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A cura di MARIA ROSARIA MARELLA
Fra la fine degli anni 60 e la metà degli anni 70 le lotte operaie culminate nelle occupazioni delle fabbriche trovano una sponda in una certa giurisprudenza pretorile che individua un fondamento normativo, e specificamente costituzionale, nel loro organizzarsi come contropotere all’interno delle relazioni industriali. Nelle pagine che seguono riproduciamo stralci della motivazione di un’ordinanza della Pretura di Fiorenzuola D’Arda datata 23 aprile 1971, che per la sua nettezza sollevò polemiche e discussioni sia sulla stampa che fra i giuristi. In essa si afferma l’inammissibilità del ricorso alle azioni possessorie da parte del padrone in caso di occupazione di azienda, qualificando la stessa come forma atipica ma pienamente legittima di autotutela dei lavoratori, in quanto titolari di un diritto soggettivo perfetto alla gestione dell’impresa.
Fonte: Pretura Fiorenzuola D’Arda, 23 aprile 1971 (Ord.), in Rivista giuridica del lavoro, 1971, II, pp. 843-853.
[…] Nel merito si pone una questione preliminare di ammissibilità, in linea generale, della tutela possessoria nelle ipotesi di occupazione di azienda da parte delle maestranze. Il problema si pone, solo che si consideri l’enorme distanza storica che separa il sorgere dell’istituto del possesso e delle relative azioni e il sorgere dei conflitti all’interno dell’impresa: tipici della civiltà industriale questi e di una società arcaica e prevalentemente rurale i primi.
Appaiono a prima vista difficilmente compatibili un istituto sorto in epoca in cui la tutela della proprietà era assoluta e il lavoratore si trovava in un totale stato di subordinazione e, sovente, nella condizione di cosa, con i princìpi sanciti nella Costituzione in materia di attività economica; principi che pongono il lavoro a fondamento della Repubblica e che, riconoscendo il diritto dei lavoratori di collaborare alla gestione dell’impresa, hanno come fine il superamento della concezione del lavoro come merce e come mezzo nonché della posizione di inferiorità e dipendenza del lavoratore, per fare di questi un responsabile protagonista della vita politica e economica. La novità di impostazione dei rapporti all’interno dell’impresa data dalla Costituzione, mostra l’inadeguatezza del ricorso alla tutela possessoria nelle ipotesi di occupazione di azienda. I diritti reali e il possesso configurano rapporti semplici, statici, che si esauriscono in un potere di diritto o di fatto sulla cosa, potere a cui non è necessariamente connesso un fine che lo trascenda. L’impresa, invece, è concepita come una entità dinamica, orientata alla produzione e alla realizzazione del diritto al lavoro; momento di creatività, di collaborazione, di piena espressione delle potenzialità delle persone che vi hanno parte.
La Costituzione fonda chiaramente l’impresa sulla collaborazione dell’imprenditore e dei lavoratori — è ben diversa la collaborazione di cui all’art. 46 Cost., che attiene alla amministrazione della azienda nel senso lato di attività normativa e direttiva del processo di produzione, degli investimenti, delle scelte che in qualsiasi modo riguardano la vita dell’impresa, tra cui quelle relative all’ espansione, alla trasformazione e alla chiusura dell’impresa stessa, dalla «collaborazione » di cui agli articoli 2086-2094 cod. civ., collaborazione questa meramente tecnica e, in realtà, subordinazione assoluta del lavoratore all’imprenditore —; la gestione deve pertanto essere comune e ad essa i lavoratori hanno un diritto soggettivo perfetto.
Ne consegue che tutti i poteri nell’ambito della impresa spettano congiuntamente all’imprenditore e ai lavoratori; che il potere, di diritto o di fatto, sulle cose pertinenti all’impresa viene assorbito dal diritto di gestione comune. Al potere esclusivo di un solo subentra il potere partecipato di tutti sul complesso funzionale costituito dall’azienda. Può dirsi quindi che, costituita l’impresa, ogni rapporto preesistente fra l’imprenditore e le cose entra in uno stato di quiescenza e che conseguentemente, i conflitti tra imprenditori e lavoratori, anche quelli che coinvolgono poteri sulle cose comprese nell’azienda o sui prodotti, siccome attinenti alla gestione della impresa, dovranno essere risolti in base alle norme che tale gestione regolano. Tra queste non può certamente essere compresa la disciplina delle azioni possessorie, essendo evidente, per i motivi già esposti, l’incompatibilità tra la funzione delle stesse e quella dell’art. 46 della Costituzione.
Il ricorso alla la tutela possessoria nell’ipotesi di occupazione di azienda da parte delle maestranze è pertanto inammissibile. […] Allo stato, mancando una disciplina legislativa e, generalmente, convenzionale, del rapporto di collaborazione nella gestione dell’impresa, la soluzione degli eventuali conflitti sarà rimessa, nella maggior parte dei casi, al libero dispiegarsi degli strumenti tipici e atipici di autotutela previsti dalla Costituzione o ad essi riconducibili, nei limiti ricavabili dall’ordinamento. Tra questi strumenti possono certamente comprendersi l’occupazione della fabbrica e il conseguente blocco dei prodotti finiti. Essi, sebbene non esplicitamente previsti dalla Costituzione, appaiono ammissibili in relazione ai princìpi in essa contenuti. Prevedendo il diritto di sciopero, la Costituzione non ne specifica le forme, rimettendole alla disciplina della legge ordinaria; in difetto di tale disciplina non può trascurarsi, da parte dell’interprete, che l’occupazione costituisce una prassi diffusa da lungo tempo e che sola, a volte, è in grado di realizzare quegli obiettivi di autotutela per cui la Costituzione ha riconosciuto ai lavoratori il diritto di sciopero. Il giudice, inoltre, nel momento in cui è chiamato a giudicare sulla legittimità di una azione collettiva dei lavoratori, non può esimersi dall’applicare la norma di cui all’articolo 3, 2° comma Cost., diretta a garantire la eguaglianza di fatto dei cittadini e la effettiva partecipazione dei lavoratori, alla organizzazione politica, economica e sociale del Paese e, conseguentemente, dal valutare caso per caso l’adeguatezza e proporzione dell’azione collettiva a contrastare il potere antagonista che tale eguaglianza e partecipazione in pratica conculca […]. Appare pertanto nella linea dell’attuazione dell’articolo 46 Cost., allo stato della legislazione, la condotta delle maestranze della società Faini. Esse infatti, facendo ricorso agli strumenti di autotutela collettiva di cui sopra, hanno attuato una pressione sull’imprenditore affinché decida diversamente in merito alla costruzione del nuovo stabilimento e alla riduzione del lavoro; si tratta infatti di decisioni che rientrano, indubbiamente, nel concetto di gestione dell’impresa.