento si terranno a Ottobre) che quello spagnolo (fine Dicembre), mentre le inaspettate elezioni greche hanno fatto del confronto interno all’eurogruppo uno dei punti focali dell’attenzione internazionale.
La natura politica della “crisi nell’eurozona” quindi emerge come quello che è stato fin dall’inizio: un processo di ingegneria sociale neoliberista portato avanti nel sud dell’Europa come campo di prova per una sua futura applicazione nel resto del continente, con l’obiettivo di allargare il campo della governabilità neoliberale, con la mercificazione totale delle relazioni sociali e consolidando un quadro istituzionale volto ad espandere i mercati e la competizione dentro tutte le sfere di vita. Questo articolo analizza sia il profilo delle misure di austerità implementate in Portogallo che la loro gestione politica nei tre anni sotto la “Troika” per fornire alcuni elementi di chiarimento rispetto alla differente situazione rispetto agli scenari greci e spagnoli, mantenendo però la prospettiva di una “crisi nella periferia dell’eurozona” che corrisponde ad una fase post nazionale di ristrutturazione capitalista nella regione e non può essere letta come una somma di casi nazionali.
Il segreto del mio successo
L’adesione alla CEE nel 1986 ha rappresentato un nuovo inizio per le elite politiche ed economiche che hanno governato il Portogallo dall’arresto del processo rivoluzionario nel 1975. Dopo grandi disordini tra i lavoratori e la nazionalizzazione dei vertici di comando dell’apparato economico (banche, assicurazioni, industria energetica e gran parte di quella pesante), il paese ha attraversato due processi di assestamento sotto la guida del FMI (1977-1978 e 1983-1984), che ha causato un abbassamento dei salari a livelli pre-1974 (quando scioperare era illegale e la polizia politica usava il pugno duro sui militanti della classe operaia) aprendo la via ad un rilancio degli investimenti alimentato dall’immissione di fondi europei e da un processo di privatizzazione che ha permesso la ricomposizione della borghesia portoghese. Gli standard di vita sono cresciuti in maniera significativa, con livelli di consumo e servizi educativi e sanitari senza precedenti, mentre i capitali stranieri fluivano e l’euro-ottimismo diventava una delle caratteristiche dominanti dello scenario politico e culturale. Così come in Spagna e Grecia, il capitalismo europeo si è mostrato disponibile a pagare il prezzo della piena integrazione di un povero paese del sud nel “Club delle democrazie ricche”, per evitare l’emergere di minacce sovversive in un momento decisivo della guerra fredda.
L’economia portoghese quindi ha iniziato ad assumere i tratti che l’hanno caratterizzata fino al 2011. Il settore delle costruzioni ha vissuto un processo di decisa espansione, integrando una grande massa di contadini non qualificati come lavoratori salariati, mentre il paese affrontava una rapida deindustrializzazione sostenuta dal Fondo di Coesione Europeo (di fatto lo stesso avvenne per il settore agricolo e quello della pesca), utilizzando i Fondi Strutturali per ammodernare le sue infrastrutture (in particolare ospedali, scuole e strade). Allo stesso tempo, parte dell’arretratezza economica del paese venne conservata per ragioni politiche mentre un tessuto industriale composto per la maggior parte da unità manifatturiere intensive, in grado di garantire un surplus assoluto (determinato da bassi salari e contraffazione, ma anche da straordinari non retribuiti e lavoro minorile domestico), è stato fatto prosperare ricevendo addirittura fondi strutturali che sono poi finiti in conti bancari svizzeri e beni di lusso. Il Portogallo è uno dei pochi paesi al mondo dove gli uomini d’affari sono, in media, meno qualificati dei lavoratori salariati, i quali rappresentano un’altra particolarità, essendo il paese con la forza di lavoro meno qualificata dell’UE. Questa situazione è sia causa che effetto di una storica incapacità di sviluppare la produzione di surplus relativo, che a sua volta ha fatto della riproduzione della forza lavoro e della necessità del controllo della classe operaia un problema secolare per la borghesia portoghese, trattato tradizionalmente con un misto di repressione ed emigrazione che hanno reso la forza lavoro la principale merce d’esportazione. Il Portogallo non è solo un paese provinciale e periferico ma anche un paese in cui la classe operaia organizzata tende ad essere più moderna e cosmopolita, considerati lo sguardo strategico e i temi delle sue lotte, rispetto ai datori di lavoro. Questa caratteristica strutturale aiuta a capire il motivo per cui sia la Sinistra che i sindacati ragionano e agiscono come la parte più sofisticata del capitalismo portoghese.
