Di SIMONE PIERANNI.

Crediamo un po’ tutti di sapere qualcosa di quanto è successo in Cina, in particolare a Pechino, trent’anni fa. Classifichiamo genericamente i «fatti di Tian’anmen» come caratterizzati da proteste e richieste di riforme democratiche da parte degli studenti e dalla dura risposta del Partito comunista che portò al «massacro di Tian’anmen».

Sappiamo anche che Pechino ha cancellato quelle giornate dalla storia: non se ne parla, non se ne può parlare, non si trova niente al riguardo sulla rete cinese «armonizzata», ma non sarà più facile trovare un giovane cinese che ne sappia qualcosa. Questi sono tutti fatti piuttosto noti. In verità, però, nelle giornate di maggio e giugno 1989 confluirono molti più elementi.

Intanto in piazza c’era molta gente, studenti e non solo. Certo, le storie dei «leader» della piazza pechinese hanno avuto ampia attenzione mediatica anche anni dopo i fatti: alcuni sono riusciti a scappare, grazie alla solidarietà di molte persone; alcuni hanno raggiunto Hong Kong e da lì sono poi volati negli Stati Uniti.

C’è chi ha raccontato quelle giornate, chi ha cambiato vita, chi è diventato miliardario, chi si è convertito al cristianesimo. Meno particolari – invece – si conoscono delle vite dei morti (300 per il Partito comunista, molti di più, migliaia per attivisti, familiari delle vittime e alcune organizzazioni umanitarie), così come sulle storie delle migliaia di persone arrestate (l’ultimo a essere uscito di prigione nel 2016 era un operaio, mentre molti dei protagonisti di quei giorni si ritrovano in The People’s Republic of Amnesia: Tian’anmen Revisited di Louisa Lim).

Si è discusso poco – sui media – delle problematiche insite all’interno dello stesso «movimento studentesco» (a questo proposito Pechino è in coma di Ma Jian è un ottimo libro per comprendere anche alcuni errori e limiti della protesta studentesca).

Ancora meno si conoscono – o non si sottolineano – le condizioni economiche e il «clima» delle fabbriche in quegli anni cruciali anche per la Cina di oggi. Analogamente la scelta di scatenare l’esercito contro le persone in strada e nelle piazze effettuata dal Partito comunista, avvenne in un momento drammatico per il Pcc: la Rivoluzione Culturale, almeno i suoi strascichi, erano terminati solo da dieci anni.

Le riforme volute da Deng Xiaoping stavano velocemente cambiando il paese, portando a valutare il «rendimento» degli stessi funzionari in maniera diversa da quanto accadeva in passato.

Il Partito stava passando dalla «gestione politica» del paese a quella «economica»: ne conseguirono problematiche del processo di cambiamento e un generale dilagare della corruzione, uno dei tanti motivi della contestazione di quel periodo.

Anche per questa complessità, «i fatti di piazza Tian’anmen» sono ancora al centro di analisi e, talvolta, di nuove rivelazioni.

In mezzo al marasma di diverse interpretazioni, valutazioni e consuete semplificazioni, rimane quanto avvenuto: il massacro perpetrato ai danni di studenti, operai e semplici cittadini pechinesi; rimane la drammatica decisione del Partito comunista di procedere alla repressione al termine di uno scontro interno che segnerà per sempre la vita del Pcc; rimane la «primavera cinese», frutto di un periodo di intensa vivacità politica e culturale durante gli anni ’80 in Cina.

Il 1989 è fondamentale nella storia recente della Cina, perché è l’anno nel quale si rinnova il contratto sociale tra popolazione cinese e Partito comunista, proiettando il paese verso la crescita economica che l’ha portata, oggi, ad essere una potenza globale.

