Pubblichiamo la nuova prefazione di Giso Amendola che accompagna la ristampa della Teoria generale del diritto e il marxismo di E.B. Pašukanis.  Il volume è uscito nella collana filorosso per le edizioni Pgreco, che sta riportando in libreria molti classici del marxismo da tempo non più disponibili. Da questa collana abbiamo pubblicato anche la nuova prefazione di Toni Negri a Stato e Rivoluzione di V.I. Lenin.

Di GISO AMENDOLA

1. Il diritto in transizione

La Teoria generale del diritto e il marxismo, che torna oggi disponibile alla lettura dopo essere stato a lungo testo amato e citato solo dal ristretto gruppo degli interessati alla critica marxista del diritto, è un testo per molti aspetti “datato”. Presentato nel 1923 all’Accademia delle scienze, e pubblicato nel 1924, è attraversato dal suo rapporto specifico con una precisa fase della Rivoluzione sovietica. Il 1924 è l’anno della morte di Lenin e dell’ascesa di Stalin. Tre anni prima, nel 1921, era iniziata la Nep, la Nuova Politica Economica, e con essa il tentativo leniniano di rivitalizzare spazi di mercato e di impresa all’interno del processo che si era aperto con la Rivoluzione. L’apparizione in questo anno decisivo segna in qualche modo il destino di questa Teoria generale: un testo che aspira a collocarsi a un alto livello di astrazione (astrazione del resto è una parola chiave di tutta l’impresa di Pašukanis) e, allo stesso tempo, è attraversato da cima a fondo dalla precisa contingenza postrivoluzionaria in cui nasce[1].

La stessa vita di Pašukanis esprime, portandola sino alla tragedia, questa tensione tra intensità dell’impegno teorico e il coinvolgimento intenso nelle vicende storiche postrivoluzionarie. Pašukanis è decisamente impegnato nella costruzione degli strumenti giuridici postrivoluzionari. Allo stesso tempo, proprio le posizioni elaborate negli anni immediatamente successivi alla Rivoluzione, ne segneranno, nonostante tutti i suoi ripetuti tentativi di riposizionamento, la sorte personale negli anni del consolidamento dello stalinismo, sino a scomparire nel 1937 nel gorgo delle purghe staliniane.

La caduta in disgrazia e la morte sono un diretto portato della sua ricerca teorica, sono il risultato di una forza delle sue posizioni tale da resistere persino ai tentativi ripetuti di autointerpretazione e di “autocorrezione”[2]. La sua teoria giuridica è tutta attraversata dal problema della transizione: la sua tesi principale afferma un legame costitutivo tra la forma del diritto moderno e il rapporto economico di scambio nella società capitalistica, e specificamente nella fase mercantilistica di quella società. Così letto, il diritto non solo e non tanto è un’organizzazione dei rapporti sociali che ha contenuti determinati dalla classe dominante, quanto è già nella sua forma giuridica forma specifica dello scambio capitalistico. Da un lato, questo rendeva la sua teoria generale uno strumento molto proficuo per interpretare il senso e il limite della permanenza di dispositivi giuridici propri del diritto borghese anche dopo la Rivoluzione; dall’altro lato, faceva di questa permanenza una sopravvivenza temporanea e legata esclusivamente alla transizione. Se il diritto è costitutivamente borghese, già nella sua forma e non solo nel suo rapporto con la “volontà” della classe dominante, la transizione non è una sostituzione di una nuova “volontà” di classe alla vecchia classe dominante borghese nell’utilizzo della macchina giuridica, ma un processo di estinzione della macchina giuridica in quanto tale. Al problema di “cosa farne” del diritto nella transizione, Pašukanis risponde con una teoria che da un lato permette la comprensione delle ragioni della sua permanenza in quanto diritto borghese, e in certi limiti rende anche più comprensibile l’utilizzo transitorio di certi suoi dispositivi, dall’altro traccia un rapporto necessario tra forma giuridica ed estinzione del diritto, escludendo in via di principio qualsiasi mediazione tra strumento giuridico e rivoluzione nel nome di un qualche presunto diritto dal contenuto “proletario”. Non esiste un diritto proletario: il che evidentemente renderà queste tesi incompatibili con il lavoro di affermazione di una specifica “legalità socialista”. Quest’ultima sarà il pilastro della costruzione dello “stato sovietico” e troverà compiuta teorizzazione nel “normativismo” di Vyšinskij, il quale recupererà paradossalmente la tesi formalista per cui il diritto può avere, in quanto forma neutra, qualsiasi contenuto.

Questo rapporto intenso tra astrazione teorica (elaborazione di un modello marxiano di teoria generale del diritto, che spieghi il darsi della specifica forma giuridica borghese, non solo dei contenuti borghesi del diritto) e transizione (letta come estinzione della forma giuridica ed affermarsi di forme di regolazione altre rispetto a quelle incentrate sul diritto) rende la lettura della Teoria generale rilevante anche per l’oggi. Non perché le specifiche circostanze rivoluzionarie siano in alcun modo paragonabili ai problemi del nostro presente, ma perché il quadro teorico che Pašukanis mette all’opera, proprio per la tensione che incorpora tra astrazione/forma e rivoluzione/estinzione della mediazione giuridica in quanto tale, continua a interrogare la teoria giuridica e il suo rapporto con la trasformazione sociale. Nessuna meraviglia, quindi, che l’attenzione per l’opera di Pašukanis rispunti oggi quando si è trattato di capire “cosa farne” degli strumenti giuridici nell’azione dei movimenti sociali, specie di fronte alle trasformazioni radicali che hanno investito lo stato, e con esso la forma giuridica borghese classica, all’interno dei processi di globalizzazione.

Alcuni esempi potranno chiarire le ragioni dell’attualità di un’opera della teoria generale del diritto sovietica degli Anni Venti nel nostro presente. Negli anni ’70, la critica marxiana del diritto italiana giunse per diverse vie a elaborare una serie di strategie per piegare il diritto a rafforzare la stagione dei conflitti sociali che caratterizzò il decennio. L’interpretazione estensiva del disegno costituzionale, in particolare la funzione sociale della proprietà, l’uso diretto nelle decisioni giudiziali dei principi costituzionali, specie del principio di eguaglianza sostanziale, un’intensa rilettura etico-politica degli elementi di regolazione progressista che emergevano nel diritto amministrativo e nel diritto del lavoro, avevano dato vita alla stagione del cd. uso alternativo del diritto[3]. Lo sviluppo industriale aveva prodotto un’intensa socializzazione non solo della produzione, ma anche della stessa regolazione giuridica, trasformando lo stato di diritto in uno stato sociale avanzato, che alterava in profondità la struttura dello stato di diritto liberale, provocando una fortissima tensione tra il piano della validità e il piano della concreta efficacia delle norme, tra il disegno normativo astratto e l’amministrazione/applicazione del diritto all’interno dei conflitti sociali. Il tentativo dell’uso alternativo del diritto fu quello di rispondere a questa crisi, producendo, attraverso l’interpretazione e la giurisprudenza, un piano più avanzato di mediazione giuridica, un diritto giurisprudenziale capace di elaborare una trasformazione “socialista” dell’ordinamento che rispondesse all’enorme processo di socializzazione che aveva già conflittualmente investito il sistema giuridico.