Il ciclo di crescita economica – basato sull’aumento dei consumi privati e degli investimenti pubblici, con la maggior parte delle grandi industrie locali che hanno assunto un profilo di rendita passando a settori di commercio non negoziabili i quali garantiscono profitti certi – è stato caratterizzato da diversi fattori di vulnerabilità, quando il bilancio commerciale ha iniziato a soffrire la competizione da parte dell’Est Europa e dell’Asia (le industrie di beni di consumo quali calzature, tessili e abbigliamento, il cui vantaggio in termini di competitività derivava da salari molto bassi, sono state tra i settori industriali più dinamici negli anni ’80). L’avanzamento verso l’Euro è stato l’ultimo passo, nel quale la sopravvalutazione della nuova moneta comune ha minato ulteriormente la competitività delle esportazioni portoghesi, facilitando al contempo la possibilità per i sistemi finanziari di attingere all’estero. Dal momento in cui l’economia ha iniziato a rallentare, al cambio del millennio, e gli analisti economici hanno iniziato a sostenere che non sarebbe potuta andare avanti all’infinito, si è aperto un dibattito sulla necessità o meno di flessibilizzare il mercato del lavoro, tagliare sulla spesa pubblica (sia sul welfare che sui salari pubblici), vendere qualsiasi azienda di stato rimasta e, genericamente, ad aumentare la produttività del paese. La resistenza delle parti sindacali, l’impopolarità politica di alcune misure e la generale inerzia del sistema partitico ha evitato che questo dibattito si tramutasse in misure del governo, mentre l’economia portoghese tardava dietro a tutte le altre per tutto il primo decennio del secolo (a differenza di Grecia e Spagna, la crescita complessiva tra il 2000 e il 2010 è stata inferiore all’1%, facendone un “decennio perso” per la crescita, e il paese non conobbe alcuna bolla immobiliare). Con il maturare di questa situazione, all’interno dei circoli del potere economico e politico si è iniziato a dibattere un programma di austerità e aggiustamenti strutturali , con un occhio rivolto alla depressione in arrivo e alla necessità che avrebbe portato di un intervento estero. Difficilmente considerabile come un’imposizione della Troika, il memorandum del 2011 includeva molti degli elementi di questo programma costruito nel dibattito nazionale e, quando il rating della Grecia è iniziato a crollare, il Portogallo era il primo paese indiziato a seguire. La crisi del debito sovrano all’interno dell’eurozona era l’opportunità perfetta per quel salto in avanti che le elite portoghesi stavano pianificando da molti anni. Il risultato è evidente.
L’ultimo report da parte del FMI – per un disinteresse da parte del Fondo nelle implicazioni politiche della gestione dell’Eurozona ed è molto distante dallo sguardo strategico che trapela dalle dichiarazioni di Bruxelles e Berlino – ha frantumato la narrazione del “Portogallo come caso di un’austerity di successo” ed è molto più realistico nell’identificare la situazione. Per iniziare, il debito privato portoghese è uno dei più grandi al mondo, e qualsiasi forma di crescita economica, per quanto modesta, comporta necessariamente un’espansione del debito esterno, dato che i bilanci commerciali del paese sono sempre stati in negativo eccetto quando l’applicazione di misure recessive ha ridotto drasticamente i livelli di consumo. Come precisa il Fondo:
“La forza del recupero economico rimane modesta, la stagnazione del mercato del lavoro permane, e vi sono ancora vulnerabilità materiali, come l’alto leveraggio nei settori pubblici e aziendali e un alto debito esterno. Il Portogallo sta beneficiando di cicliche ventate positive, ma la crescità è proiettata verso una moderazione sul medio periodo. L’iniziativa di acquisto degli asset da parte della BCE ha portato le rendite sovrane ai minimi storici e ha rimosso efficacemente qualsiasi altra preoccupazione finanziaria. Dovrebbe anche aiutare ad aumentare l’inflazione oltre l’orizzonte previsto. Un Euro fortemente indebolito e prezzi del petrolio più bassi hanno migliorato la proiezione sul breve periodo”.
Il report del Fondo non descrive solamente il percorso che ha portato il paese al rischio di default nel 2011, ma indica anche piuttosto chiaramente come la “ripresa” sia risultata dalla scelta della BCE di supportare l’euro nei mercati finanziari, acquistando ampie fette dei bond sul debito pubblico dei paesi sotto attacco speculativo, portando giù i tassi di interesse e permettendo quella che, nei fatti, è stata una ristrutturazione del debito. Il governo portoghese ha passato gli ultimi anni prendendo in prestito a interessi bassissimi dalla BCE le somme per pagare i prestiti fissati con tassi di interesse più alti tra il 2008 e il 2012. Senza questa prima e informale versione del Quantitative Easing, un secondo memorandum sarebbe stato inevitabile (probabilmente con una modesta sforbiciata al debito) e i portoghesi si sarebbero trovati esattamente dove i greci si trovano ora. Nei fatti, quello che ha permesso un cambio del copione e spiega le performance economiche del Portogallo è stata l’assunzione da parte di Draghi del fallimento delle politiche messe in atto con il memorandum, in Grecia come in Portogallo, e che il rischio di un contagio sarebbe stato insostenibile:
“Lo spread dei bond portoghesi è diminuito considerevolmente dall’inizio del 2012, principalmente per via di fattori globali. […] Sono scesi rapidamente dal cambio di direzione ampiamente riconosciuto alla dichiarazione del “a qualsiasi costo” di Mario Draghi del 26 Luglio. […] Nonostante un miglioramento nelle fondamenta, altri fattori sembrano essere stati tra i principali responsabili del calo dello spread. Tracciando i rating medi delle tre maggiori agenzie rispetto agli spread dei bond decennali si nota una drammatica discesa degli spread sulla tabella. Mentre il rating medio dei vari paesi è cresciuto in maniera modesta in questo periodo, il Portogallo avrebbe necessitato di un rating molto più alto per raggiungere lo spread attuale nell’estate del 2012. Altri indicatori economici fondamentali per il Portogallo come il tasso di disoccupazione, la crescita del PIL, il debito pubblico e il saldo contabile portano alle stesse conclusioni. I fattori globali sono stati i motori principali della compressione dello spread”.