Cominciamo dalla fine: il massacro di Pechino

Nel giugno del 1998 il presidente degli Stati Uniti Bill Clinton si recò in Cina e partecipò alla cerimonia di benvenuto in piazza Tian’anmen a Pechino. I media americani criticarono il presidente: Clinton – questa l’accusa – in nome del riavvicinamento alla Cina dopo l’embargo dovuto ai fatti del 1989 – celebrava proprio sulla Tian’anmen l’oblio che il Partito comunista aveva sancito su quanto era accaduto.

A questo proposito, è interessante osservare come dal 1949 in avanti Washington si sia sempre dimostrata molto preoccupata della Cina durante la sua fase «maoista». Si trattava di una preoccupazione ideologica, naturalmente, basata sulla paura che il comunismo si diffondesse sempre di più; poi, con le aperture di Deng Xiaoping, gli Usa – ben felici di spezzare il fronte comunista internazionale e isolare l’Unione sovietica – hanno cominciato un lungo processo di avvicinamento alla Cina, finendo per accompagnare Pechino verso il Wto (l’adesione cinese arriverà nel 2001, mentre si contestava la globalizzazione a Genova e quando la storia degli Usa stava per cambiare per sempre).

Per supportare l’ingresso della Cina nei meccanismi economici mondiali, gli Usa hanno deciso di ingoiare anche episodi come quelli del 1989, creandosi così il «nemico» futuro e dimostrando di sbagliare più volte la valutazione circa la possibilità che le riforme economiche avrebbero portato automaticamente la democrazia.

Anzi, proprio il 1989 dimostra il contrario: fu quanto accadde il 4 giugno 1989 a sancire la via autoritaria al capitalismo globale della Cina. Secondo Naomi Klein, fu quello «shock» a immettere definitivamente la Cina nella carreggiata neoliberista della globalizzazione.

Tornando al 1998: sulla visita di Clinton in Cina e le polemiche relative al luogo simbolo di quanto accadde nel 1989, intervenne Jay Mathews, giornalista del Washington Post presente a Pechino nel 1989. Mathews si sentì in dovere di specificare – dieci anni dopo – qualcosa riguardo i fatti di Tian’anmen, partendo da un’apparente questione di lana caprina: associare la parola «massacro» a «Tian’anmen», sostiene, è un errore, perché nella piazza non vi fu alcun massacro.

I morti ammazzati dall’esercito non sono messi in dubbio ma Mathews, come tanti altri testimoni, giornalisti e non, ricorda che «il governo cinese stima più di 300 morti. Le stime occidentali sono leggermente più alte. Molte vittime sono state uccise da soldati nelle distese di Changan Jie, il viale dell’Eterna pace, a circa un miglio a ovest della piazza, e in scontri sparsi in altre parti della città, dove, va aggiunto, alcuni soldati sono stati picchiati o bruciati a morte da lavoratori arrabbiati».

Precisiamo subito una cosa: nessuno – a parte qualche iper complottista o negazionista improvvisato – mette in dubbio quanto accaduto a Pechino, e in altre città della Cina, nel 1989.

Ma, come scrive, Mathews, cominciare a precisare come l’informazione abbia «semplificato» i fatti, permette anche di comprendere una prima importante complessità di quanto accaduto nel 1989.

«Il problema – specifica Mathews – non è tanto quello di mettere gli omicidi nel posto sbagliato, ma suggerire che la maggior parte delle vittime fossero studenti. Come scrivono in Black Hands of Beijing: Lives of Defiance in China’s Democracy Movement, George Black e Robin Munro, quello che accadde non fu il «massacro» degli studenti, ma dei lavoratori e dei residenti ordinari – esattamente l’obiettivo che il governo cinese si era prefisso».

Black e Munro sostengono inoltre che la repressione più violenta si è verificata nella periferia occidentale di Pechino, non in piazza Tian’anmen. Lì, come ha sostenuto Jonathan Fenby, esperto di Asia e Cina, c’è stato un «massacro» contro operai e residenti. Centinaia di lavoratori sono stati macellati per le strade. Ecco perché alcuni studiosi e dissidenti cinesi preferiscono usare l’espressione «il massacro di Pechino» anziché il massacro di piazza Tian’anmen.