In anni più recenti, alla crisi delle politiche neoliberali esplosa nel 2008, si sono opposte diverse strategie fondate sulla riappropriazione del valore prodotto dalla cooperazione sociale contro i dispositivi proprietari e finanziari. Si è sviluppato un intero ciclo di lotte, di cui sono state simbolo le mobilitazioni di Occupy Wall Street del 2010, il movimento degli Indignados spagnoli, ma anche il movimento italiano dei beni comuni, la cui posta in gioco è stata l’affermazione della potenza del “comune”, al tempo stesso come presupposto e come prodotto della cooperazione sociale. In questo contesto di lotte, si sono moltiplicati nuovamente i discorsi sui possibili usi “controegemonici” del diritto, o sulla possibilità della produzione di un diritto non proprietario, ma capace di difendere e tutelare i beni comuni, se non di spingersi ad una complessiva trasformazione “non proprietaria” degli assetti giuridici, verso un complessivo “diritto del comune”[4].

In tutti questi esperimenti di uso critico del diritto, si sono utilizzati i dispositivi giuridici positivi esistenti per cercare di piegarli a funzioni di emancipazione sociale. La forma giuridica serve come strumento per veicolare contenuti progressisti: nell’uso alternativo del diritto una più avanzata interpretazione del disegno costituzionale di diritto, nel movimento dei beni comuni una valorizzazione della cooperazione sociale contro vecchi e nuovi recenti proprietari.

Da una sponda molto diversa, anche i vari nuovi statalismi di sinistra, compresi i cosiddetti “populismi di sinistra”, hanno ragionato nei termini di un utilizzo della forma-stato come strumento per produrre una forma di regolazione capace di opporsi alle politiche neoliberali. La forma dello stato viene pensata “sottraibile” all’uso che ne hanno fatto le politiche neoliberali, e in qualche modo “riutilizzabile” per lo scopo opposto: la forma dello stato può essere riempita di contenuti socialisti, e funzionare come strumento politico-giuridico di implementazione di politiche più o meno neokeynesiane.

In tutte queste proposte di uso più o meno emancipativo o socialista del diritto e dello Stato, sopravvive una visione strumentale della forma giuridica. La forma del diritto è indipendente dai suoi contenuti: e, quindi, può essere utilizzata nei più vari sensi politici, come un dispositivo neutrale rispetto a quei contenuti.

La teoria generale di Pašukanis ha esattamente questo nemico: l’illusione che la forma giuridica possa essere uno strumento neutrale. È l’illusione (quanto duratura…) del cosiddetto “marxismo giuridico”: produrre un diritto socialista. Pašukanis si batte esattamente contro l’idea che una teoria marxista del diritto possa essere una teoria che confermi la forma giuridica tradizionale, riempiendola per così dire di contenuti socialisti: la critica marxista del diritto non è la conservazione della for- ma giuridica liberale con in più il richiamo alla lotta di classe. L’oggetto della critica è invece precisamente la forma giuridica: borghese non è un contenuto specifico del diritto, che la lotta di classe mirerebbe a sostituire con un contenuto socialista. Borghese è la forma stessa del diritto, per niente neutrale rispetto ai suoi contenuti e ben lungi dall’essere un mero strumento rispetto agli interessi materiali di classe.

Per questo Pašukanis oggi continua ad essere il nome di un problema inaggirabile, quello della forma stessa della mediazione giuridica e della sua crisi. La sua posizione sospende l’illusione di un fantomatico socialismo giuridico. Le lotte per la trasformazione non possono evi- tare di interrogarsi sulle modalità di questa mediazione, non possono pensare di riciclare le forme tradizionali del diritto e dello Stato e di farle funzionare come strumenti della rivoluzione. La lotta di classe non cambia semplicemente gli interessi che dominano lo stato e il diritto: incide invece sulla stessa struttura dello stato e del diritto, perché la forma giuridica, le modalità e i concetti dell’astrazione giuridica moderna sono già espressione del capitale in quanto forme determinate. Di qui, il problema “classico” che la teoria giuridica di Pašukanis ci riconsegna: se la forma giuridica moderna è indistricabile dalla società borghese nella quale si è sviluppata, e se i concetti giuridici in quanto tali, l’astrazione giuridica in quanto tale non sono semplici strumenti convertibili a qualsiasi uso politico, ma sono forme e astrazioni specificamente legate alla società borghese, la trasformazione non può che porre il problema del superamento di quella stessa forma.

Oggi che la crisi di quella forma giuridica è conclamata, si pone in modo ancora più netto il problema della sua inutilizzabilità, della sua irrecuperabilità a scopi di trasformazione sociale. La trasformazione sociale, le lotte per l’emancipazione, la lotta di classe devono fare i conti con la critica non semplicemente del contenuto neoliberale che diritto e stato sono venuti assumendo, ma, se si assume fino in fondo il “problema Pašukanis” anche del deperimento di quelle stesse forme, e della necessità di inventare altre forme. Di prendere sul serio il tema cruciale che marxianamente e leninianamente Pašukanis ripropone: se non esiste e non può esistere un “diritto socialista”, poiché la forma giuridica non può assumere qualsivoglia contenuto, allora le lotte tendono a produrre anche l’estinzione di quelle forme. Molti usi tattici si potranno fare dello strumento giuridico, ma sono sempre e solo usi e tattiche della transizione. L’orizzonte ultimo delle lotte non coincide con l’orizzonte dell’astrazione giuridica moderna e della forma stato, non si muove all’interno di quella forma, ma ne produce il deperimento. Riportato il discorso al qui e ora, significa che non si lotta per il ritorno dello stato o per una rinnovata centralità del diritto come forma di regolazione degli interessi. Chi si illudesse sulle possibilità di usare le forme tradizionali della norma giuridica e dello stato come strumento di difesa nei confronti degli interessi proprietari scatenati dalle politiche neoliberali, chi cercasse in quelle forme degli argini o degli strumenti di rinnovata regolazione nei confronti della globalizzazione finanziaria, non farebbe i conti fino in fondo con la relazione costitutiva tra quelle forme e quegli interessi. Il punto non è diagnosticare il ritorno o il superamento dello stato: il punto è che le lotte per l’emancipazione devono saper contemporaneamente pensare anche le nuove forme, le nuove istituzioni, i nuovi strumenti di regolazione capaci di sostituire la forma giuridica moderna, che è la forma giuridica specifica della società mercantile e proprietaria. Le lotte possono utilizzare nella transizione il diritto, ma lottano per la sua estinzione. Pensare a qualcosa di meglio del diritto, a qualcosa di meglio del diritto privato come del diritto pubblico, a un orizzonte ulteriore rispetto alla disciplina dello scambio e della proprietà così come allo stesso soggetto giuridico moderno “astratto”: è questo orizzonte di superamento radicale della forma giuridica moderna che Pašukanis, mostrandoci come quella forma sia costitutivamente intrecciata allo sviluppo del capitale, non si stanca di indicarci.

