Di GIROLAMO DE MICHELE
Fra le conseguenze della sindemia generata dal covid-19, va annoverata una discussione, dai toni non sempre misurati e talora incattiviti, sulla nozione di «stato di eccezione», da alcuni polemisti usato come chiave di lettura per i provvedimenti emergenziali che i diversi governi hanno varato come contrasto degli effetti del virus – o, sostengono alcuni, cogliendo nel virus il pretesto per estendere l’uso, già in atto, di «pratiche politiche e giudiziarie che sfregiano i volti nobili delle comunità liberali e deturpano le loro forme costituzionali», contribuendo allo scivolamento verso «la regressione della politica e l’imbarbarimento delle sue forme costituzionali».
DA QUI LA NECESSITÀ, sentita da Mariano Croce e Andrea Salvatore, già avvezzi a questi terreni, e in particolare di dimostrata competenza sul pensiero di Carl Schmitt, di scrivere Cos’è lo stato di eccezione (Nottetempo, pp. 222, euro ), testo agile e scorrevole nella forma, puntuale e informato nei riferimenti, per affermare una tesi esplicitata sin dalla quarta di copertina: smentire questa teoria dello stato di eccezione.
Gli autori sottolineano che le divisioni binarie «fra bravi cittadini e pericolosi Giamburrasca, o tra cittadini responsabili e nostalgici delle dittature» non hanno contribuito a mettere nella giusta luce la necessità del dissenso, le cui ragioni devono essere trasparenti e accessibili al maggior numero di attori proprio per la tutela di ogni bene comune, salute pubblica compresa.
NE CONSEGUE un taglio epistemico che intende in primo luogo evidenziare, attraverso una minuziosa ricostruzione delle diverse, non continue fasi del pensiero di Schmitt, come il richiamo al giurista cattolico tedesco sia in buona parte frutto di una ricostruzione a posteriori, testualmente poco fondata, del suo pensiero. Ricostruzione che, al di là del suo valore interpretativo, mira a sottolineare con forza la distinzione fra «emergenza» ed «eccezione», e a criticare la troppo semplicistica sovrapposizione del presente con gli anni Venti e Trenta, nel quali Schmitt scrisse alcuni dei testi più citati: da Teologia politica (nel quale il concetto, e lo stesso termine, di «nemico» non compare) a Il concetto del ’politico’ (nel quale è assente ogni rimando allo stato di eccezione inteso come sospensione dell’ordine vigente).
SU QUESTO PIANO la critica dei due autori è persuasiva, così come lo sono i brevi, ma utili rimandi ad altri pensatori politici: da Machiavelli, nel cui lessico «emergenza» ed «eccezione» non hanno ruolo significativo, essendo la dittatura una misura a difesa della Repubblica in tempi straordinari il cui fine è evitare la trasformazione della Repubblica in tirannia; a Locke, la cui «prerogativa», cioè lo stato di emergenza, è giustificata dalla constatazione che esistono «circostanze impreviste e incerte», nelle quali leggi certe e inalterabili non riescono a svolgere il ruolo di guida.
Tema, quello del carattere ineguale, irregolare e mutevole della vita, su cui rifletteva, richiamandosi a Montaigne, l’ultimo Rodotà. Così come persuasiva è la distanza posta fra Hobbes e l’Hobbes di Schmitt. Lumeggiato Schmitt, Croce e Salvatore mettono in tavola un ulteriore carico, negando che la stessa dottrina dello stato di eccezione possa essere utile come chiave di lettura della contemporaneità, per il suo eccessivo semplicismo, che non coglie la pluralità delle emergenze che i governi si trovano a dover fronteggiare.
Seguendo Tom Ginsburg e Mila Versteeg, vengono evidenziate diverse tipologie di crisi, fra loro spesso intrecciate: di sicurezza nazionale, finanziarie, disastri naturali e crisi sanitarie. Una complessità che viene illustrata con un ficcante richiamo al concetto di dispositivo di Gilles Deleuze (forse rivolto a certi lettori poco attenti, o volutamente distratti, di questa pagina): la molteplicità delle linee di variazione dei dispositivi, che sfuggono a un’analisi non contestuale «che metta in contrappunto le tecniche di governo con l’insieme di concezioni e valori da esse messe in atto» non possono essere risolte tagliando col gladio decisionista il nodo della complessità.
Al tempo stesso, la citazione di un neo-schmittiano quale Vermeule, teorico di una «repubblica post-madisoniana» e di un rafforzamento del potere centrale di governo al limite dello Stato etico (per il quale si potrebbe spendere il termine «fascismo») mostra, oltre che l’inutilità, la pericolosità di una simile teoria.
PRESO CONGEDO dallo stato di eccezione, e consapevoli della crisi attuale, ci si potrebbe porre due questioni, per proseguire la discussione oltre questo libro. In primo luogo, se non esista un tratto di continuità fra le diverse fasi del pensiero schmittiano, ovvero il suo costante rigetto della legittimità del moderno: la descrizione della modernità di Schmitt appare segnata fin dalle sue premesse da un rifiuto del moderno che presenta somiglianze di famiglia con altre letture decadenti della storia, nelle quali si è radicata anche la cultura del sospetto nei confronti della scienza medica (fino a invocare un ritorno a Ippocrate).
La seconda: se i processi di decostituzionalizzazione, di dislocamento dei nodi decisionali, di finanziarizzazione, di gestione manageriale della cosa pubblica – che i concetti di emergenza o eccezione poco ci aiutano ad afferrare – siano ancora descrivibili nei termini di un liberalismo costituzionale da difendere, o se non sia necessaria una maggiore radicalità di approccio e di prassi.
Questo articolo è stato pubblicato su il manifesto il 15 marzo 2022.