Il Partito

In che modo il Partito comunista ha assistito all’aumento delle proteste, concomitanti, a fine maggio, con la visita in Cina di Michail Gorbacev? Si tratta di uno dei temi più interessanti di quanto ruota intorno al 1989: il Partito comunista attraversò molte vite in quei giorni, vi furono epurazioni, scontri terribili, la constatazione di un «comitato permanente» parallelo composto dagli «Otto Immortali» e addirittura la nomina – con metodi che di fatto furono incostituzionali – di Jiang Zemin, allora sindaco di Shanghai, a nuovo segretario del Partito comunista.

Il fatto che ad essere ammazzati per lo più furono i lavoratori, permette di capire anche il modo attraverso il quale il Partito filtrò quando proveniva dall’esterno, non tanto e non solo da piazza Tian’anmen. Nel 1989 il Partito aveva già provveduto da due anni a eliminare politicamente Hu Yaobang, un riformista considerato troppo indulgente con le proteste che dal 1986 avevano cominciato a caratterizzare quella stagione cinese.

Hu Yaobang morirà il 15 aprile del 1989 per un attacco di cuore durante una riunione del Partito e il cordoglio per la sua morte diventerà la miccia definitiva per la protesta degli studenti che da allora occuperanno Tian’anmen.

Fu Deng Xiaoping a decidere l’epurazione, pur essendo Hu Yaobang il suo erede designato (e Hu sarà riabilitato solamente nel 2005). Proprio il vecchio Deng era il grande manovratore dal Pcc, nonostante vivesse in una abitazione privata, distante da Zhongnanhai, il Cremlino cinese; era dotato di uno staff in grado di rifornirlo di informazioni costanti su quanto stava accadendo nel paese.

Nell’abitazione del vecchio Deng si svolgeranno le riunioni più importanti in quei giorni concitati del giugno 1989. Deng, grande classe politica e abilità strategica, comprese subito il problema: se la protesta degli studenti si fosse allargata agli operai sarebbe stato un disastro per il Pcc.

Le riforme, ripeterà più volte, devono procedere e per procedere serve ordine, serve che la popolazione lavori, invece che protestare.

Sistemato Hu Yaobang tutto sembrava potenzialmente risolto, ma il suo sostituto Zhao Ziyang era ugualmente un riformatore, fatto che costitituì ben presto un problema per gli «Otto Immortali».

Nel 2001 è stato pubblicato un libro, Tian’anmen Papers, che contiene materiale davvero straordinario per comprendere al meglio quanto accade all’interno del Pcc in quelle giornate.

Come racconta Marina Miranda in Mondo Cinese nel 2001, si tratta di «una raccolta di documenti neibu, cioè altamente riservati e a circolazione limitata all’interno del Partito Comunista Cinese». Questi riservatissimi documenti sarebbero stati rilasciata da una persona molto interna ai meccanismi fondamentali del Partito.

Il whistlebowler della situazione ha scelto un nome particolare. Zhang Liang, «presumibilmente un alto funzionario del Partito; la scelta di tale nome – scrive Miranda – ha un chiaro significato politico: è quello di uno stratega scomparso nel 187 a.C.3, noto per il suo odio contro l’esecrata dinastia Qin (221-207 a.C.), al cui governo tirannico viene paragonato il regime del Partito Comunista». Ai Qin fu associato – naturalmente – anche Mao. E di recente perfino Xi Jinping. I Qin, secondo il sinologo Kai Vogelsang, non solo realizzarono la prima idea di Impero cinese come siamo abituati a concepirla oggi, ma crearono un sistema sociale ipercontrollato.