Il modo in cui la teoria generale del diritto riapre questo orizzonte può essere illustrato seguendola lungo tre assi fondamentali, lungo i quali viene infranta l’illusione di una riutilizzabilità “proletaria” del diritto e viene spezzato l’inganno di una impossibile mediazione nel nome di un presunto “diritto socialista”. Il primo è il problema del metodo, attraverso il quale Pašukanis rompe con una critica ideologica del diritto, o meglio, con una critica del diritto in quanto ideologia, e mostra la potenza reale dell’astrazione giuridica moderna; il secondo è quello della critica della forma giuridica, che Pašukanis conduce quasi genealogicamente, stringendo il nesso tra produzione dei concetti giuridici e produzione di merci, e tra soggetto giuridico formale e soggetto borghese proprietario; il terzo, tanto più centrale oggi quanto più lo si era ieri relegato nel campo dell’utopia, quello decisivo dell’estinzione del diritto.

2. Il metodo dell’astrazione

La critica del diritto di Pašukanis occupa una posizione singolare nel dibattito su marxismo e diritto: da un lato è un autore che vuole essere metodologicamente fedele, in modo molto rigoroso, a Marx, e soprattutto al Marx del Capitale e alla critica dell’economia politica. Dall’altro lato, ricava, proprio da questa fedeltà metodologica, che ama richiamarsi direttamente a Marx più che ai marxismi, una lettura del diritto che evita rigorosamente la riduzione del diritto a mera sovrastruttura. Pur espressione dei rapporti economici, il diritto non è mai sovrastruttura “ideologica” risolvibile interamente nella struttura produttiva: forse anzi, proprio la diffusione della lettura di Pašukanis ha retroagito sulle interpretazioni del rapporto tra Marx e il diritto, complicando l’immagine diffusa per cui, almeno nel Marx maturo, si assisterebbe ad una lettura economicista e riduzionista del diritto, che ne certificherebbe una natura semplicemente strumentale rispetto ai rapporti di produzione[5].

Non è stata questa in realtà la più immediata recezione di Pašukanis al di fuori del contesto sovietico. L’immagine di un Pašukanis portatore di una semplice riduzione del diritto a sovrastruttura dei rapporti economici è stata inizialmente dominante: Bobbio, per esempio, in diversi interventi degli anni ’50, attribuisce a Pašukanis una visione “estremistica” ed in sostanza eliminatoria del diritto, contrapponendola invece al recupero della “legalità socialista” da parte di Vyšinskij, letta da Bobbio come un implicito avvicinamento alla dottrina pura di Hans Kelsen e a  un almeno formale recupero dello stato di diritto, passando così sopra l’evidente engagement con lo stalinismo di questo formalismo di Vyšinskij[6]. Beninteso, non che in Pašukanis un problema di unilaterismo “economicista” non riaffiori di tanto in tanto, specie, come si vedrà, riguardo all’ipervalutazione del diritto privato come unica matrice della forma giuridica[7]: ma l’interpretazione nei termini di una semplice riduzione del diritto ai rapporti economici trascura completamente l’autonomia che ha già a livello di metodo in Pašukanis la forma giuridica come forma specifica dell’astrazione.

Probabilmente, la rilettura più attenta di Pašukanis è iniziata proprio quando si è cominciata ad affermare un’interpretazione di Marx che ha valorizzato particolarmente gli elementi dell’astrazione e della struttura nell’analisi del capitale. A buona ragione, Étienne Balibar inserisce la Teoria generale del diritto e il marxismo tra i testi fondamentali per un marxismo dell’astrazione, o più precisamente, nella sua lettura, per un marxismo che apre all’analisi delle strutture simboliche: Pašukanis, a partire dall’analisi della forma del valore, fa emergere un linguaggio dell’astrazione giuridica che rappresenta e “mette in forma” i propri soggetti e i propri rapporti, in modo precisamente simmetrico alla produzione di merci[8].

La centralità metodologica dell’astrazione permette a Pašukanis di evitare una critica del diritto semplicisticamente intesa come denuncia degli inganni dell’ideologia e disvelamento dei rapporti di classe “occultati” dal diritto. Evidentemente l’interesse della classe dominante esiste ed è fondamentale nella genesi del diritto anche per Pašukanis. Ridurre però il diritto a organizzazione dei rapporti sociali secondo gli interessi della classe dominante, obietterà a Stučka, non riesce a rendere conto dello specifico modo in cui quegli interessi si esprimono nella mediazione giuridica[9]. Come sappiamo, ad essere espressione del capitale, per Pašukanis, è in primis la forma del diritto. Proprio come il primo libro del Capitale ha chiarito illustrando la logica del valore di scambio e dell’equi- valenza come logica del feticismo delle merci, il capitale è una macchina capace di astrarre: di creare una configurazione di rapporti sociali che sostituiscono, stanno feticisticamente al posto dei rapporti reali, ma che, allo stesso tempo, non sono semplici doppi ideologici. Rapporti sociali non falsi, non semplici mistificazioni, ma creazioni del capitale, e comprensibili solo all’interno della realtà complessiva dei rapporti sociali capitalistici.

Dal punto di vista del metodo, Pašukanis segue un approccio marxianamente rigoroso, il riferimento chiave è evidentemente l’Introduzione alla critica dell’economia politica. L’astrazione è uno strumento indispensabile per la comprensione delle cose, ma, a sua volta, è possibile solo all’interno di precise circostanze storiche: l’astrazione determinata permette di conoscere il concreto, ma è a sua volta prodotta da condizioni materiali che ne costituiscono il presupposto[10]. Occorre procedere dal più semplice al più complesso: il più semplice, però, è a sua volta non un dato, ma il prodotto di condizioni materiali necessarie perché quell’astrazione diventi possibile[11]. Il concetto di lavoro astratto è appunto il prodotto dell’astrazione rispetto a tutte le forme particolari di lavoro: allo stesso tempo, però soltanto la produzione capitalistica nella sua fase industriale permette di concepire il concetto di lavoro astratto. L’astrazione del concetto è il frutto di un processo che la rende possibile, e, allo stesso tempo, indica la tendenza di quello sviluppo: dal lavoro concreto, per l’appunto, verso il lavoro astratto.