Se il report del Fondo si discosta decisamente e in maniera deliberata dall’operazione di marketing in atto durante gli ultimi anni, è impossibile isolare le complesse mediazioni trovate per permettere questo cambio. “Fattori globali” dovrebbe essere interpretato come la fiducia della BCE e degli investitori internazionali nel rispetto da parte del governo portoghese delle politiche di austerità adottate e degli obiettivi di controllo della spesa e di svalutazione interna.
A livello istituzionale, da parte del governo e del presidente portoghese sono arrivati molti segnali sulla non volontà di invertire la rotta per quanto riguarda le misure da attuare e sulla garanzia che le istruzioni fornite dai rappresentanti della Troika sarebbero state applicate senza essere messe in discussione. La differenza principale è stata che, dall’estate del 2012 in poi, queste politiche e questi obiettivi sono stati fortemente sostenuti in termini finanziari, concedendo un parziale sollievo fiscale e una minima agibilità politica, necessari al paese per evitare il rischio dell’ingovernabilità. Paradossalmente, la magra ripresa economica che ha seguito è stata in parte merito delle decisioni della Corte Costituzionale che, nonostante i toni drammatici usati dal governo e dalla Troika, ha rigettato diverse misure di austerità, come i tagli alle pensioni e le riduzioni salariali ai danni dei dipendenti pubblici, prevenendo un’ulteriore contrazione del mercato interno e permettendo un piccolo aumento del PIL.
Cosa fare quindi dei tre anni e mezzo sotto il memorandum e del loro effetto sulla società portoghese, quando la maggior parte degli obiettivi sono stati mancati, il debito è cresciuto in relazione al PIL e qualsiasi innalzamento dei prezzi del petrolio o dei tassi di interesse farebbe tremare e crollare l’intero edificio? Una risposta possibile è che la crisi del debito sovrano, con tutto quello che è seguito, fosse nient’altro che un momento di ristrutturazione del capitalismo europeo, una risposta alla perdita di competitività e potenza di una regione nel sistema globale, una scorciatoia per superare tutte le barriere dello status quo politico e per smantellare qualsiasi cosa fosse rimasto del “modello sociale europeo”, a partire dalla pancia del continente. Il neoliberismo implicito che caratterizza le regole e il quadro dell’Eurozona già prevedevano molti degli elementi di questo processo, e la sua periferia ne è diventata il campo di prova perfetto, fin da quando le agenzie di rating hanno iniziato la loro sfida di spelling dalla tripla “A” alla tripla “E”. Un modello di governo totalmente coerente, comprendente una diffusione dello stato di polizia e una sempre più diffusa mercificazione, assieme alla coesistenza di diversi regimi di accumulazione e diversi modelli di riproduzione della forza lavoro, era già presente sottotraccia con l’espansione ad est dell’UE. Ma la possibilità di un rapido avanzamento in quella direzione era un’opportunità che non si poteva far scappare aprendo il credito precedentemente (diciamo nel 2010) e stabilizzando l’Eurozona sul breve periodo, rendendo accettabile un ritmo minore del processo. “Far pagare i loro debiti ai fannulloni del Sud Europa” è stata sia una ricetta popolare in quei paesi con i bilanci in positivo che un potente strumento per ristrutturare il sud Europa, che sarebbe quindi diventata più competitivo e attraente per gli investitori, anche se questo avrebbe comportato enormi costi sociali e un’altrettanto importante cesura tra la democrazia sul livello nazionale e la sovranità sul piano sovranazionale. Se il Quantitative Easing fosse stato adottato nell’Eurozona quando avvenne negli Stati Uniti, i prestiti fatti dalle banche nordeuropee agli stati e alle banche del sud sarebbero stati ugualmente assicurati, evitando però allo stesso tempo la massiccia ristrutturazione dei mercati del lavoro e la restrizione dello stato sociale, clausole implicite nel memorandum. Lungi dall’essere l’unica via d’uscita dalla crisi del debito, l’austerity è stata la via più rapida per assicurare sul lungo periodo una svalutazione interna in tutta Europa. L’austerity non è una dura correzione di uno squilibrio interno alle nazioni, una spiacevole ma necessaria medicina per affrontare un malessere finanziario temporaneo, ma piuttosto il vessillo sotto il quale l’Europa verrà rimodellata come uno spazio economico e politico negli anni a venire.