Tornando al 1989: i documenti di Tian’anmen Papers sono preziosi, e ci si è interrogati non poco sulla loro autenticità. A questo proposito Miranda risolve la querelle come molti altri esperti di Cina, ovvero affidandosi, giustamente, al prestigio di chi quei documenti li ha raccolti: «come garanzia dell’autenticità del materiale può, tuttavia, essere considerata la fama di serietà accademica di cui godono i curatori del volume, Perry Link, docente di Lingua e Letteratura Cinese all’Università di Princeton e Andrew J. Nathan, docente di Scienza Politica alla Columbia University».

Gli anni ‘80 e le proteste

Ilaria Maria Sala, presente a Pechino nel 1989, ha raccontato di recente lo spirito di quella primavera cinese: il 1989, infatti, è l’acme di una stagione davvero particolare in Cina: alla fine degli anni ’80 «il paese era nel pieno del fermento sociale, politico e culturale, scrive Ilaria Maria Sala, un mondo che era inebriante di possibilità: riviste e giornali erano più interessanti, con lunghi pezzi investigativi in pubblicazioni come Baogao Wenxue (Reportage letterario)».

Nel 1988 «c’era una profondità di riflessione sulla storia cinese», vennero poste nuove domande sull’identità e la cultura cinese. Perry Link della Princeton University, uno degli studiosi cinesi che si è occupato dei Tian’anmen Papersraccontava, scrive Sala, che «In tutti i campi, ogni intellettuale stava facendo queste grandi domande. Si tratta di un enorme contrasto con quanto accade oggi».

Le possibilità sembravano infinite. Nel campus, «le bacheche pubblicizzavano corsi di lingua e danza e forum di discussione che permettevano agli studenti di parlare abbastanza liberamente su una varietà di argomenti».

Contemporaneamente c’era un mondo del lavoro in pieno stravolgimento.

Da un punto di visto economico il periodo di Riforme aveva creato due tendenze evidenti: la proletarizzazione di larghe masse della popolazione e la nascita di una nuova categoria di capitalisti.

Il processo di proletarizzazione è avvenuto grosso modo attraverso tre fattori: la migrazione forzata dalle campagne alle città, il collasso delle imprese statali nelle città e la dissoluzione delle imprese di villaggio. Lo spostamento rurale verso le città è stato vasto, contando circa 120 milioni di persone dal 1980, si tratta della la più grande migrazione nella storia del mondo (Walker R. & Buck D., The Chinese roadCities in the Transition to Capitalism, New Left Review, Agosto 2007).

Un secondo fattore responsabile della creazione di una nuova classe salariale in Cina è stato lo smantellamento delle imprese di proprietà statale (SOE).

Le SOE erano state il fulcro dell’industrializzazione maoista, pari a quasi quattro quinti della produzione non agricola. La maggior parte di questi colossi era situata nelle città, dove erano impiegati circa 70 milioni di persone nel 1980. Il primo smantellamento è cominciato nel 1988 e ha avuto una sua rapida esecuzione dopo lo shock del 1989, quando un altro giro di vite è arrivato all’interno di un’economia surriscaldata e inflazionistica.

Ulteriori riforme sono state effettuate nel decennio successivo, a confermare l’importanza di quanto avvenuto nel 1989: nel 1994 venne incoraggiata l’efficienza attraverso la riduzione della forza lavoro. Questa direttiva ha dato luogo ai licenziamenti di massa alla fine del 1990, quando il capitalismo cinese ha conosciuto la sua prima crisi di sovrapproduzione, «segnando una netta transizione dalla vecchia economia della scarsità alla nuova economia del surplus». Il risultato fu clamoroso: nei primi anni del 2000 l’occupazione nelle imprese statali era stata dimezzata, 40 milioni di persone si ritrovarono senza la tradizionale «ciotola di riso», simbolo e garanzia delle vecchie imprese di stato.