La stessa astrazione però va riportata alle condizioni storico-materiali che la producono. Il concetto di lavoro in generale è evidentemente un’astrazione: un’astrazione indispensabile, perché solo il lavoro in generale, il lavoro come astrazione economica, può spiegare la realtà storica delle forme di lavoro concrete e determinate[12]. A sua volta, però, il lavoro in generale è concetto che si sviluppa esclusivamente grazie alla produzione industriale, la quale ha reso omogeneo il lavoro come mezzo di produzione, ne ha permesso la misurazione, ha gettato nell’irrilevanza le differenze specifiche e qualitative tra le diverse concrete specie di lavoro. Infine, e ancora perfettamente dentro il metodo marxiano, Pašukanis ricorda come i concetti quali astrazioni determinate, pur formandosi cronologicamente in un momento avanzato dello sviluppo storico, servono a spiegare le fasi precedenti: se si vogliono comprendere le decime e i tributi feudali, occorre possedere il concetto di rendita fondiaria. La società borghese sviluppa i concetti con i quali è possibile comprendere i rapporti di produzione delle società passate: marxianamente, l’anatomia dell’uomo spiega quella della scimmia.

3.La forma giuridica

Riportando il metodo dell’astrazione determinata allo specifico linguaggio della scienza giuridica, Pašukanis può sviluppare così una critica dei concetti giuridici che ne riconosce tutta la forza costruttiva, la specifica e determinata realtà. E al tempo stesso, può riconnettere questa critica a una critica dell’economia politica, riportandoli alla logica produttiva del capitale, senza trasformarli in fantasmi o coperture ideologiche.

L’astrazione determinata, infatti, come sappiamo, non è un’impresa che può esaurirsi e rinchiudersi esclusivamente all’interno della scienza giuridica. Le stesse condizioni che rendono l’astrazione giuridica un’astrazione determinata aprono continuamente la forma giuridica ai rapporti di produzione, proprio come la forma merce è continuamente attraversata e “animata” dalla forma del valore. È vero che il fenomeno giuridico è essenzialmente forma, e che la forma è dal canto suo, rapporto tra soggetti: una definizione che accosta Pašukanis a molte impostazioni che vedono nel diritto un fenomeno relazionale o istituzionale, e che tendono a sganciare il diritto dalla forma della legge e dalla produzione statuale. Questa indagine sulla forma però, per Pašukanis, va condotta con metodo marxiano, e quindi aperta continuamente ai rapporti di produzione: l’astrazione formale del diritto è spiegabile soltanto se la si mette in relazione con l’omologa capacità del capitalismo di produrre valore di scambio separato e astratto dal valore d’uso. Se la forma giuridica è astrazione, il significato di quella forma va cercato, per Pašukanis, nel processo di produzione di merci: come il lavoro impiegato per produrre una merce si presenta poi, nella forma-merce, come valore di scambio astratto rispetto al lavoro impiegato per produrla, così la forma giuridica si presenta come forma di regolazione rispetto al suo contenuto e agli atti di volontà necessari a produrla. Questa omologia tra forma giuridica e merce, per Pašukanis, ha la sua precisa radice nel sistema di produzione capitalistico. Forma giuridica e forma di merce sono omologhe proprio perché questa specifica forma giuridica, la relazione tra soggetti giuridici, è pensabile solo all’interno del sistema capitalistico.

Il diritto come forma, esiste non solo nelle teste e nelle teorie dei giuristi: esso parallelamente ha una storia reale, che si svolge non come sistema di idee, ma come particolare sistema di rapporti, al quale gli uomini partecipano non perché lo abbiano consapevolmente scelto, ma perché a ciò li spingono le condizioni di produzione.[13]

Pašukanis offre così una definizione formale di diritto: il diritto è rela- zione tra soggetti giuridici. Il diritto è astrazione: è il rapporto, astratto, tra soggetti giuridici, essi stessi prodotto di astrazione. A sua volta però, l’astrazione è astrazione determinata: la forma giuridica – il rapporto tra soggetti giuridici – è prodotta da specifici rapporti di produzione. Il rapporto giuridico è sì un concetto formale, ma è quella specifica forma giuridica prodotta dall’economia mercantile fondata sul libero scambio di merci. Il soggetto giuridico, a sua volta, è il possessore di merci, dotato della sua libertà, e in primo luogo, della libertà di contrarre. Pašukanis, così, non deduce linearmente la sovrastruttura giuridica dalla struttura economica: né, tantomeno, considera la prima una deformazione ideologica che coprirebbe i rapporti materiali che si esprimono nella struttura. La sua commodity exchange theory of law[14] sottolinea invece l’analogia strutturale tra la società capitalistico-mercantile e la forma giuridica. La prima è circolazione di merci, e la merce è forma del valore di scambio, astrazione rispetto alla particolarità del valore d’uso. La seconda, la forma giuridica, è la costituzione del soggetto astratto di diritto e del rapporto di eguaglianza (formale e astratta) tra questi soggetti. Il riferimento alla forma non serve solo per smascherare l’ideologia borghese: serve anche, scrive Pašukanis, “per chiarire in linea di principio le caratteristiche della sovrastruttura giuridica come fenomeno obiettivo”[15]. Prosegue poi Pašukanis subito dopo:

Il principio del soggetto giuridico (indichiamo con ciò i principi formali dell’uguaglianza e della libertà, il principio dell’autonomia della persona, ecc.) non è solo uno strumento di inganno e un prodotto dell’ipocrisia borghese, in quanto si oppone alle lotte del proletariato per l’eliminazione delle classi, ma è contemporaneamente un principio reale attivo, incarnazione della società borghese, quando essa nasce da quella feudal-patriarcale e la distrugge[16].

Il soggetto è astrazione: ma l’astrazione determinata è una astrazione che ha una forza costitutiva, effettivamente funzionante. Il soggetto giuridico è la principale di queste astrazioni: la “persona” è il centro dei rapporti nel campo del diritto privato, ed è una costruzione astratta, possibile però solo perché, in quello specifico rapporto di produzione che è l’economia capitalistico-mercantile, l’individuo si caratterizza come possessore di merci.

I soggetti giuridici sono maschere che stringono liberi rapporti fondati sulla libera volontà di contrarre: la forma giuridica si costituisce così come analogo al feticismo della merce che caratterizza la società dello scambio. Ma proprio come il feticismo della merce non è una distorsione, un falso, o una corruzione ideologica, ma riflette la specifica forma-merce che caratterizza la società capitalistica, così a sua volta la forma giuridica è la forma specifica della regolazione sociale in questo determinato rapporto di produzione.