Come ha detto Passos Coelho, premier portoghese, nei primi giorni del memorandum, il suo governo ha puntato ad andare oltre la Troika, avvantaggiandosi dello stato di eccezione creato dall’improvviso crollo del rating del credito della repubblica nei primi mesi del 2011, per introdurre tutta una serie di riforme del mercato del lavoro e del sistema di welfare che altrimenti sarebbero state impossibili. La situazione è cambiata da quando queste frasi entusiaste erano un’occorrenza comune nella sfera pubblica, ma illustrano al meglio il zeitgeist in atto nell’austerity: “fattori globali” vantaggiosi sono la ricompensa per chi è totalmente dedito a governare contro i governati, “a qualsiasi costo” (un’altra espressione utilizzata da Passos Coelho quando il terreno sotto i suoi piedi sembrava tremare insopportabilmente). Questa è la misura del suo successo.
L’ordine prevale a Lisbona
In quasiasi battaglia, il successo di una parte corrisponde alla sconfitta dell’altra. E’ ampiamente assunto che chi in Portogallo si è battuto contro l’austerity sia stato sonoramente sconfitto, anche se quella sconfitta ha compreso alcune piccole vittorie settoriali, come quella vinta dai lavoratori portuali contro la ristrutturazione del porto o dagli insegnanti delle scuole pubbliche contro le più aggressive regole sui licenziamenti previste nel memorandum. Nonostante sia stata oscurata dalle più grosse e radicali mobilitazioni in Spagna e Grecia, la lotta contro l’austerity in Portogallo ha avuto alcuni momenti importanti, tra la manifestazione globale del 15 Ottobre 2011 e l’autunno dell’anno seguente (quando il parlamento venne assediato due volte e gli scontri con la polizia divennero comuni in ogni manifestazione). Non è facile spiegare come un paese che condivide la maggior parte delle caratteristiche delle altre due situazioni nella periferia dell’Europa meridionale, che occupa una posizione semiperiferica nel sistema globale e che ha seguito lo stesso tipo di tendenza politica ed economica negli ultimi due secoli, possa differire dagli altri due in maniera così evidente rispetto alle dinamiche di protesta e di conflitto sociale, anche quando questi seguono i cicli di lotte sociali internazionali che periodicamente attraversano il continente. Questa differenza visibile tra il Portogallo e il resto della periferia dell’Europa meridionale è spesso attribuita alle particolarità del carattere nazionale, secondo il quale i portoghesi sono naturalmente persone miti, inclini ad arrendersi e ad accettare la fatalità piuttosto che la rabbia e l’appassionata resistenza che caratterizza spagnoli e greci.
Andando oltre un simile approccio, e tenendo a mente che a differenza degli altri due paesi il Portogallo non ha vissuto alcuna guerra civile nel ventesimo secolo, possiamo spiegare alcune delle differenze guardando al recente passato e identificando le particolarità nella cultura politica della sinistra portoghese, ossia nel modo in cui ha contribuito a modellare il conflitto sociale e l’immaginazione politica negli ultimi 40 anni, sulla scia della crisi rivoluzionaria del 1974-1975 e della Costituzione che ne è derivata. La sinistra in Portogallo – e mi riferisco ai partiti indicati solitamente come “sinistra radicale”, alla sinistra del partito socialista – è particolarmente forte a livello istituzionale (rispetto a quella che era la situazione in Grecia e Spagna). Il merito di ciò va ad un sistema proporzionale che, nelle elezioni del 2011, permise a partiti con il 7,91% (Partito Comunista Portoghese, PCP) o il 5,17% (Blocco di Sinistra) dei voti di ottenere rispettivamente 16 e 8 membri del parlamento (un altro fattore è la struttura del governo locale , dove il PCP tradizionalmente ha una base forte nel sud del paese), garantendo quindi quantità considerevoli di denaro e risorse per mantenere un apparato professionale e una rete di organizzazioni satellite che si autodefiniscono “movimenti sociali/società civile”. La cultura politica dalla quale entrambe le formazioni discendono e che ha portato allo status quo attuale combina la volontà di difendere il contenuto della Costituzione (che nel frattempo è stata rivista 8 volte dal 1976, ma è ancora considerata troppo a sinistra secondo la maggior parte dei politici di destra, degli industriali e degli opinionisti) con la memoria diffusa del “25 Aprile” (che rappresenta la combinazione tra gli eventi attuali all’interno del processo rivoluzionario, l’epica narrazione antifascista e un ethos comune di uguaglianza/giustizia sociale che permea la gran parte della popolazione), includendo una serie di elementi simbolici, morali ed estetici che contribuiscono ad integrare la protesta nel sistema politico e parallelamente invitano chi protesta a mobilitarsi per l’”eredità della rivoluzione” e le “conquiste di Aprile”. Alla sinistra di questa sinistra ci sono altri piccoli gruppi di testimonianza militante coinvolti in una feroce competizione a chi utilizza il tono e il linguaggio più offensivo per denunciare sia la sinistra più grossa che gli altri gruppi in competizione, tutti quanti organizzati intorno ad una piattaforma vagamente marxista e esplicitamente anti-imperialista, e dei quali nessuno si distanzia dalla cultura politica descritta prima, focalizzando la loro critica sulle leadership che intendono rimpiazzare.
