Di SANDRO MEZZADRA

Sanno ad esempio gli antropologi che l’individuo non è certo una figura universale: conosciamo anzi epoche storiche e formazioni sociali che ne prescindono del tutto. Eppure, scrive Francesco Raparelli in apertura del suo Singolarità e istituzioni. Antropologia e politica oltre l’individuo e lo Stato (Manifestolibri, pp. 170, euro 18), «nulla pare più indubitabile che il mondo brulichi di individui». Alle spalle di questa affermazione c’è ovviamente il peso di una storia secolare, che in Europa fin dalle origini della modernità ha posto l’individuo al centro dello sviluppo tanto del capitalismo quanto dello Stato. Non si tratta naturalmente di un individuo qualunque, tanto che poveri e folli, donne e neri furono a lungo esclusi da quella qualifica: l’individuo trovava anzi nella proprietà il criterio decisivo per l’accesso alla libertà – nel quadro di quello che in un libro importante Crawford B. Macpherson definì «individualismo possessivo».

È NOTO che la proprietà, all’origine del pensiero borghese, mostra caratteri propriamente «antropologici», ricapitola cioè una specifica concezione della natura umana senza cessare di essere contraddistinta dalla violenza implicita nella sua determinazione esclusiva. Proprietà è in particolare per Locke «proprietà della propria persona», e attorno a essa si organizza il gioco delle passioni e della ragione. Raparelli ricostruisce le metamorfosi di questa figura della proprietà, e dunque dell’individuo, situandosi proprio su questo terreno «antropologico» e sottolineandone l’assoluta materialità. La sua ricerca filosofico-politica scava nel tessuto delle passioni sia dal punto di vista storico sia con lo sguardo rivolto al nostro presente. E dell’individuo fa emergere tanto il segno del dominio che ne costituisce lo stigma quanto la miseria di un rapporto con il mondo mediato univocamente dalla proprietà e dalle passioni che le corrispondono.

A fronte dell’individuo, come sua piega interna e rovescio antagonistico, si staglia la figura che occupa il centro della scena nel libro di Raparelli: la singolarità, ovvero quel frammento di una «potenza comune» la cui unicità irriducibile appare fin da principio determinata dall’apertura al piano ontologico della relazione. Dall’interno di una cornice da tempo definita dalla riflessione di derivazione operaista sulla categoria di «moltitudine» (e sulla sua opposizione al «popolo»), l’insieme delle ricerche qui raccolte la innova in profondità sia per quel che riguarda l’inclusione di imprevisti interlocutori (da Hegel a Freud, da Avicenna a Castoriadis, per fare qualche esempio) sia sotto il profilo teorico.

MUOVENDO da un corpo a corpo con l’opera di Spinoza, Raparelli legge in particolare la differenza che contraddistingue la singolarità sotto la spinta dei più importanti movimenti degli ultimi anni – il femminismo, in particolare, ma anche Black Lives Matter – e ne propone una originale politicizzazione. La singolarità, nella sua articolata genealogia filosofica, è così proiettata nel cuore del Novecento, ed è in particolare indicata come assoluta protagonista della «rivoluzione globale del ’68»: in quell’anno, scrive Raparelli, «i molti irrompono nella scena in quanto molti … la politica del desiderio è lotta delle minoranze».
«Immaginazione» è termine chiave nella ricerca di Francesco Raparelli. Se il ’68 la voleva al potere, riscattandone lungo percorsi certo non lineari la natura spinozianamente produttiva, la «controrivoluzione» neoliberale l’ha posta negli ultimi decenni al lavoro: «forza produttiva sociale», come la ebbe a definire Herbert Marcuse nel 1969, l’immaginazione cessa così di nutrire una politica della liberazione e si riorganizza attorno alla razionalità di impresa. La stessa singolarità si presenta ora, in un tempo che sembra non finire, non tanto semplicemente sconfitta quanto trasfigurata. Nella composizione contemporanea del lavoro vivo, un concetto marxiano felicemente rivisitato da Raparelli, è infatti profondo il segno della singolarità – e della potenza comune di cui è espressione. Tanto più spettrale, e tuttavia terribilmente efficace, è oggi l’individualismo di massa, qui definito «il rovescio della singolarità» e descritto attraverso una accurata fenomenologia delle passioni e delle patologie che lo contraddistinguono.

MOLTO ANCORA vi sarebbe da dire su questo libro, ad esempio sulle pagine dedicate al ruolo della scienza o alla rivisitazione del concetto di alienazione. Lasciamo del resto alla lettrice immaginare esemplificazioni pratiche delle tesi appena richiamate in termini necessariamente astratti. In conclusione, è il caso tuttavia di segnalare che in un lavoro straordinariamente ricco di temi filosofici e di suggestioni teoriche Raparelli tiene ferma con determinazione la prospettiva di una politica della liberazione. Il nostro, scrive nell’introduzione, «è un mondo nel quale si continua a lottare», nel quale un insieme di movimenti ormai transnazionali interseca ogni giorno «le pretese di una vita degna, libera, ostile al patriarcato e al razzismo, finalmente comune».
È attorno al tema dell’istituzione, sottratta al monopolio statale, che Raparelli propone nell’ultima parte del libro i primi elementi di una nuova teoria dell’organizzazione all’altezza delle questioni poste da quei movimenti – nella prospettiva di consolidarne e potenziarne l’azione, di distenderla nel tempo e di farla durare. Sono temi destinati a rimanere a lungo al centro della discussione, e non certo solo di quella accademica.

Questo articolo è stato pubblicato su il manifesto l’11 dicembre 2021.

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