Questa lettura della forma, rispetto a gran parte della tradizione giuridica caratterizzata dal positivismo giuridico statualistico, e a gran parte della critica del diritto che a quella tradizione comunque si rifà, si caratterizza in modo molto evidente per una decisa relativizzazione del ruolo della coazione giuridica, del comando e dello Stato. Come nota Antonio Negri, lo squilibrio tra momento del rapporto e momento del comando in Pašukanis, a prima vista, sembrerebbe evidente[17]. La marginalizzazione del diritto pubblico, e la relativa elevazione del diritto privato a centro dell’esperienza giuridica, sono evidentemente la conseguenza di questo assoluto privilegio per il momento orizzontale nella costruzione della forma giuridica. In Pašukanis, è centrale il momento del costituirsi dell’uguaglianza formale, e del rapporto contrattuale come relazione tra egualmente libere volontà. Non si tratta, però, di una difesa della società borghese, né va confuso come un elogio del “diritto dei privati” nel segno di una sorta di apologia dell’autoproduzione giuridica dei privati, contro la logica statualista del monopolio pubblico della produzione del diritto. Pašukanis evidentemente può offrire buone armi per chi si muove alla ricerca di un diritto al di là del pubblico e dello statuale, data la forza con cui guarda alla centralità del rapporto di scambio e all’origine privatistica del diritto, ma la sua intenzione ha poco a che fare con una delle tante versioni sociologiche o istituzionalistiche della rivendicazione della priorità di un diritto vivente o extrastatuale[18]. Per Pašukanis, la forma giuridica è certo indipendente dalla produzione legislativa e dallo stato, e più in generale, non ha niente a che fare con l’imperativismo che identifica l’origine della norma nella volontà dello stato (e neanche con l’imperativismo “alternativo” di chi identifica l’essenza della norma in una “volontà” della classe dominante). Questo non toglie però che la forma giuridica non sia la forma di un pacificato ed egualitario scambio orizzontale, ma resti l’espressione, nel linguaggio dello scambio, dell’equivalenza e della “libertà” del soggetto giuridico, della legge del valore e dello sfruttamento. È vero che la logica del rapporto tra eguali non va confusa con una semplice ideologia in quanto è funzionamento reale, dispositivo effettivo: ma è comunque la logica che esprime e riproduce lo sfruttamento di una classe sull’altra. Il diritto dei privati è davvero la forma giuridica centrale per comprendere il diritto: ma se il diritto dei privati è il regno dell’autonomia, è solo il regno di quell’autonomia specifica che discende dalla costruzione del soggetto giuridico formale e dei rapporti cui quel soggetto dà vita. Quella costruzione del soggetto e del rapporto, però, “feticizza”, rappresenta, esprime i rapporti di sfruttamento che la riproducono continuamente. Chi oggi si rivolge al diritto dei privati cercando un diritto dell’azione, della produzione autonoma e dell’autonomia dei soggetti che sia alternativo al diritto statuale può certamente rivolgersi a Pašukanis e troverà ottime armi contro le pretese del monopolio statale e del positivismo giuridico: sappia però che incontrerà anche la dimostrazione che l’autonomia dei privati, il rapporto di scambio, è anche, indissolubilmente, il luogo dello sfruttamento e della ineliminabilità della lotta di classe, non il paradiso del contratto e dell’autonomia.

Pašukanis non minimizza lo sfruttamento: lo fa discendere però direttamente dalla forma giuridica dell’uguaglianza tra soggetti liberi, piuttosto che dal contenuto di classe che la forma giuridica sarebbe chiamata a coprire. Pašukanis non privilegia affatto la forma dell’uguaglianza sulla concretezza del comando perché sarebbe più interessato alla regolazione riformistica della circolazione che a scendere marxianamente nei laboratori della produzione, come lesse con molta malizia Karl Korsch19[19]. Tutto il suo discorso è, al contrario, una critica della regolazione borghese e della forma giuridica che rende possibile quella regolazione. Il suo obiettivo però è far emergere lo sfruttamento direttamente e principalmente dalla forma giuridica dell’eguaglianza: e in questo la commodity-exchange theory è effettivamente l’analogo effettivo, nel campo della teoria giuridica, della critica marxiana dell’economia politica. La merce è astrazione, il soggetto giuridico è l’astrazione coniata in parallelo alla figura del possessore di merci. È vero però che la specificità della merce forza-lavoro, del suo costituirsi come tale e del meccanismo dell’estrazione del plusvalore entrano nella teoria di Pašukanis in modo molto marginale. Il centro della sua analisi è il feticismo della merce come si riflette nel rapporto giuridico tra possessori di merci, molto più che la compravendita della forza lavoro e il suo effetto diretto di sfruttamento.

Pašukanis però non intende né nascondere né sottovalutare il ruolo fondamentale della produzione, e neppure privilegiare la circolazione sulla produzione. Vuole insistere sulla forma specifica che lo sfruttamento assume all’interno della logica dello scambio e all’interno della costruzione stessa dei soggetti giuridici e del loro rapporto. Già la forma giuridica, la relazione tra soggetti formalmente eguali, per Pašukanis, contiene il segreto dello sfruttamento. Se il segreto è nella forma, non è perché il contenuto classista del diritto non conti, ma, al contrario, perché lo sfruttamento di classe è già tutto nella forma giuridica, specifica della società capitalistica di mercato. Lo sfruttamento nasce già nella forma giuridica dell’equivalente, nell’apparente equilibrio formale della relazione giuridica. È proprio quel mondo dei soggetti e dei rapporti giuridici, ad essere segnato dallo sfruttamento, non nonostante ma proprio in forza della forma dell’eguale rapporto tra soggetti eguali che lo caratterizza, proprio come simmetricamente il mondo della merce contiene nella logica del valore di scambio il furto del plusvalore, non nonostante ma in forza della legge della misura e dell’equivalenza che lo costituisce. La conseguenza di questo formalismo in realtà molto poco formale, perché esso stesso motore dello sfruttamento, è evidente: il diritto non è uno strumento neutrale (già nella sua forma, e non solo per il suo contenuto contingente) rispetto allo scontro di classe. Non si può, perciò, eliminare il suo contenuto di classe e farlo funzionare come strumento di altri rapporti di forza materiali. Non esiste alcun diritto proletario, il diritto è già nella sua forma borghese, e non può essere reso funzionale ad altro[20].

Le conseguenze nell’analisi del rapporto tra diritto, rivoluzione e transizione sono a questo punto evidenti: se il diritto è indissolubilmente legato, nella sua forma, alla società capitalistico-mercantile, la rivoluzione, estinguendo il rapporto di produzione capitalistico, non può che produrre l’estinzione del diritto. Estintosi lo scambio di equivalenti, non c’è più forma giuridica, che è la forma dello scambio di equivalenti. La rivoluzione comporta l’estinzione del diritto, non un diritto rivoluzionario: e finché non si estingue, il diritto non sarà che regolazione dello scambio, e quindi diritto formale borghese.