I movimenti sociali quindi solitamente si muovono sotto l’ombra dei partiti politici e tendono a riprodurre i loro discorsi e le strategie, rimanendo all’interno di uno schema accettabile alla luce degli obiettivi elettorali (per esempio rifiutando la violazione della legge e la sfida al potere statale). Questo da un lato impedisce la possibilità di essere uno spazio di ridefinizione di un discorso e di un repertorio politico, in quanto scompaiono non appena al suo interno si insinua il sospetto di una manipolazione da parte delle burocrazie di partito; dall’altro lasciano dietro di se una scia di loghi e personaggi che periodicamente si rivolgono ai media non appena un tema che dovrebbe essere di loro interesse (razzismo, sessismo, licenziamenti, …) torna sul dibattito pubblico.
A differenza della maggior parte di altri paesi europei, il Portogallo non ha avuto alcuna forma di movimento studentesco nell’ultimo decennio, nonostante il continuo degradare del sistema educativo, le tasse crescenti e la selezione sociale, il rafforzamento degli interessi privati nelle università pubbliche e nella ricerca scientifica, e contro uno scenario di grande disoccupazione giovanile (anche se inferiore a Spagna e Grecia). Anche i sindacati fermamente sotto il controllo del PCP (Confederação Geral dos Trabalhadores Portuguese, CGTP), per quanto restano l’organizzazione singola più forte fuori dall’apparato statale (anche se parzialmente, in quanto ricevono ingenti quantità di fondi europei e governativi), in grado di mobilitare più di 200mila persone in manifestazioni ordinate e ben organizzate, hanno continuato a perdere membri e rimangono forti solo nel settore pubblico, dato che la deindustrializzazione ha spinto i nuclei di militanti ad un pensionamento anticipato. Inutile dirlo, questi movimenti sociali non solo si limitano ad un’azione focalizzata sul breve periodo – opponendosi all’una o all’altra misura attuata dal governo del momento e mantenendo una postura difensiva, nella quale in pratica si aggrappano ad una situazione che in precedenza avevano denunciato come inaccettabile e contro la quale si erano battuti senza successo – in quanto si muovono in un quadro concettuale che vede nella nazione lo spazio naturale di lotta politica e lo stato come fine ultimo e strumento principale di trasformazione sociale. Questo scenario politico include anche alcun gruppi anarchici e i classici gruppi di teoria critica/alternativa della scena artistica, che rimangono ai margini mentre tutto il resto va avanti, e sono ridotti ad una postura autoreferenziale totalmente compatibile con l’attitudine difensiva della sinistra. Questa era la musica sulla quale tutti hanno ballato finchè qualcosa di completamente nuovo è entrato in scena.
Le cose sono iniziate a cambiare quando sempre più persone hanno iniziato a scendere in piazza, mosse da desideri antichi e necessità impellenti. Dobbiamo ricordare come le politiche di austerità e le lotte anti-austerity hanno entrambe anticipato il memorandum firmato con la Troika nel Maggio 2011, al quale sono seguiti tre programmi di “Stabilità e Crescita” che avevano fallito nel raggiungere qualsiasi obiettivo di bilancio nell’anno precedente, ma si sono scontrati con uno sciopero generale nel Novembre 2010 e una manifestazione molto ampia su tutto il territorio nazionale nel Marzo 2011. Fin dall’inizio il movimento che è sceso in piazza contro la svalutazione interna si è dovuto confrontare con una serie di scelte riassumibili così: a) riprodurre il quadro istituzionale e la logica dello Stato nazione, adottando strategie, obiettivi e discorsi compatibili con il regno della politica classica e la sua divisione tra rappresentanti e rappresentati, mettendo in mostra la rispettabile apparenza di una società civile preoccupata ed impegnata nel rafforzamento e nell’approfondimento del processo democratico, criticando l’austerity per essere una strategia politica sbagliata che colpiva le prospettive di una crescita sostenibile e l’interesse nazionale, rivendicando una vita normale senza la precarietà e difendendo lo stato sociale, oppure b) sfidare l’ordine costituito rendendo ingovernabile il paese, autorganizzandosi in forme orizzontali e informali, sviluppando una narrazione autonoma della crisi e un immaginario politico contro la nazione e oltre l’Europa, creando delle relazioni sociali resistenti fondate sulla condivisione e la solidarietà, reinventando la vita quotidiana in ogni momento della lotta, cercando una via d’uscita dal ventesimo secolo.