Per questo gruppo di individui, quasi sempre di mezza età, si apriva la prospettiva di trasformarsi in una sorta di «sottoclasse urbana»: come spiega Dorothy Solinger in Social Exclusion and Marginality in Chinese Societies (Hong Kong Polytechnic University, Centre for Social Policy Studies, 2003) «ironia della sorte, nella sua marcia verso la modernizzazione e la riforma economica, anche se la leadership cinese ha scatenato e incoraggiato le forze del mercato, contemporaneamente si è arrestato il pieno dispiegarsi di alcuni dei processi sociali principali che generalmente emergono altrove, come effetto della mercificazione.

Così in Cina, invece dell’aumento dei livelli di istruzione e l’imborghesimento di una larga parte della classe operaia come è successo in altri luoghi in concomitanza con lo sviluppo economico – e così vicini alla Cina, come la Corea del Sud , Giappone e Taiwan – questa informalizzazione dell’economia urbana ha rappresentato invece una regressione, per molta parte della popolazione urbana».

Peraltro questa fascia di popolazione urbana, doveva affrontare un difficile riposizionamento sociale e lavorativo, data la propria origine «culturale»: «la stragrande maggioranza di costoro sono stati privati di istruzione formale perché costretti a lasciare la scuola per partecipare alla rivoluzione culturale (e la maggior parte di loro ha vissuto un lungo periodo nelle campagne) nel corso del decennio dopo il 1966».

Questi processi che arrivano al loro culmine negli anni ‘90 sono figli di quanto accaduto in Cina a fine degli anni ‘80. Nell’ottobre del 1983 il Quotidiano del Popolo scriveva che i lavoratori cinesi non potevano certo lamentarsi: la recessione in gran parte del mondo capitalista nei primi anni ’80 consentiva alle autorità cinesi di ricordare ai lavoratori in patria che non avevano mai avuto tanto benessere, indicando l’alta disoccupazione in Occidente come prova della «superiorità del socialismo».

Per la dirigenza cinese quello era il momento giusto per ricordare i propri successi: come ha scritto Jackie Sheehan in Chinese Workers, a new history(London and New York, 1998), si era in una situazione nella quale «alcuni lavoratori già sentivano i benefici di un aumento delle retribuzioni e dei bonus previsti dalle riforme e tutti si aspettavano di beneficiarne nel prossimo futuro».

Ma queste aspettative finirono per scontrarsi con la realtà: «Tra i lavoratori l’idea di Deng Xiaoping sulle possibilità di arricchimento non era granché accettata» perché cominciavano ad emergere ingiustizie palesi: «Molti lavoratori furono profondamente offesi dalle differenze salariali. Il risentimento particolarmente acuto era stato generato dal crescente divario tra i bonus pagati ai lavoratori e quelli ricevuti dal top management dell’impresa, che a volte potevano essere venti o trenta volte superiori al salario di un lavoratore».

Ma gli effetti negativi delle riforme sulle relazioni tra lavoratori e quadri sono ben presto andati «oltre le dispute sull’aumento delle disparità di reddito, per quanto gravi fossero».

In un momento in cui veniva richiesta una sempre maggiore efficienza ai lavoratori, Deng lo ripeterà più volte nel corso delle ore concitate di maggio e giugno 1989, «le carenze di gestione diventavano un punto di discordia più significativo che mai». Dopo aver dunque manifestato solidarietà agli studenti, anche i lavoratori ben presto cominciarono a ribollire nel calderone cinese del 1989.

I «disordini» e l’esito finale

In questo contesto, la presenza degli studenti in piazza Tian’anmen cominciò a procurare preoccupazione nel Partito comunista, timoroso di tornare alla Rivoluzione Culturale.

Sarebbe stato lo stesso Deng a esprimere questo cruccio, usando per la prima volta nell’ambito di una discussione il termine «disordini».

E sarà lo stesso termine che userà l’editoriale del Quotidiano del Popolo che il 26 aprile condanna in modo inequivocabile le proteste degli studenti. Il 26 aprile sarà la data di non ritorno della relazione tra il Partito comunista e chi protestava.