4. L’estinzione del diritto. Alla ricerca di una diversa regolazione

Non esiste, perciò, un socialismo giuridico. Per Pašukanis, è la linea decisiva su cui posizionarsi contro lo stalinismo. Pašukanis non nega ovviamente – come gli imputano i vari interpreti che gli attribuiscono una semplicistica, “proudhoniana” se non anarchica, sottovalutazione dello stato – la necessità di una struttura giuridica nell’organizzare la transizione. La transizione è anzi il suo problema fondamentale: il punto però è che la mediazione dell’intervento pubblico non può essere confusa con una trasformazione socialista della struttura giuridica. Non c’è diritto che non sia diritto borghese, ripete Pašukanis. Così anche l’intervento delle istituzioni della Rivoluzione non può essere, fino a quando utilizzano la forma giuridica, altro che produzione ancora di diritto borghese, per quanto diritto borghese in tensione e contraddizione.

È precisamente questa tensione che la teoria del diritto di Pašukanis mira a fare emergere. Se la socializzazione della proprietà nel diritto pubblico è impossibile, ed è frutto soltanto della errata credenza, imperativista ma anche normativista, che il diritto sia una scatola vuota riempibile di qualsiasi contenuto, e quindi anche di un contenuto socialista, occorre mantenere la tensione tra le forme giuridiche – il cui uso, anche nella transizione, in ogni caso non potrà essere evitato – e l’organizzazione della forza lavoro, che resta estranea alla forma giuridica. Se sull’astrazione Pašukanis proclama fedeltà alla Introduzione alla critica dell’economia politica e al libro primo del Capitale, qui il ‘suo’ testo è decisamente la Critica al programma di Gotha. Identico è l’obiettivo critico rispetto all’intervento marxiano: l’illusione ideologica che lo Stato sia lo strumento per una regolazione alternativa al diritto borghese. Pašukanis non nega la necessità di una normazione pubblica, né della coercizione anche durante la transizione rivoluzionaria: ma, come Marx nella Critica del programma di Gotha, insiste che gli elementi di eguaglianza che questa normazione può inserire, anche quando vengono utilizzati per trasformare il diritto borghese non possono sovvertirne la forma. E, come sappiamo, è proprio questa forma ad essere decisiva per Pašukanis.

Questo significa che certo nella transizione lo strumento giuridico continuerà ad essere utilizzato, ma la trasformazione rivoluzionaria non ha luogo attraverso il diritto. È l’organizzazione delle forze produttive che è decisiva: allo stesso tempo, l’organizzazione delle forze produttive sostituisce altre forme di regolazione a quella giuridica.

Per un’epoca di transizione appare caratteristico, come indicò Marx nella Critica del programma di Gotha, il fatto che i rapporti umani per un determinato periodo saranno purtroppo circoscritti “nell’angusto orizzonte del diritto borghese”. (…) Ma anche con la completa eliminazione del mercato e dello scambio mercantile la nuova società comunista, sostiene Marx, deve portare ancora “sotto ogni rapporto economico, morale, spirituale, le ‘macchie’ della vecchia società dal cui seno è uscita”.[21]

Decisive sono sempre le trasformazioni dei rapporti di produzione: “L’estinzione del diritto e, con esso, dello Stato avverrà secondo Marx solo quando ‘il lavoro cessando di essere un mezzo per la sua esistenza, diviene un bisogno primario per la vita’, cioè quando le forze produttive si sviluppano, ciascuno lavora spontaneamente, secondo le sue capacità”[22]. Il compito della critica del diritto sta allora nel rompere l’astrattezza delle forme giuridiche, rifiutando di eternizzarla, magari con l’intenzione di riempirla di contenuti socialisti, ma elaborando i modi di amministrazione via via adeguati a questa fioritura. Una fioritura umana multiforme: contro appunto l’‘eguaglianza’ formale che caratterizza la costruzione del soggetto astratto.

Per diversi interpreti, l’idea della progressiva estinzione del diritto, e della sua sostituzione con forme di amministrazione e di regolazione diverse da quelle fondate su soggetto astratto, proprietà e scambio contrattuale, ricadrebbe nel campo di una sorta di ‘sansimonismo’, una fiducia nella capacità dell’amministrazione delle cose di sostituire definitivamente la mediazione giuridica: un progetto di deperimento del diritto nella tecnica, una cattiva utopia positivistica che bloccherebbe

la forza critica del pensiero di Pašukanis, trasformandolo nell’apologia di un passaggio lineare dal governo degli uomini all’amministrazione delle cose[23].

Di vero, in queste interpretazioni, c’è che il tema dello sviluppo delle forze produttive e della programmazione difficilmente avrebbe potuto evitare, all’epoca, di ricadere in una fiducia unilaterale nello sviluppo tecnico e nella crescita di un apparato di regolazione amministrativo. E però resta altrettanto vero che l’estinzione nel senso del progressivo deperimento della forma giuridica, in parallelo all’altrettanto progressiva maturazione delle forze progressive, non è l’unica parola di Pašukanis.

La precisione con cui imposta la questione della forma giuridica, l’a- nalogia strutturale individuata tra astrattezza della norma e feticismo della merce, produce evidentemente un’immagine del diritto come scambio, relazione ed equivalenza. In altri termini, come comune misura che permette la realizzazione della società mercantile borghese fondata sulla forma del contratto. Pašukanis, però, come abbiamo già ricordato, afferma contemporaneamente che questa forma dello scambio è la forma dello sfruttamento. La legge del valore inserisce continuamente all’interno del mondo dei valori di scambio e delle merci e nel cuore della misura che la forma giuridica garantisce e feticizza, la dismisura dello scontro tra la forza lavoro e il mondo della norma e dello scambio. Questo scontro allora richiama in causa lo stato, non come luogo di un’impossibile mediazione, ma al contrario precisamente come soggetto dello scontro, costretto a intervenire dagli sviluppi della lotta di classe, reintroducendo l’elemento del comando che perturba tutta l’apparente- mente irenica costruzione della logica di scambio certificata dalla forma giuridica: tutta la quinta parte della Teoria generale, dedicata a Diritto e stato, diventa un terreno di lotta, impossibile da riportare a qualsiasi ipotesi di “progressivo” deperimento del diritto nella forma della regolazione tecnica, a qualsiasi economicismo “oggettivistico”[24]. Pašukanis non ignora affatto né lo stato, né l’elemento della coazione: se insiste sull’esternità dello Stato, come comando e violenza, alla forma giuridica, non è per ridurlo a fenomeno marginale, ma per smascherare piuttosto la possibilità che lo stato si presenti come uno strumento per una nuova mediazione, magari “socialista”. Non solo lo stato non può essere la sede della mediazione “pubblicistica”, né tantomeno lo strumento neutro utilizzabile a fini rivoluzionari: lo Stato mostra anzi l’elemento irriducibile di dismisura, di violenza e di comando, che deforma e denuncia tutta l’apparente razionalità della costruzione giuridica della norma e dello scambio.