Inutile dirlo, non c’era una linea chiara che dividesse le persone che optavano per l’una o l’altra strada (e alcuni, forse la maggior parte, non hanno mai sentito la necessità di scegliere), che potevano andare assieme nella stessa manifestazione, opporsi alla repressione di stato e supportarsi nelle situazioni difficili, ma la convivenza è sempre stata fragile e dura da assicurare, specialmente dato il fatto che la prima opzione di solito spingeva a mostrarsi in televisione come portavoci di chi protestava nelle strade, mentre la seconda risultava nella persecuzione poliziesca, nei processi giudiziari e nella demonizzazione da parte dei media, assieme a tutti gli altri problemi che sorgono mentre si cerca una via alternativa di organizzarsi. In più, mentre coloro che optavano per la b) erano di solito in minoranza e iniziavano a conoscersi tra di loro, c’era sempre una gran massa di militanti di gruppi politici in competizione per diventare la “leadership rivoluzionaria” e aspiranti individui entusiasti in cerca dei 15 minuti di fama nei notiziari delle 8. Il fatto che sia Lisbona (circa 2 milioni di abitanti) che Porto (circa 1,5 milioni di abitanti) sono molto più piccole di Madrid e Atene, e i loro centri mancano della densità di popolazione che caratterizza per esempio Barcelona, aiuta a capire le difficoltà logistiche nello stabilire delle fondamenta forti al movimento tra i vari momenti di massa.
Con la maturazione dei movimenti, e la diffusione di disobbedienza e illegalità come elementi comuni dentro manifestazioni e scioperi generali, mentre il Governo si dimostrava incapace di gestire le proteste e mantenere un’apparenza di normalità e pace sociale sulla quale aveva basato la sua strategia (che potrebbe essere riassunta nella frase ripetuta costantemente come un mantra “il Portogallo non è la Grecia”), i candidati a parlare per la protesta iniziavano a scarseggiare.
Questa situazione è durata finchè l’ingovernabilità delle piazze e la loro forma inorganica diventarono inconcepibili per la sinistra, i cui militanti si unirono per formare una sorta di governo del movimento che allo stesso tempo si presentava come un gruppo orizzontale di cittadini, Que se lixe a Troika! (QSLT). Lasciando fuori i gruppi militanti più piccoli e quelli che, marchiati come anarchici, mettevan in discussione l’autorità e i rappresentanti all’interno del movimento, QSLT chiamò una protesta molto ampia contro l’austerity per il 15 Settembre che beneficiò del fatto che il governo due giorni prima annunciò il più sfacciato trasferimento di ricchezza dal lavoro al capitale (cambiando le norme di contribuzione al sistema di previdenza sociale). L’organizzazione era tale da avere letteralmente un orario di inizio e di fine della protesta, alla fine dei comizi da parte degli organizzatori della manifestazione e le loro interviste ai media. Questo portò anche i sindacati vicini al PCP ad aderire quella che fino a quel momento avevano bollato come una protesta inorganica.
Mentre non si può mettere in dubbio la buona volontà e la genuinità di chi era coinvolto dentro QSLT, è difficile non trovare nei loro sforzi e nelle loro scelte alcuni degli elementi decisivi per cui la protesta anti-austerity ha raggiunto lo zenith (il 2 Marzo 2013 circa un milione di persone hanno manifestato solo a Lisbona) e poi è scemata immediatamente, al punto che oggi è difficile ricordare che tutto ciò è avvenuto. Da un lato, QSLT ha potuto beneficiare di una copertura televisiva senza precedenti che – in un paese dove un alto livello di analfabetismo rende l’impatto delle TV particolarmente importante – si è tradotta in un sempre maggior numero di persone nelle piazze. Ma questo al costo di dover denunciare e prendere le distanze pubblicamente da qualsiasi scontro con la polizia o atto illegale commesso dai manifestanti (sia durante le manifestazioni di QSLT che in quelle lanciate con appelli autonomi sui social network, come era stato con i due assedi al parlamento nell’Ottobre 2012), per mostrarsi come attori costruttivi dentro il processo democratico. Allo stesso tempo, i legami politici mantenuti con i partiti della sinistra sono stati tenuti segreti in via cautelare, sia per quanto riguarda l’affiliazione di molti membri che rispetto al supporto logistico ricevuto (palchi con impianti potenti in grado di cancellare qualsiasi altra voce). Non era molto prima che dentro le assemblee di QSLT si materializzasse la cultura competitiva della sinistra, portando ad accuse reciproche tra militanti di entrambi i partiti su presunti tentativi di far proprio il movimento. Gli equilibri interni alla piattaforma iniziavano a cedere man mano che i media acquistavano coscienza della dipendenza dai partiti della sinistra, senza perdere tempo nel rivelarla. Il coinvolgimento diretto di diversi membri in campagne elettorali per i municipi locali e il parlamento europeo, come candidati dei due partiti, ha reso tutto solo più evidente.