Da quel momento Deng lavorerà ai fianchi il comitato permanente, fino al drammatico voto sulla legge marziale (che sarà poi revocata solo nel 1990). Nella sua corrispondenza del 20 luglio 1989 sul The New York Review Of Books, Roderick MacFarquhar scriveva che «Diviso al vertice, il Partito comunista cinese non poteva più far fronte alle molteplici pressioni finendo per disgregarsi.

Mentre il premier Li Peng agiva da frontista incallito, era chiaro che le decisioni furono prese non dal Consiglio di Stato, né dal Politburo, né dal comitato permanente di cinque uomini, ma dal duumvirato responsabile della Commissione per gli affari militari, Deng Xiaoping e il presidente Yang Shangkun».

Il voto sulla legge marziale esplicita questo meccanismo particolare che si venne a creare: fondamentalmente solo Zhao Ziyang era favorevole ad ascoltare gli studenti e addirittura a favore di una sorta di «sconfessione» dell’editoriale del 26 aprile (idea che fu bocciata in modo fragoroso in particolare da Bo Yibo, uno degli Otto Immortali e padre del più recentemente noto Bo Xilai).

Tra il 26 e il 27 il comitato permanente del Politburo si ritrova a votare per la legge marziale.

I cinque membri votarono così: Li Peng e Yao Yilin si dichiararono favorevole, Zhao Ziyang contrario. Qiao Shi si astenne. A quel punto la palla passava agli Otto Immortali: i giochi erano fatti.

Come si legge sui Tian’anmen Papers, «La mattina del 18 maggio, gli Otto Immortali Deng Xiaoping, Chen Yun, Li Xiannian, Peng Zhen, Deng Yingchao, Yang Shangkun, Bo Yibo e Wang Zhen incontrarono i membri del Comitato permanente del Politburo Li Peng, Qiao Shi, Hu Qili e Yao Yilin e i membri della Commissione degli affari militari, il generale Hong Xuezhi, Liu Huaqing e il generale Qin Jiwei»: in questa occasione, di fatto, venne approvata la legge marziale.

Il segretario generale Zhao Ziyang non partecipò all’incontro: da lì a poco sarebbe stato esautorato. Prima di ritrovarsi agli arresti domiciliari, dove rimarrà fino alla sua morte avvenuta nel 2005, Zhao si recò in piazza, tra gli studenti alle 4 del mattino del 19 maggio. Accompagnato dal direttore dell’ufficio centrale del Partito Wen Jiabao (che tra il 2002 e il 2012 è stato primo ministro della Repubblica popolare) Zhao disse agli studenti, «Siamo arrivati ​​troppo tardi».

In precedenza, il 18 maggio, Li Peng e altri funzionari del governo si erano incontrati nella Grande Sala del Popolo con Wang Dan, Wuerkaixi e altri rappresentanti degli studenti. «Li disse che nessuno aveva mai sostenuto che la maggior parte degli studenti fosse stata impegnata in disordini, ma che troppo spesso le persone che non avevano intenzione di creare disordini lo avevano effettivamente provocato. Rimase fermo sul testo dell’editoriale del 26 aprilee disse che non era il momento giusto per discutere le richieste degli studenti. Wang Dan aveva detto che l’unico modo per far uscire gli studenti da Piazza Tian’anmen era quello di riclassificare il movimento studentesco come patriottico e permettere un confronto televisivo con gli studenti».

Non c’era più spazio per il compromesso: la decisione di «ripulire» la piazza arrivò direttamente da Deng Xiaoping e nella notte tra il 3 e il 4 giugno avvenne «il massacro di Pechino».

Da quel giorno per le strade della Cina si attuò una vera e propria caccia all’uomo, mentre nelle stanze del Partito comunista andava formandosi un’idea ben chiara: quanto accaduto non sarebbe dovuto succedere mai più.

Questo articolo è stato pubblicato su il manifesto il 4 maggio 2019. 

 

 

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