Nelle pagine dedicate al diritto penale (Diritto e torto, settima parte), la questione è posta chiaramente[25]: se Pašukanis considera il diritto penale come esterno e marginale all’autentica forma giuridica, che è quella del- lo scambio, rilevandone semmai una sorta di nostalgia della misura nel suo continuo tentativo di “commisurare” la pena, non è per una economicistica e aproblematica adesione alla tesi della natura essenzialmente privatistica del diritto. Il punto non è neppure denunciare scandalizzati la violenza ancora primitiva del diritto penale nei confronti della logica giuridica “matura” del diritto dei privati. Per Pašukanis quella violenza non è un’arretratezza “primitiva” che la maturazione delle forze produttive provvederà a far deperire. Pašukanis intende mostrare tutt’altra cosa: uno scontro non mediabile da nessuna norma tra la pretesa del diritto moderno di ridurre ogni rapporto all’equivalenza dello scambio e la violenza che questa stessa pretesa riproduce. L’equivalenza è insieme logica dello scambio e sfruttamento: è questa tensione che riapre la lotta e costringe lo stato a presentarsi come violenza esterna alla pretesa equivalenza della forma giuridica.

La lotta di classe rivela la violenza insita nella logica dello scambio, e mostra come la regolazione dello scambio e dell’equivalenza, la giusta misura dello scambio, sia forma dello sfruttamento, sia nell’equivalenza imposta dal diritto privato, sia nella “commisurazione” della pena proclamata dal diritto penale. L’estinzione del diritto è sì il prodotto della impossibilità di imporre la forma giuridica dell’equivalenza alla maturazione delle forze produttive: ma il deperimento della forma giuridica è un prodotto dell’impossibilità di mediare all’interno di quella forma di equivalenza la lotta di classe che attraversa la trasformazione della produzione.

Se gli elementi economicisti e “positivisti” che pure emergono sono probabilmente oggi inservibili, la crisi della regolazione giuridica e l’impossibilità di trovare nella mediazione classica dei dispositivi giuridici statali soluzione alle nuove forme di conflitto rendono l’estinzione del diritto un orizzonte che è impossibile chiudere frettolosamente, relegandolo nell’utopia. È un orizzonte che si riapre continuamente quando facciamo i conti con l’esaurimento della mediazione giuridica. Pašukanis avrà avuto forse troppa fiducia nella sostituzione progressiva di nuove forme di regolazione tecnica alla vecchia regolazione liberale dei rapporti di scambio. Ma aveva ragione sia nel mostrare la violenza insita in quella pretesa di equivalenza, sia nell’indicare come la maturazione delle forze produttive avrebbe sempre più resa esplicita quella violenza. Oggi possiamo dire con più forza: la trasformazione delle soggettività che animano la forza lavoro e la trasformano in una densissima accumulazione di differenze pongono precisamente il problema di nuove forme della regolazione, senza che sia recuperabile, se non tatticamente e parzialmente, la forma giuridica della mediazione. Qui l’estinzione del diritto non è utopia: è precisamente il problema che una politica della trasformazione radicale si trova davanti. La teoria generale di Pašukanis non offre evidentemente la risposta: ma ci dice come il problema di una nuova misura, di una nuova astrazione, non può trovare soluzione nella difesa della forma giuridica dell’equivalenza.

Lo hanno detto con lucidità i movimenti americani, a partire dalle lotte condotte da Black Lives Matter, quando hanno immaginato, e a volte cominciato a sperimentare, un’alternativa al controllo di polizia, con le campagne che si sono mosse al grido di Defund the police[26]. L’intrecciarsi delle lotte di classe, razza e genere ha condotto a riaprire l’immaginazione di qualcosa di altro e di diverso dal diritto penale, rifacendo emergere quel potente fiume carsico che è la prospettiva della democrazia abolizionista, che ha sempre avuto come orizzonte l’allargamento delle lotte contro il sistema penitenziario per farne una prospettiva generale di politicizzazione della società[27].

Questo terreno mostra come la “vecchia” tesi sull’estinzione dello stato si libera, nelle condizioni attuali, dei residui “oggettivisti” e si fa terreno di lotta, animato dalle soggettività “coalizzate” dei movimenti intersezionali. Quello che ieri poteva essere un limite di Pašukanis, la centralità esclusiva della sua attenzione sul diritto privato, oggi suona come un invito ad agire in modo connesso su tutto il campo della regolazione, nell’intrecciarsi di lotte contro lo sfruttamento e contro l’oppressione, connettendo le ragioni, che tornano di attualità, dell’abolizionismo penale[28] con la sperimentazione di forme più generali di regolazione alternativa del “sociale”. Immaginare altre forme di regolazione, immaginare un’altra misura oltre il soggetto formale e la norma che ne impone l’equivalenza, è la sfida oggi per non restare impotenti davanti al deperimento della forma giuridica statuale e della sua mediazione, per trasformarla in occasione di invenzione di nuove istituzioni.

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[1] Per una lettura molto attenta alla contestualizzazione del pensiero giuridico di Pašukanis negli eventi e nel relativo dibattito politico-giuridico degli anni Venti in U.R.S.S., cfr. M. Head, Eugeny Pašukanis. A Critical Reappraisal, Routledge, Oxon-New York 2008, e sul più ampio panorama della scienza giuridica sovietica degli stessi anni, Id., Marxism, Revolution and Law, VDM Verlag, Saarbrücken 2010.

[2] La tesi teorico-generale di Pašukanis è indubbiamente concentrata nel libro del 1924. Sono significativi, però, almeno dal punto di vista della tragedia biografica, i diversi ritorni sul tema degli anni Trenta, che procedono a sempre più esplicite correzioni e vere e proprie ritrattazioni: che evidentemente, però, poco potevano nascondere del nucleo teorico centrale della sua teoria. Un accesso a un’antologia degli altri scritti di Pašukanis in lingua inglese è disponibile in E.B. Pašukanis, Selected Writings on Marxism and Law, tr. by P.B. Maggs, R. Sharlet, P. Beirne (eds.), Academic Press, London 1980. Sul Pašukanis degli anni Trenta, cfr. il recente studio di Carlo Di Mascio, Note su Hegel. Stato e diritto di Evgeny Pašukanis, Phasar, Firenze 2020, attenta analisi di un saggio del 1931. Di Di Mascio è molto utile anche l’analisi complessiva della teoria giuridica di Pašukanis in C. Di Mascio, Pašukanis e la critica marxista del diritto borghese, Phasar, Firenze 2013.