Mentre questa situazione si svelava, l’intensità crescente della protesta ha portato ad uno sciopero generale particolarmente duro il 14 Novembre 2012, durante il quale gli scontri con la polizia di fronte al parlamento si sono protratti per molte ore per poi culminare in una durissima carica della polizia che scosse la piazza e le strade limitrofe, lasciandosi dietro una scia di feriti e incontrando una serie di barricate in fiamme. Diverse persone furono arrestate in condizioni che persino la IGAI (corpo di polizia interno per vicende disciplinari) ha definito come “sfacciatamente illegale”. I giorni a seguire furono caratterizzati da una massiccia campagna mediatica da parte delle forze dell’ordine, con l’utilizzo dei materiali video prodotti durante le manifestazioni, oltre che da diverse minacce di arresto ai danni di chi l’establishment politico e l’opinione pubblica avevano definito come “professionisti del disordine”, militanti anarchici con legami internazionali con un’immaginaria Idra che occasionalmente si manifestava nelle ondate di distruzione nei centri delle città. Questo ha alimentato una diffusa paranoia che tolse l’iniziativa a migliaia di persone che avevano sfidato il monopolio statale sulla violenza per mesi e che la consegnarono a chi sperava in una protesta pacifica e ordinata che avrebbe destituito il governo: chiedendo elezioni nelle quali portare le lotte all’interno della cabina elettorale. Non è stato ancora detto abbastanza sull’impatto a lungo termine della restrizione della politica e della storia allo spettro delle possibilità istituzionali, ma ciò che colpisce l’occhio è che una volta che la prospettiva del movimento divenne quella di destituire il governo, e questa si dimostrò impraticabile (vista la sua maggioranza assoluta in parlamento e la copertura della firma del Presidente della Repubblica), la maggior parte delle persone si sentirono impotenti e smisero di pensare che le loro azioni e le mobilitazioni potessero tradursi in risultati concreti. I limiti di questo apparato che combinava le dinamiche classiche della politica e le proteste di piazza si fecero ancora più evidenti quando, un solo anno dopo, il CGTP chiamò una manifestazione dal Sud per attraversare un ponte nell’entrare a Lisbona. Prontamente il governo la dichiarò illegale per motivi di sicurezza e il CGTP rispose con altrettanta prontezza tramutandola in un gesto simbolico, con un attraversamento del ponte in bus e l’inizio del corteo dentro Lisbona. Il movimento contro l’austerity era definitivamente morto e tutte le manifestazioni che seguirono dimostrarono che l’ordine prevaleva a Lisbona (e Porto, Coimbra, Faro). La politica era tornata ad essere il tema di cui si leggeva sui giornali o si guardava in TV, anziché essere l’esperienza comune di rimessa in discussione dell’ordine esistente, da immaginare e praticare oltre ad esso. Portare le lotte nelle cabine elettorali divenne uno scenario praticabile una volta che erano venute a mancare le lotte, e contribuire al rafforzamento della sinistra in parlamento divenne l’unico obiettivo rimasto. Stiamo ancora ballando sulle note di questa marcia funebre. Requiescat in pace.