[3] Su quella stagione del “marxismo giuridico italiano”, per un’attenta lettura critica che utilizza proprio il riferimento a Pašukanis (al cui pensiero dedica un’ampia analisi) come strumento critico per leggere la contraddizione insita nell’idea stessa di un “marxismo giuridico”, cfr. L. Nivarra, La grande illusione. Come nacque e come morì il marxismo giuridico in Italia, Giappichelli, Torino 2015.

[4] Cfr. sul rapporto diritto e movimento dei beni comuni S. Chignola (a cura di), Il diritto del comune. Crisi della sovranità, proprietà e nuovi poteri costituenti, ombre corte, Verona 2012 e M.R. Marella (a cura di), Oltre il pubblico e il privato: per un diritto dei beni comuni, ombre corte, Verona 2012. Più in generale, l’elaborazione teorica più strettamente legata a questo ciclo di lotte è in M. Hardt, A. Negri, Comune. Oltre il pubblico e il privato, tr. it. di A. Pandolfi, Rizzoli, Milano 2010.

[5] Nota Antonino Scalone come dagli anni ’60 in poi la lettura di Pašukanis abbia contribuito a diffondere negli studiosi di orientamento marxista la convinzione che l’interpretazione riduzionista del diritto attribuita a Marx sia del tutto ingiustificata: così appunto A. Scalone, Diritto e soggettivazione in Marx, in L. Basso, M. Basso, F. Raimondi, S. Visentin (a cura di), Marx: La produzione del soggetto, DeriveApprodi, Roma 2018, pp. 49-74.

[6] Cfr. N. Bobbio, Democrazia e dittatura, in Id., Politica e cultura, Einaudi, Torino 1955, p. 155, e, su Vyšinskij che recupererebbe in qualche modo lo stato di diritto, Id., Studi sulla teoria generale del diritto, Edizioni di Comunità, Milano 1955, p. 99. Sul confronto tra Vyšinskij e il normativismo, con riferimento anche a Bobbio, cfr. l’introduzione di U. Cerroni a Stučka, Pašukanis, Vyšinskij, Strogovič, Teorie sovietiche del diritto, Giuffrè, Milano 1964 p. XIV. e in questa antologia A.Ja. Vyšinskij, Problemi del diritto e dello Stato in Marx, pp. 241-297. Di U. Cerroni è sicuramente ancora indispensabile come introduzione a tutta la vicenda della giurisprudenza sovietica Il pensiero giuridico sovietico, Editori Riuniti, Roma 1969.

[7] Il più severo e famoso dei critici di Pašukanis come semplice riduzionista del diritto ai rapporti economici è sicuramente Hans Kelsen, La teoria comunista del diritto, tr. it. SugarCo, Milano, 1981.

[8] Cfr. É. Balibar, La filosofia di Marx, tr. it. a cura di A. Catone, Manifestolibri, Roma 2005, p. 86.

[9] Infra, p. 66, rimprovera appunto anche a Stučka, pur riconoscendogli di cominiciare anche lui dall’analisi dei rapporti di produzione e di scambio, di trascurare i “caratteri specifici” del diritto e lo sviluppo della forma giuridica. Insomma, di restare ancora impigliato in una definizione esclusivamente storico-sociologica degli interessi di classe, mentre andrebbe sviluppata l’analisi della “forma storicamente determinata” che quegli interessi assumono nella regolamentazione giuridica. Per la definizione del diritto in Stučka, cfr. P.I. Stučka, La funzione rivoluzionaria del diritto e dello Stato, in Teorie sovietiche del diritto, cit., pp. 5- 74.

[10] Infra, p. 77.

[11] Infra, p. 78.

[12] Infra, p. 78.

[13] Infra, p. 80.

[14] Altre volte chiamata commodity form theory of law. Non sono formule rintracciabili in Pasukanis ma sono ormai di comune uso per indicarne il modello teorico complessivo: un uso che segnala anche che la discussione sulla legal form come rapporto analogico tra forma giuridica e tra forma merce ha oggi conquistato una certa autonomia teorica dagli studi più strettamente interpretativi del pensiero di Pašukanis.

[15] Infra, p. 54.

[16] Infra, p. 54.

[17] Cfr. A. Negri, Rileggendo Pašukanis. Note di discussione, in Id., La forma stato. Per la critica dell’econo- mia politica della Costituzione, Baldini Castoldi Dalai, Milano 2013, p. 223

[18] Per la critica di queste letture istituzionalistiche e sociologiche di Pašukanis, cfr. ancora A. Negri, Rileggendo Pašukanis, cit. p. 221.

[19] Cfr. K. Korsch, Appendix: An Assessment by Karl Korsch, in E.B. Pašukanis, Law and Marxism. A  General Theory, tr. by B. Einhorn, Pluto Press, London 1989, pp. 189-195.

[20] Infra, p. 73.

[21] Infra, p. 73.

[22] Infra, p. 74.

[23] Riferimenti alla cattiva utopia che può essere contenuta in questo passaggio sono in M. Cossutta, Formalismo sovietico. Delle teorie giuridiche di Vyšinskij, Stučka e Pašukanis, ESI, Napoli, 1992, pp. 152-155. Sul rischio, di “oggettivismo”, in parte inevitabile date le condizioni, come caratterizzazione generale della tendenza nella transizione (ma anche sulla tendenziosità delle letture che vorrebbero appiattire su questo Pašukanis), ancora A. Negri, Rileggendo Pašukanis, cit., pp. 256-263.

[24] Infra, pp. 145-160.

[25] Infra, pp. 175-196.

[26] La sperimentazione di prospettive alternative al controllo di polizia poggia su un ampio dibattito precedente all’esplosione del movimento a seguito delle proteste in seguito all’uccisione di George Floyd nel maggio del 2020. Una sorta di “manuale” del movimento è il saggio di Alex S. Vitale, The End of Policing, Verso, London 2017.

[27] La democrazia abolizionista, nei suoi molteplici e connessi sensi, ha una lunga tradizione, da W.E.B. Du Bois ad Angela Davis. Cfr. A. Davis, Aboliamo le prigioni? Contro il carcere, la discriminazione, la violenza del capitale, Minimum Fax, Roma 2022, con una introduzione di Valeria Verdolini importante per comprendere le prospettive dei nuovi movimenti intersezionali nelle lotte abolizioniste.

[28] Una sintesi molto efficace delle ragioni vecchie e nuove dell’abolizionismo penale è ora in L. Ferrari, G. Mosconi, Perché abolire il carcere? Le ragioni di “No Prison”, Apogeo, Adria 2021.

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