Un breve epitaffio
Tutto ciò ha reso possibile la situazione in cui viviamo oggi. Dato il fatto che la cabina elettorale viene presentata come l’unico modo per cambiare qualcosa in una situazione in cui qualcosa deve cambiare, l’urgenza dettata dagli effetti dell’austerity portarono alla ricerca di una sinistra capace di governare e di rompere gli schemi tradizionali dell’alternanza tra centro-destra e centro-sinistra. In assenza dell’impeto che ha portato PODEMOS dalle piazze al centro della politica spagnola, dell’abilità di SYRIZA di rivolgersi alle piazze e ai mercati allo stesso momento, proponendo una fine dell’austerità dentro l’Eurozona, la sinistra portoghese rimane ingabbiata nell’illusione che la sovranità nazionale è lo spazio più adatto a resistere il neoliberismo, in quanto formalmente democratico, in contrasto con le tecnocrazie e la natura autoritaria dell’integrazione europea. Rispetto a ciò, il Blocco di Sinistra (fondato su una piattaforma di sinistra europeista) ha vissuto un visibile avvicinamento con le posizioni del PCP (Euroscettico fin dall’inizio, nonostante ha smesso di fare campagne antiUE dalla fine degli anni ’90), e entrambi i partiti oggi difendono un’uscita negoziata dall’eurozona come condizione per una politica economica vagamente keynesiana-sviluppista, capace di creare occupazione e una crescita del PIL sufficiente a sostenere il sistema di Welfare. I recenti sviluppi nei negoziati tra il governo greco e l’Eurogruppo hanno rafforzato questa prospettiva e convinto un certo numero di persone del fatto che un “Portuguexit” sarebbe il risultato inevitabile di un rifiuto dell’austerity. In aggiunta si fanno avanti alcuni preoccupanti segnali di un nazionalismo di sinistra (definito come patriottismo per evitare un termine così spiacevole) e di una retorica di “imperialismo tedesco” (che si espande talvolta ad “imperialismo nordeuropeo”) come evidenziato dall’ultimo manifesto con il quale il Blocco di Sinistra ha ricoperto l’intero paese, il quale includeva (in un coagulato di sangue dal cattivo gusto politico) – un’immagine del Primo Ministro portoghese in piedi al fianco di una soddisfatta Angela Merkel, con la frase in (apparentemente pessimo) tedesco: “Eine Regierung die Deutscher als die deutsche ist” (Un governo che è più tedesco di quello tedesco).
Nessuno dei candidati che ambiscono a governare il paese si è premurato di spiegare come un’uscita dall’eurozona potrebbe tradursi in qualcosa di diverso da un’austerity più dura sul breve periodo, con un’altamente dubbia possibilità di miglioramento delle condizioni di vita sul lungo periodo. Ciò detto, la prospettiva di capitolare sotto la disperazione generale sembra troppo forte per essere ignorata. E mentre le istituzioni europee sembrano pronte a dimostrare il massimo disprezzo per la scelte democratiche fatte nei paesi periferici, l’orgoglio nazionale e l’impoverimento sociale si incastrano apparentemente bene nella narrazione politica della sinistra. Non possiamo aspettarci molto dalle elezioni del 4 Ottobre 2015. Se il Partito Socialista (PS) è stato all’opposizione negli ultimi quattro anni – criticando apertamente molte delle misure adottate dal governo ma al contempo rifiutando di esplicitare come portare avanti politiche diverse dentro l’Eurozona (uscirne sarebbe impensabile, visto che il PS è il partito di gran lunga più euro-entusiasta tra quelli portoghesi, riuscendo a connettere con successo il progetto dell’integrazione europea con la stabilizzazione del regime democratico) – oggi è in grado di posizionarsi come alternative alla coalizione di destra, con un progetto di “austerity intelligente” che prova a rispondere alle richieste interne con una combinazione di sgravi fiscali e utilizzi più oculati dei fondi europei. Il PCP dovrebbe uscirne bene, per quanto distante dal diventare l’equivalente portoghese di SYRIZA (ha preso più del 12% nelle scorse elezioni del parlamento europeo). Il Blocco di Sinistra ha sofferto svariate spaccature negli ultimi anni e con tutta probabilità verrà schiacciato dalla dinamica del voto utile, per la quale elettori di sinistra preferiscono dare la propria preferenza al PS piuttosto che rischiare una vittoria della destra. Molti altri partiti che si presentano per la prima volta probabilmente falliranno nell’eleggere in parlamento. L’unica notizia positiva in quest’area è che l’estrema destra in Portogallo rimane estremamente debole e non è riuscita ad prendere un singolo seggio, diversamente da quello che avviene in Grecia (e molti altri paesi europei).
Dato che la coalizione di governo sta portando avanti una campagna basata sulla necessità di combinare la disciplina fiscale e di bilancio con un occhio di riguardo alla povertà e alle diseguaglianze sociali, la prospettiva più probabile è un governo che porterà avanti la svalutazione interna e l’ingegneria sociale neoliberista, mentre un’opposizione di sinistra riguadagna quello che ha perso alle scorse elezioni e perderà di nuovo alle prossime, chiudendo il cerchio. La natura catastrofica della situazione è evidente: non è rimasta alcuna sovranità reale che lasci spazio a decisioni che possano avere un impatto reale sulle vite delle persone, a meno che le persone non accettino di vivere in condizioni materiali sensibilmente peggiori, facendo dell’austerity, dura o meno, l’unico possibile programma di governo sul piano nazionale. E finché quel piano non viene superato da un movimento di lotta transnazionale contro questo stato delle cose, quello che ci rimane è la finzione delle elezioni nazionali per le istituzioni nazionali, ormai impotenti nel fare altro che non sia applicare lo stesso programma, per poi disciplinare e punire chiunque resista. I lavori sono ancora in corso nel laboratorio neoliberista del Sud Europa ma, a parte questo, niente di nuovo sul fronte occidentale.
Traduzione italiana di Marco Neitzert.
* attivista del collettivo UNIPOP di Lisbona.